1897 - 1945
I REGISTI (senza peli sulla lingua)
FERDINANDO
M. POGGIOLI
DI EUGENIO
GIOVANNNETTI
E' l'unico, nel cinema, che sappia creare un’atmosfera: che
abbia. sentimento nel significato umile della parola, tra il lirico e
l’idilliaco. Ma non sempre mi fido. L’esperienza m' ha insegnano a diffidar
degli atmosferici.
Dovevo aver qualcosa da un giornale letterario in
liquidazione. Avevan nominato liquidatore un avvocato intellettuale. Ci vado e
mi fà gran festa. Non mi davano un soldo, ma lui, l'avvocato, chiari’ illuminò
la situazione. Un’ avvocato - diceva deve creare atmosfere d’intesa, di
cordialità, di fusione. Ci fondemmo in una conversazione letteraria.
Mi condusse poi nella stanza da pranzo, a vedere una natura
morta di De Chirico: mele grosse come poponi, che cantavano contro un lenzuolo.
Ci fondemmo di nuovo.
Nel discender le scale, rifacevo, un po’ i miei conti. Avrei
dovuto avere un migliaio di lire: m'avevano pagato con un paio d'atmosfere.
Ferdinando M. Poggioli non pizzica soltanto: è atmosferico
dl buono; e con l' Addio giovinezza
ci ha rimessi tutti nella buon'aria dei vent’anni. Del resto, questo giovialone
conosce a meraviglia il cinema. Viene, come suol dirsi, dalla gamella. Ha fatto
le ossa nel montaggio, dopo aver cominciato nel 1936 con un ottimo
documentario: Paestum, e con un film
arioso: Arma bianca.
L’aria è la sua vocazione, nel senso buono della dannunziana
canzone a Verdi:
ci nutrimmo di lui come dell’aria
cui dà la terra tutti i suoi sapori.
Siamo oggi un po’ tutti figli dell'aria, e Poggioli, questo
cordialissimo Ariele, ci attira. L'aria nutre ormai le nostre più dolci illusioni.
Ricordo la sera in cui si dette, al Costanzi l’Emiral di Bruno Barilli. Il musicista non riconosceva più l’opera
sua. L'aveva intramezzata di pause, di silenzi larghi, accoglienti come canapê.
Il direttore d’orchestra, un barbaro, aveva calpestato tutto: e d'uno
spettacolo da sciorinare in tre buoni quarti d’ora, aveva fatto uno straccio
che durava, si e no, una trentina di minuti.
Il nostro Brilli non si riaveva dalla mortificazione. In
tanto disastro quelli ch'egli rimpiangeva senza fine erano proprio quei lunghi,
quei deliziosi silenzi atmosferici, di cui aveva invano tramezzata la sua
musica.
La sorpresa e la costernazione egli riassunse finalmente
nelle storiche parole: «Ci avevo messo tant’aria
dentro!».
Un significato intensivo da registrare alla voce «aria» nel
nuovo Dizionario dell'Accademia. Ma non so se lo faranno. I signori accademici
ci han già messo per conto loro tant'aria dentro a quel dizionario.
Torniamo al sodo. Ferdinando M. Poggioli rappresenta nel
nostro cinema non un patetico volgare ma una
bonomia calorosa. C’è veramente qualcosa di giovanile in
lui, non in quanto giovanile significhi sentimentale, ma, al contrario, in
quanto significa spregiudicato e brinoso ad oltranza.
La piega sentimentale è la grande insidia pel regista
Poggioli, quella che lo fa e lo farà sempre più proclive ad un romanticismo
lezioso e dolciastro, ad un Murger zuccheroso. Ha evitato brillantemente
quest’insidia in Addio giovinezza ma
non ha saputo evitarla in Amore canta,
in cui dava già nell’oleografico e nello sdolcinato, con quell’ «amoroso» troppo carino, ch'era già la donnina della
situazione.
Quella di cui il nostro cinema ha supremo bisogno è
l’allegria maschia, che non ha niente di comune con la chiassosa sentimentalità. Gli stessi personaggi di Addio giovinezza, a guardarci bene, non
sono che sentimentali chiassosi. Se l'eroe di quel film conoscesse la vita dal
lato della vera allegria, sposerebbe la sua brava sartina, infischiandosi del
giudizioso matrimonio combinato già per lui al paese. L’allegria virile è
quella ch'è sempre sicura di farsi una strada nel mondo, anche se tutto vada in
perdizione. Non ti fermare al cipresso bianco – raccomandavano gli orfici al
morto, Bisogna essere orfici a questa maniera. Voi mi combinate un cipresso
bianco al primo entrare nella vita. Io vado contando incontro al nero che
m’aspetta. ch`è il mio, ch'è quello dell'ilare disperazione.
Il miracolo del film Addio
giovinezza l'ha veramente fatto l’atmosfera ch'è calda, tenera, suasiva.
Nel film successivo, nell` Amore canta,
l’aria sapeva già di chiuso. Ma quel ch’era lampante in questo film era l'abiezione in cui lì nostra melodia è caduta. L’ Amore canta, era per l'assenza ciel
canto, la classica lepre in salmi’, cui è mancata soltanto la lepre. Uno striminzito, un
languido motivo giazzistico, nasato in parole inqualificabili, passa oggi, nel
paese del Bel canto, per una canzone.
Ma chi ci libererà di quest’ immonda giazzistica spazzatura
che la radio continua a gittare sull’ Italia? C'è da scrivere - e il nostro animoso Auditor porrebbe farlo -
un piccante saggio sull’Italia americanizzata.
L'America, ed un'America deteriore, ha invaso il nostro
costume sino ad impensabili profondità. Chi potesse elencare tutto quello ch'è
oggi d'americano nelle nostre idee, nei nostri gusti, nel nostro costume, un
po' per nostra campiacenza ed ancor più a nostra insaputa, farebbe una «segnalazione» nel più perfetto
significato americano della parola.
Le generazioni cresciute nel culto della melodia italiana
trovano insopportabile oggi il rabagliateggiare: ma
la piega giazzistica è più dura, più bronzea di quelle delle
statue di bronzo. Non ne vogliamo, certa, far culpa al nostro Poggioli che
piglia la melodia che trova. Ma bisognerà, pur venire, un giorno, ad una resa
di conti anche in questa materia.
La verità triste è che l'educazione musicale è ancora troppo
poco diffusa nel nostro paese: ed i nostri registi rappresentano perfettamente
in questo l'incultura nazionale. I nostri registi sono, quasi tutti, assolutamente
agnostici in fatto di musica. La musica è faccenda del musicista e non li
riguarda in modo alcuno.
Quanto un'educazione musicale più diffusa, un gusto più
nobile e sicuro. una delicatezza interiore del sentimento musicale, rialzerebbero
il tono del cinema italiano, è inutile dire. Se come spettacolo, il nostro cinema
è così ostinatamente proclive al filmaccio storico, se sa ancora così sovente
di «melo», la causa
è ben semplice: il gusto nazionale in musica non s’ è mai alzato d'un palmo al
di sopra del «melo»,
e la buona, la grande musica sinfonica interessa soltanto un pubblico d’eletti
e non la massa.
Il giorno in cui uno stadio si riempisse, come può accadere
in Germania (ed anche in America) per una sinfonia di Beethoven, molti film avrebbero in Italia un
altro tono. In America, intorno alla «
Messa » di Verdi, si sono avuti uditorii di quarantamila persone. Ecco
il solo americanismo che valeva la pena d’introdurre nel nostro Paese. Un gusto
più popolare per la musica pura, ci darebbe anche un cinema meno
chiassoso e più architetturale e più puro.
Siamo, ancora una volta, usciti dal seminato. Ci ritorniamo.
Ferdinando M. Poggioli non è più un uomo di primo pelo ma ha, da quando ha diretto Addio giovinezza, le simpatie dei giovani. Sentimentali o rompicolli, abbiamo tutti, in
fondo, molta fiducia in lui. E' un uomo che conosce bene il cinema ed ha
trovato, tra insidie e pericoli sempre presenti, un suo genere non volgare.
Purché non cada nel patetico e nello sdolcinalo purché non
ci regali un Marivaux filmistico, che sarebbe insopportabile, purché cerchi
d'elevarsi ad una gaiezza robusta e sostanziale, il Poggioli è un regista del domani, che può far cose eccellenti. Passato per una dura
trafila, è arrivato alla regia sulla maturità, da pochissimi anni cioè: ma la
maturità è saporosa già, benché sia quella iniziale del settembre, ancor pieno
di luci e di festa.
Aspettiamo con la più lieta fiducia i frutti di questa
bonomia festante e saporosa. La giovinezza non sa cantare sé stessa Solo il settembre
sa cantar bene In dolcezza d' aprile, in quanto gli somiglia e, anche se già lontano, può vederlo ancora alto sul ciglio della stessa
verde collina.
Eugenio Giovannetti
Opere di Ferdinando Maria Poggioli: Arma bianca, Impressioni
siciliane, Paestum, Presepii (1936) – Ricchezza senza domani
(1939) - Addio giovinezza (1940) – L’amore canta, Sissignora (1941).
film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO
TEATRO E RADIO ANNO V - N. 2 10 GENNAIO
1942 XX
La testata si riferisce al film Paura d’amare diretto da Gaetano Amata e interpretato da Camilla
Horn, Carlo Minella, Nino Marchesini (Prod. Andros – Vitafilm)
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