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lunedì 18 luglio 2022

The offender Charles Chaplin



Ladies and gentlemen, this is Charlie Chaplin talking.
This is Hollywood, California in 1915 with its sun-kissed oranges and lemon groves, before it was visited by the 3 horsemen of the apocalypse: Oil, movies and aeronautics, who strolled the earth uprooting the orange and lemon trees, and in their stead built factories and motion picture studios.
I was one of the offenders. I wanted a studio in a hurry.
In the States, they do things in a hurry.
And, as if by magic, I got it.
 
Signore e signori, parla Charlie Chaplin.
Questa è Hollywood, in California, nel 1915 con i suoi aranceti e limoneti baciati dal sole, prima che fosse visitato dai 3 cavalieri dell'apocalisse: Petrolio, cinema e aeronautica, che vagavano per la terra sradicando gli aranci e i limoni, e al loro posto costruirono fabbriche e studi cinematografici.
Sono stato uno dei trasgressori. Volevo uno studio in fretta.
Negli Stati Uniti, fanno le cose di fretta.
E, come per magia, ce l'ho fatta.
The Chaplin Revue, 1959


 

mercoledì 9 marzo 2022

Mozart, Dostoïevski... Bresson




"Robert Bresson est le cinéma français, comme Dostoïevski est le roman russe et Mozart, c'est de la musique allemande". Jean-Luc Godard


 

lunedì 7 febbraio 2022

Eastwood and Michelangelo



"The story is told that when Michelangelo was asked what he had seen in the one particular block of mar­ble, which he chose among hundreds of others, he replied that he saw Moses. I would offer the same answer to your question—only backwards. When they ask me what I ever saw in Clint East­wood, who was playing I don’t know what kind of second-rate role in a West­ern TV series in 1964, I reply that what I saw, simply, was a block of marble". 
Interview with Sergio Leone by Pete Hamill, 1984

giovedì 18 novembre 2021



Marlon Brando

Elio Petri

Bernardo Bertolucci

 

mercoledì 20 ottobre 2021

Vittorio De Sica fidanzato e uomo ideale


Vittorio De Sica (ben presto) verrà presto adorato e adottato come fidanzato e uomo ideale, per la
spontaneità del suo modo di parlare, per la compresenza nei suoi modi di fare di elementi popolareschi e tratti di nobiltà, cultura e buona educazione, per la capacità di incarnare le aspirazioni a un maggior benessere e alla promozione sociale delle platee popolari italiane. Con il suo modo di guidare una bicicletta o una macchina sportiva, di indossare un cappello, di apparire naturalmente elegante in divisa da autista o in smoking, per il suo modo di salutare, sedersi a tavola o semplicemente sorridere, diventa il naturale transfert del desiderio e dei sogni di un italiano che si affaccia timidamente e in punta di piedi sulla soglia di un paese che si sta industrializzando, ma sa assumere a pieno diritto un ruolo di protagonista sociale e guardare sempre e comunque con grande ottimismo al futuro.

Gian Piero Brunetta

lunedì 10 maggio 2021

Michelangelo Antonioni: Why and for whom did Mr. Hays speak?



 I CUSTODI DELLA CIVILTA'

LA LEGGEREZZA e l'ingenuità con cui gli americani trattano e risolvono talvolta le più grosse questioni restano, e resteranno sempre per fortuna, fuori della logica europea. Ce ne giunge l'eco a quando a quando ed è come di fatti che ci spingono dapprima al sorriso e poi ci fanno meditare; perché tutto ciò che è fatto dai nostri simili di ogni latitudine e longitudine ha sempre fatto meditare gli europei. La qual cosa, se è sintomo di una superiore intelligenza o per lo meno di una più robusta preparazione intellettuale, è anche dimostrazione chiara e lampante di una maggiore serietà.
Pare invece che agli americani questa parola non susciti alcuna soggezione a giudicare appunto dalla leggerezza, dall'avventatezza, dalla vacuità di certe loro asserzioni. Tanto che ormai risulta perfettamente inutile esprimere giudizi, fare valutazioni, eccetera, troppo essendo diversa la nostra unità di misura dalla loro. Conviene limitarsi a constatazioni le quali molto spesso hanno tanta evidenza che si commentano da sé.
Cosi quando apprendiamo che il senatore Borah per impedire che fosse approvata dal Congresso una legge che lo seccava, ha preso a parlare all'apertura della sessione e, approfittando del fatto che nessuno aveva il diritto di togliergli la parola, ha continuato fino alla chiusura della sessione stessa, interrompendosi solo per mangiare e dormire, è superfluo fare considerazioni.
Ed è inutile lambiccarsi il cervello per tentare di capire gli americani quando accettano ascoltandole attentamente e in buona fede relazioni come quella pronunciata da Will H. Hays alla radio. Tre ore filate ha parlato Will H. Hays, Presidente dell'Associazione Produttori e Distributori della cinematografia americana. Evidentemente la situazione europea preoccupa i cinematografari d'oltreoceano se il loro capo si è preso tanto disturbo. Di che cosa sia fatta poi codesta preoccupazione vedremo in seguito; intanto riconosciamo che il discorso del Presidente può benissimo riassumersi in poche righe.
«Oggi — ha detto Will Hays — che il mondo è impazzito per la guerra, l'America rappresenta più che mai un grande ideale. Essa ha il dovere di custodire la civiltà politica culturale e spirituale della razza umana: per questo non può entrare in guerra. Donne e uomini di tutti i partiti politici devono compiere ogni sforzo per mantener il paese fuori della guerra, perché solo in tal modo noi potremo adempiere il nostro più grande dovere, quello di custodi della civiltà, della libertà umana e della pace. I rappresentanti del cinema americano faranno bene a ritenere questa la più grande delle loro responsabilità in tale momento».
Veramente, quale sia il compito specifico del cinema in rapporto alla situazione, Hays non dice; ma è facile intendere che anch'esso dovrebbe svolgere quella propaganda intesa a preservare l'America dalla guerra.
«Malgrado l’handicap della perdita di molti mercati — ha concluso Hays — l'industria cinematografica americana riuscirà nel suo intento».
Ora, questa potrebbe anche essere una bellissima chiacchierata se non avesse un difetto fondamentale: quello di non convincere. Hays prima di tutto, così parlando, dimostra di essere in mala fede. E stupisce com'egli pensi di darla a bere agli industriali del cinema americano, gente astuta e tutt'altro che moraleggiante. Ma forse codesti industriali sanno che il loro presidente ha indirizzato ad altri le sue parole. A loro aveva già parlato in precedenza. E forse in questi tempi ha ripreso un discorso cominciato nel settembre dello scorso anno, quando le cose politiche d'Europa cominciarono a ingarbugliarsi. Fin da allora Hays aveva chiamato a rapporto i pezzi grossi dell'industria cinematografica americana e li aveva esortati a tenersi pronti per qualsiasi evenienza. Il che significava — e Will Hays era stato chiarissimo, tanto che poco dopo poteva contare su scenari già pronti per essere girati, come li voleva lui — preparare pellicole adatte ai tempi. Viene la guerra? Produrre pellicole per la guerra. Non vi è momento migliore per invadere i mercati. Né è da credere che oggi Hays abbia parlato diversamente. Non ci immaginiamo i Fox, i Goldwyn o i Warner preoccupati di salvaguardare la pace prima del loro interesse finanziario.
Comunque, venga dall'alto il consiglio o no, un fatto è certo: che l'America sta preparando pellicole di guerra. Il che è logico. L'America ha sempre avuto in determinate circostanze un fiuto particolare che le ha permesso di volgere a suo favore il corso degli eventi. Così quando l'Inghilterra tentò di sfondare le barriere americane per farvi passare i propri film, Hollywood rispose con una serie di ottimi lavori esaltanti l'imperialismo britannico, grazie ai quali il tentativo andò a vuoto. Si ricordano IL CONQUISTATORE DELL’INDIA, I LANCERI DEL BENGALA, LA CARICA DEI SEICENTO e altri. Per cui non meraviglierebbe, domani, la notizia che un film di propaganda nazista sta per essere varato nei cantieri hollywoodiani, e questo dopo LE CONFESSIONI DI UNA SPIA NAZISTA. Oppure una pellicola sul valore polacco. Il torto sarebbe nostro a mostrare sorpresa, entrando un fatto di tal genere nella logica americana.
Ma allora, viene da chiedersi, perché e per chi ha parlato il signor Hays?
MICHELANGELO ANTONIONI
CINEMA, 1 ottobre 1939, XVII

giovedì 28 gennaio 2021

Satyajit Ray: Bengali cinema


Uno dei fenomeni più significativi del nostro tempo è stata l'evoluzione del cinema, che è passato dall'essere un giocattolo meccanico alla fine del XIX secolo a diventare la forma d'arte più potente e versatile del nostro secolo. Nel suo primo palcoscenico camaleontico, il cinema è stato utilizzato come estensione della fotografia, sostituto del teatro e del music hall e come parte dell'armamentario dei maghi. Già negli anni Venti scettici e boriosi smisero di guardarlo con diffidenza e gli cedettero.
Oggi il cinema genera un rispetto simile a qualsiasi altra forma di espressione creativa. Nella vasta complessità dei suoi processi creativi, combina a vari livelli le funzioni di poesia, musica, pittura, teatro, architettura e molte altre arti, maggiori e minori. Combina anche la fredda logica della scienza con l'ingegnosità astratta dell'immaginazione umana. Non importa cosa si cerchi di farne, non importa chi lo usa e per cosa - il produttore per guadagno finanziario, un gruppo politico per la propaganda o un intellettuale d'avanguardia per soddisfare un bisogno estetico - il cinema è fondamentalmente l'espressione dell'uno o dell'altro. più concetti in termini estetici, che si sono cristallizzati in incredibilmente pochi anni.
Forse era inevitabile che il cinema trovasse il suo più grande impulso negli Stati Uniti. Un Paese senza una profonda tradizione artistica e culturale è stato forse il più capace di valutare oggettivamente il nuovo mezzo. Grazie a pionieri come Griffith e a un pubblico vasto e sensazionalmente disponibile che continuava a chiedere a gran voce qualcosa di nuovo, lo stile di base dei modelli di produzione si è evoluto e si è perfezionato più velocemente del solito. Oggi il cinema ha raggiunto una fase in cui può avvicinarsi a Shakespeare e alla psichiatria con la stessa facilità. Tecnicamente, nel campo del bianco e nero, il cinema è estremamente fluido. Nuovi sviluppi nel campo della fotografia a colori e tridimensionale sono imminenti ed è possibile che prima che il decennio sia finito l'estetica del cinema cambierà radicalmente.
Nel frattempo, "gli studi sono spuntati", come ha scritto uno scrittore americano su Screenwriter , "anche in territori impensabili come l'India e la Cina". Non posso fare a meno di notare che questo focolaio si è verificato in India circa quarant'anni fa. Per un paese lontano dal centro delle cose, l'India è entrata nella produzione cinematografica sorprendentemente presto.
Il primo cortometraggio fu prodotto nel 1907 e il primo lungometraggio nel 1913. Negli anni '20 il cinema aveva raggiunto lo status di grande impresa. È facile dire al mondo che la produzione cinematografica in India è, quantitativamente, superata solo da Hollywood, è un fatto statisticamente verificabile. Ma possiamo dire lo stesso della qualità? Perché i nostri film non vengono proiettati all'estero? È solo perché l'India offre un mercato potenziale solo per i propri prodotti? Forse il simbolismo utilizzato è troppo oscuro per gli stranieri? O ci vergogniamo solo dei nostri film?
Per qualcuno che abbia familiarità con il livello medio dei migliori film stranieri e indiani la risposta è semplice. Affrontiamo la realtà. Non c'è ancora stato un film indiano che possa essere considerato tra i migliori al mondo. Mentre altri paesi ci sono riusciti, noi ci abbiamo provato a malapena, e non sempre nel modo più onesto, così che anche i nostri migliori film devono accettare la graziosa condizione che "dopotutto è un film indù".
Indubbiamente, questa mancanza di maturazione può essere attribuita a diversi fattori. I produttori vi racconteranno di questa misteriosa entità chiamata “la massa” che “cerca questo genere di cose”, i tecnici daranno la colpa agli strumenti e il regista potrà parlare molto delle meraviglie che ha in testa ma non riesce a tradurre. Semmai, sono state ottenute cose migliori in condizioni peggiori. Il cinema italiano del dopoguerra acclamato in tutto il mondo è un caso esemplare. Le ragioni sono altrove. Penso che siano i fondamenti del cinema.
Nella fase iniziale, i film erano molto simili, indipendentemente da dove venivano prodotti. Quando i pionieri iniziarono a percepire l'unicità del mezzo, il linguaggio del cinema si evolse gradualmente. E quando tutte le funzioni importanti del cinema, ad esempio il movimento, fossero state percepite, la raffinatezza dello stile e dei contenuti e la raffinatezza tecnica sarebbero state solo una questione di tempo. In India sembra che il concetto fondamentale di un modello di coerenza drammatica e temporale sia stato regolarmente frainteso.
Spesso, per strani ragionamenti, il movimento veniva equiparato all'azione e l'azione al melodramma. L'analogia con la musica non è appropriata nel nostro caso, perché la musica indù è in gran parte improvvisata.
Questa confusione elementare, aggiunta all'influenza del cinema americano, sono i due principali fattori responsabili dell'attuale stato del cinema indù. Gli aspetti superficiali dello stile americano, non importa quanto stravagante il contenuto, furono imitati con riverenza.
Quasi tutte le fasi del passato del cinema americano hanno avuto un impatto sui film indiani. Le storie sono state scritte sulla base dei successi di Hollywood e preservando con cura ciascuno dei suoi cliché. Anche quando la storia era genuinamente indù, lo sfondo si rivelava con un'incontenibile inclinazione per il linguaggio del jazz.
Nell'adattamento dei romanzi, sono stati seguiti due corsi: la storia è stata distorta per conformarsi alla formula di Hollywood, oppure è stata realizzata con una fedeltà così devota all'originale che lo scopo dell'interpretazione del film è fallito.
Dobbiamo renderci conto che i film americani sono un pessimo modello, in linea di principio perché rappresentano uno stile di vita totalmente diverso dal nostro. Quindi perché l'elevata brillantezza tecnica, segno distintivo dello standard di prodotto di Hollywood, è impossibile da raggiungere nelle attuali condizioni indiane. Ciò di cui il cinema indù ha bisogno oggi non è più lucentezza, ma più immaginazione, più integrità, più intelligente apprezzamento dei limiti del mezzo.
Dopotutto, abbiamo gli strumenti essenziali per il cinema. Nonostante le lamentele dei tecnici, i dispositivi meccanici come gru e schermi di fondo sono utili, ma non indispensabili. In effetti, gli strumenti da noi sono stati utilizzati con vera intelligenza in alcune occasioni. Ciò di cui il nostro cinema ha bisogno soprattutto è uno stile, un linguaggio, un tipo di iconografia del cinema che sia unicamente e riconoscibilmente indù.
Ci sono alcuni ostacoli a farlo, in particolare nella rappresentazione dell'ambientazione contemporanea. L'influenza della civiltà occidentale ha creato anomalie che compaiono in quasi ogni aspetto della nostra vita. Accettiamo l'auto, la radio, il telefono, l'architettura moderna, l'abbigliamento europeo, come elementi funzionali della nostra esistenza. Ma entro i confini del quadro cinematografico, la loro incongruenza è a volte esagerata fino al burlesco. Ricordo una scena di un famoso film indù in cui l'eroina viene mostrata piangere in difficoltà mentre abbraccia una radio portatile - un oggetto che associava mentalmente al suo amante assente, che una volta era un cantante radiofonico.
Un altro esempio, tipico del finale di Hollywood, mostra l'eroina che si precipita in un'elegante decappottabile per cercare di raggiungere il suo amore frustrato, che ha lasciato la città a piedi; quando lo vede, scende dalla macchina, e una specie di gesto simbolico percorre il resto della strada finché non lo trova.
La maggior parte dei nostri film è piena di dissonanze visive. In Kalpana , Uday Shankar usa queste dissonanze in modo consapevole e coerente in modo che diventino parte del suo stile cinematografico. Ma il vero film indù deve essere chiaro su queste incongruenze e cercare il suo materiale negli aspetti più basilari della vita in India, dove abitudine e linguaggio, abbigliamento e moda, contesto e background, si fondono in un insieme armonioso.
Solo attraverso una drastica semplificazione di stile e contenuto ci sarà speranza per il cinema indiano. Per ora, sembra che quasi tutte le pratiche prevalgano contro questa semplificazione.
Avviare una produzione senza un'adeguata pianificazione, a volte anche senza una sceneggiatura, la tendenza a deviazioni e trame senza scopo invece della narrazione unidirezionale forte e semplice; la pratica del numero sandwich musicale nella situazione meno musicale; la portata, nello stesso momento in cui altri paesi si rivolgono all'ispirazione documentaria - tutto ciò ostacola l'evoluzione di uno stile distintivo.
Ci sono stati rari lampi di approcci illuminati in una manciata di film recenti. Dharti ke Lal (1946) di  Khwaja Ahmad Abbas è un esempio di un potente argomento semplice affrontato con stile, onestà e competenza tecnica. Kalpana (1948) di Uday Shankar, un esperimento inimitabile e altamente personale, mostra un percorso verso l'apice del successo cinematografico. La fotografia soddisfacente denotata dal documentario delle Nazioni Unite di Paul Zils mostra che può fare una macchina fotografica perspicace con il paesaggio dell'India.
La materia prima del cinema è la vita stessa. È incredibile che un paese che ha ispirato così tanta pittura, musica e poesia muoia mobilitando il regista. Devi solo tenere gli occhi aperti e le orecchie attente. Lasciamoli fare.
Satyajit Ray

giovedì 7 maggio 2020



I registi si confessano
I MIEI DIFETTI
di Mario Bonnard


Eugenio Giovannetti, con i suoi articoli "senza peli sulla lingua", ha cercato di indicare quali sono - a suo modo di vedere - i difetti dei nostri registi. Ma hanno veramente dei difetti, i nostri registi? E sanno di averli? E sono disposti a confessarli? Ecco lo scopo di questa inchiesta che si apre oggi con l'arguta risposta di Mario Bonnard.


Caro Doletti, non ho avuto la possibilità di leggere l'articolo «Senza peli sulla lingua» scritto su di me da Eugenio Giovannetti, perché in quell'epoca ero in campagna; ma un mio amico, che venne a trovarmi, me ne parlò con un certo riguardo e mi consigliò di non leggerlo. Ero in campagna per ristabilirmi!
Ora tu mi chiedi qual i sono i miei difetti di regista; ti rispondo subito e volentieri anche per tranquillizzare Giovannetti che si preoccupa tanto di me e rassicurarlo che almeno non sono un illuso.
I miei difetti, come regista, sono tanti che, se dovessi enumerarli, discuterli, sezionarli, dovrei scrivere un articolo talmente lungo che tu rinunceresti a pubblicarlo o forse lo amputeresti a modo tuo. Perciò è meglio parlare di uno solo dei miei difetti: il principale, il più forte, quello che mi nega - ogni volta che vado in proiezione ad assistere ad un mio film - di essere talmente soddisfatto da esclamare: «Questa volta ho fatto un film perfetto!». Dunque, questo è il mio difetto più importante: il Signor Difetto, che mi perseguita da tanti anni e che io cerco disperatamente. Ma lui è più furbo di me: non si fa vedere, si nasconde ed appare soltanto quando si accorge che io sonnecchio, o sono distratto e allora senza pietà, ne approfitta per cambiarmi le carte in tavola e per farmi fare tutto quello che vuole. Ciò mi procura un malessere terribile ed allora, con uno sforzo, cerco di uscire dal mio torpore: ritorno in me, mi sembra di vederlo, di poterlo afferrare, ma lui è già scomparso!
Eppure mi è vicino, perché lo sento ridere e sghignazzare: - Anche questa volta te l'ho fatta, caro Bonnard, te ne accorgerai in proiezione!
Infatti è così: è sempre lui che vince!
Ah, difetto, se potessi trovarti! Ma io non lo potrò mai. Soltanto una terza persona, una che tu non conosci, potrebbe afferrarti per la gola e trascinarti davanti a me. E - allora si, ti farei parlare, ti costringerei con la forza a dirmi tutto il male -che mi fai ... Ma sta pur tranquillo, signor Difetto, questa terza persona se ne infischia di te e di me. Si, ogni tanto scrive nei giornali e parla dei miei film come gli altri: dice male , troppo male, per dir male - o dice bene, troppo bene, per dir bene; ma non si preoccupa di cercare te, che sei la mia rovina. E sono certo, caro Difetto, che quando leggerai quelle critiche, riderai a crepapelle anche di lui e gli dirai: «Non mi trovi! Hai trovato tanti difetti, ma quelli che vedono tutti: hai detto tante parole, ma di me non hai mai parlato; perciò non hai risolto nulla».
Ed io sono condannato: non potrò mai liberarmi di te!
Mario Bonnard



La testata si riferisce al fiIm Catene invisibibili diretto da Mario Mattoli, interpretato da Alida Valli, Carlo Ninchi, Andrea Checchi.  (ProduzIone Italcine - Distr. I.C.I.)

film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 9  20 FEBBRAIO 1942 XX

In apertura due espressioni di Mario Bonnard che ricordano il popolare regista di oggi e l'affascinante attore di trent'anni fa.

mercoledì 8 aprile 2020

Raffaello Matarazzo


I REGISTI (senza peli sulla lingua)
RAFFAELLO MATARRAZZO
DI EUGENIO GIOVANNETTI

Raffaello Matarazzo è un uomo che appartiene al più' vulcanico regno della mia fantasia: a quello dei treni avviati verso lidi marini, e delle città improvvisate. Ci siamo trovati, l'ultima volta, in un treno per Ostia e
abbiamo parlato a lungo, soli, sul terrazzino del vagone. Su quello storico terrazzino, il mondo  prediletto delle immagini matarazziane di Littoria e di Mussolinia e di Treno popolare, s'incontrava con quello dei miei sogni infantili più segreti.
L’Adriatico ha invase e trasformate tutte le immagini che venivano organandosi nella mia fantasia di ragazzo. Poiché c'era da fare una ventina di chilometri in ferrovia per giungere alla spiaggia, una delle mie prime artistiche gioie fu il disegnare lunghi treni che intravedo ancora sui quaderni lineati d`azzurro. Quei convogli, che si continuavano talvolta in più linee l'una sotto l’altra, erano per me così splendenti di mare che, al ripensarli, mi par di travederci anch'oggi il tremolar della marina e quasi nello stesso odore in cui ella m`appariva, il più nitido tra quanti m'abbiano mai rinfrescato l’anima.
Questo profumo dei profumi pervadeva, per me anche luoghi graveolenti, purché connessi con l’idea dell'agognata spiaggia. La stazione del mio paese, che vedevo dalle mie finestre ed in cui facevo ogni giorno una capatina, era un luogo d’incanti. Lo stesso magazzino della piccola velocità, pieno di trambusto d’acri odori, avevo trasformato in una specie di gioioso preambolo d'un porto. Ci sentivo, ci vedevo brulicare già l’infinito del mare.
Il mare mi segui anche nell’interno del palazzotto in cui vivevamo. Lo ebbi ben presto anche nella camera da letto, quasi a portata di mano, nell'angolo in cui ardeva il lumino da notte. Avevo immaginato là, sotto il comò, una città portuale, con grandi connessioni ferroviarie per ponti, vialotti, gru. Nessun porto-capolavoro della meccanica riuscirà mai a stupire chi abbi immaginato un simile nodo di vie nell'assurdo, al di fuori delle categorie dello spazio e del tempo.
Toccai allora il culmine di coteste architetture immaginando che l’angolo esterno della stanza in cui dormivo, volto a monte, fosse una prova navigante all'infinito pel silenzio della notte. Io era così il dormente della stiva, il nauta dell'immensità.
La pervicacia di cotesto infantile navigare è castigata forse oggi da un sottile, quasi ironico incubo, quando avverto in sogno come una fatalità l’assurdo d'una grande nave con cui risalgo per i più tenui fili d'acqua, su per rigagnoli e grondaie e tetti, sino allo stillante vertice d'una torre.
Il regista Matarazzo non si dorrà, io spero, quando gli avrò confessato che i suoi film mi riconducono, sovente a questa zona infantile del paesano e dello assurdo.
 Il regista Matarazzo ha esordito, con Littoria e Mussolinia nell'annata famosa dei buoni documentari: il 1932. L'anno successivo vedeva il suo primo film, il più giovanilmente fresco: Treno popolare.
Da allora ha fatto un po' di tutto, dissipando una tenue vena idilliaca.
Il suo incontro con comici popolari i De Filippo, è stato abbastanza felice nel 1938 (Sono stato io) ed ancor più felice nel 1941 (Notte di fortuna). Peppino De Filippo è qui forse alla sua miglior prova filmistica, in un quarto d'ora di meridionale irresistibile foga. La vena idilliaca per quanto assottigliata, rinfresca ancora questo film scapigliato.
L'indifferenza, l'apatia, la sciatteria, il musulmanesimo, sono invece evidentissimi nell'Avventuriera del piano di sopra: una cosa trascurata, trascicata, senza luce, tutta insulsaggini e volgarità. Il Matarazzo, quando ci si mette, quando ripiega su sé stesso, sa veramente che cosa sia dormire: è un piccolo mussulmano sonnacchioso, svogliato, acidulo. Vi ricorda allora col suo cognome e con la sua sbadigliante faccia, il gran verso meridionale:
o chiù bellu da vita è durmì.
 Il giorno in cui, per una comica fantasia, tutti i mobili essenziali d’una camera da letto si caratterizzassero in forme umane, l`omomorto spilungone assumerebbe forse la testa d'Antongiulio Bragaglia, il comodino quella di Massima Bontempelli, il comò quella di Rosso di San Secondo, la poltrona quella della Borboni: ma il matarazzo non avrebbe alcun bisogno di prendere a prestito una testa: troverebbe la sua bell`e pronta e battezzata e impastata di grasso e di sonno e sbadigliante già all'infinito nel regista Raffaello dall'ironico nome. 
Ecco un’immagine che mi ha portato lontano da quelle dei treni popolari e delle agognate spiagge e dei vulcanici terrazzini, in cui il regista Matarazzo ed io ci siamo un giorno incontrati. Qui i nostri sentieri divergono. Il matarazzo ci divide, poiché le navi vulcaniche dei miei sogni continuano ad arrampicarsi su per fili d’acqua, verso le grondaie e la punta stillante dei campanili; ed il regista Raffaello è invece un dormente che non sogna più nulla e trova che il più bello della vita è il dormire tra due guanciali.
Io non so s’egli abbia in questo tutti i torti. Quel po’ di dubbio filosofico ch’è in me basta a farmi sospettare ch’egli possa aver ragione. Dormi pure, o Raffaello, ma non mio sonniferare, perché se mi ci metto a dormire, io …  Tra letterati sonniferi che m’opprimevano, io sono stato capace di dormire vent'anni, tutti d’un fiato... Ma allo svegliarmi, esigo un ponce caldo, drogato, forte… Non mi parlare d’Avventuriera del piano di sopra ché sono 'cose di pretesa eleganza, che tu non sai fare, che non hai mai saputo fare... Parlami, se vuoi, di paese, ma d’un paese indemoniato in cui la gente rizzandosi dalla bara, voglia tornar subito a bere saporito ... Dov'è successo questo? E' successo al camposanto di Firenze. Avevano mandato al custode, già nella cassa, qualcuno che pareva morto ed era soltanto in catalessi. Eccoti d`improvviso un gran fracasso nella sala mortuaria. Il morto s'è levato e protesta. Il custode accorre e deve spiegare, ma il resuscitato continua a far chiasso e a lagnarsi per lo stato in cui l'han ridotto. O che si fa? Per rimetterlo di buona voglia e farlo uscire, il custode prepara un famoso ponce.
Nel rimandare in municipio il certificato mortuario, il buon custode si limita a notare in margine: mandateceli morti bene, se no si rizzano e vogliono il poncino.
Ma sono tutte smanie ch'io racconto, tanto per guadagnar tempo. Ancora una volta, il Tetrarca Doletti m'ha mandato a_ spasso. Voi capite che quella ch'io volevo non era affatto la testa del girovago e sonnacchioso Raffaello, un buon diavolo tutto sommato, che tocca, come me, sovente i vertici dell’assurdo. No, io insistevo, ancora una volta per avere la testa del regista Jokannan, la sola per cui io mi sia mosso e che, di rinvio in rinvio, di sostitutivo in sostitutivo di diversivo in diversivo, ha finito col farmi disegnar tutta questa Villa dei registi.
Se Dio vuole, la prossima volta è la buona: la prossima volta il mio cavilloso Tetrarca mi concederà finalmente la testa autentica di Jokannan e non più un sostitutivo con cui gingillarmi.
E' ora di finirla. In fò qui la figura d’una Salomè isterica e letteraria, che il Tetrarca pigli graziosamente in giro: non della Salomè truculenta, musicata da Strauss, ma di quella trascendentale e ridicola, ironizzata dal Laforgue: di quella ragazza, esasperante che fa dire ai principi del Nord, ospiti del Tetrarca: “ma a che ora la mettono a letto questa noiosa?”
Basta! La prossima volta avrò finalmente la vera testa, quella del mio Jokannan. E sarà finita questa novella dello stento.
Eugenio Giovannetti.

Opere di Raffaello Matarazzo: Littoria e Musssolinia (1932) - Treno popolare (1933) - Kikì, Frutto acerbo (1931) – Il serpente a sonagli (1935) -- Anonima Roylott, Joe il rosso, E' tornato carnevale (1936) – Sono stato io, L'albergo degli assenti, Il marchese di Ruvolito (1938) – Trappola d’amore (1939) – Giù il sipario (1940) – Notte di fortuna, L'Avventuriera del piano di sopra (1941).

 film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 7  14 FEBBRAIO 1942 XX

La testata si riferisce al film Un colpo di pistola diretto da Renato Castellani con Assia Noris. Fosco Giachetti, Antonio Centa, Rubi Dalma (Prod. E Distr. Lux)


giovedì 26 marzo 2020

CONFIDENZE DI LUIGI COMENCINI


Il fenomeno del divismo
non ha raggiunto i registi
«La finestra sul luna park» l’ultimo film da lui diretto - Esordì
con documentari, uno dei quali gli procurò il «Nastro d'argento»
Roma, febbraio
QUANDO Comencini non è dietro la macchina da presa e non lavora alla sceneggiatura di un film o alla moviola in una sala di montaggio, è materialmente impossibile trovarlo. Inutile telefonargli a casa. Risponderanno che non c'è e che non sanno quando ritorna. E se qualcuno si illude di incontrarlo in via Veneto o nei salotti mondani della capitale, perde inutilmente il suo tempo. La verità è che questo regista tanto dinamico ed eclettico ha sempre qualcosa cui pensare. Se talvolta egli si concede brevi pause di riposo in compagnia di amici, non si mette mali come suol dirsi, in vetrina, ma trova il modo di isolarsi, stando lontano dai soliti pettegolezzi sul mondo cinematografico.
Per parlargli è stato necessario andarlo a scovare nella sala di uno stabilimento, dove seguiva il lavoro di sincronizzazione di «La finestra sul luna park», il tuo ultimo film con Giulio Rubini, Gastone Renzelli, Pierre Trabaud ed altri. Dapprima. Comencini non voleva saperne di concedere interviste, anche perché - come egli dice - il tentacolare divismo dei nostri giorni per fortuna non ho ancora raggiunto i registi, e quindi il miglior modo per stabilire un confidenziale colloquio col pubblico o pur sempre rappresentato dai loro film. Tuttavia le parole sono un pò come le ciliegie. Una tira l'altra.
L'ormai celebre regista di «Pane, amore e... fantasia» e «Pane,` amore e... gelosia», sul cui esito positivo è superfluo dilungarsi in quanto gli stessi film hanno battuto il record degli incassi, toccando rispettivamente l’iperbolica cifra di circa un miliardo e mezzo -- ha vissuto per molti anni a Parigi dove si laureò in architettura. Egli confessa però che fin dagli anni del liceo aveva cominciato ad interessarsi attivamente di cinema, sognando di dedicarsi alla regia. Un sogno piuttosto singolare ed ambizioso, ma destinato comunque a realizzarsi. Prima di affrontare la macchina da presa, Comencini si dimenticò di essere architetto e svolse altre attività: tra l'altro fece anche il giornalista, come inviato speciale e fotoreporter dei settimanale «Tempo».
Esordi quindi con alcuni documentari, il primo dei quali gli valse un «Nastro d'argento» nel 1946. E dai documentari ai film il passo è -relativamente breve. Due anni dopo, infatti, egli diresse «Proibito rubare», cui seguirono «Persiane chiuse». I due film con la Bersagliera ed il maresciallo Carotenuto, e «La bella di Roma», fino a «La finestra sul luna Park», la sua ultima  fatica che ora il regista definisce una storia in chiave romantica fatta di amore e di vicende profondamente umane tra gente umile, non priva di momenti umoristici e guai.
Convinto che è un errore distinguere a priori il genere dei films in «drammatico», «comico» o «sentimentale», in quanto uno stesso racconto cinematografico può contenere, alternandole, le caratteristiche di ognuna di queste definizioni. Comencini dice tra l'altro: «Credo che per realizzare dei buoni film, atti a suscitare l’emozione e la commossa, o divertita curiosità del pubblico, bisogna tendere alla narrazione di fatti che appartengono un pò alla vita di tutti i giorni. Ma occorre anche inserirsi, specie per quanto riguarda il nostro pubblico, nel costume tipicamente italiano, in modo che lo spettatore possa riconoscersi in certi personaggi. Questi miei intendimenti sono validi soprattutto per la «Finestra sul luna park» che ritengo sia il mio film migliore e più impegnativo, anche perché non mi sono valso di interpreti dai nomi molto celebri e altisonanti, ma ho cercato di mettere a fuoco il carattere dei singoli personaggi ed i motivi umani che ne informano la storia commovente e suggestiva...».
Di fronte all'imperversare di soggetti cinematografici impostati sull'eterno richiamo del sex-appeal, questa volta Comencini ha ritratto una vicenda estremamente semplice, «pulita», che ha una sua implicita morale.
«Protagonista di questo dramma a lieto fine - dice il regista - è un bambino di sette anni. Sua madre, Ada, muore in un incidente stradale. Era la moglie di Aldo, un operaio che da anni lavora all'estero. Tornato a casa. per i funerali, egli non riesce ad accattivarsi la simpatia del piccolo Mario, suo figlio, il quale si mostra. invece affezionato ad un certo Righetto, che dorme nel magazzino e fa un pò tutti i mestieri. Convinto di essere stato sempre un buon padre, Aldo ora sta per ripartire, ma prima intende mettere in un orfanatrofio il bambino. Questi però confessa a Righetto che scapperà di casa se il padre persisterà nella sua idea. Nel frattempo la gelosia di Aldo per Righetto, che gode tutto l'affetto di suo figlio, sfocia in una scena violenta, alimentata dal dubbio che tra quest'uomo e sua moglie vi sia stato qualcosa di poco chiaro. Ma tale sospetto scompare subito, per evidenti ragioni. Ora però, di fronte alla minacciata fuga del bambino, Righetto affronta coraggiosamente il padre. Gli fa intendere che anziché rinchiudere Mario in collegio, deve stargli vicino e guadagnarsene l'affetto. Gli confessa inoltre che tra lui e la donna scomparsa vi era semplicemente della simpatia, per il fatto che si occupavano in due dello stesso bambino. La aveva aiutata, come un devoto servitore alleviandone le preoccupazioni e la solitudine. Così «La finestra sul luna park» si conclude felicemente: il padre si rende conto che non è troppo tardi per riconquistare l’affetto del figlio.
Quando parla del suo lavoro, il regista Comencini sembra vivere in un altro mondo. Per lui esiste soltanto quella determinata vicenda e quei personaggi di cui parla con tanto calore e convinzione come se fossero reali. Ne descrive talvolta anche le più riposte sfumature e, ciò che più importa, li rende credibili a tutti gli effetti. Attualmente tra i suoi progetti c'è un film tratto da due racconti di Moravia, che sarà interpretato da Anna Magnani. Appena si trova alle prese con un nuovo film che intende realizzare, egli corregge e rifà più volte la sceneggiatura. Nulla e nessuno potrebbero mai distoglierlo da questo suo lavoro. Poi tutto questo tormento creativo esplode con il primo giro di manovella. Allora Comencini riprende la sua calma l’abituale buon umore che lo distingue. Ogni singolo fotogramma prima ancora che sulla pellicola della macchina da presa è ormai fissato sullo schermo della sua estrosa e poetica fantasia.
Piero Pressenda
GAZZETTA DEL SUD, 28 febbraio 1957

In apertura Luigi Comencini ed Eleonora Rossi Drago sul set di Persiane chiuse del 1951

lunedì 9 marzo 2020

Carlo Campogalliani

I REGISTI (senza peli sulla lingua)
CARLO CAMPOGALLIANI
DI EUGENIO GIOVANNNETTI
Toc, toc …,
Chi è là?
Fasulein, a barbir, il barbiere.
Aspetta ben un monumento.
Risata dei bimbi innanzi il casotto dei burattini, sotto il voltone del Podestà, la volta nera dei secoli nel centro di Bologna. Come dimenticare questo trillo d’argento nel segreto della metropoli rutilante dell’ Emilia?
I burattini avevano tanto da dire nella Bologna di cui eravamo studenti, e non soltanto sotto il voltone del Podestà! Ricordo una festa in cui il casotto dei burattini celava la contessina Isolani e Alfredo Testoni improvvisanti innanzi ad un elegante uditorio: e quei singolari “burattini in persona”, specialità tutta bolognese, per cui attori talvolta eccellenti rappresentavano, burattineggiando alla perfezione, drammi e farse.
Campogalliani! Era il sovrano di quel mondo: un burattinaio celebre, che i bolognesi consideravano come la cioccolata Maiani, insuperabil vertice della squisitezza. Il culto per quel nome s’è allora così approfondito in me, che ad esso sento ancor congiunto il fiore delle mie feste galanti ed il mio amore per la truculenza burattinesca, la sola che io tolleri in quanto non retorica dell’orrido, come la truculenza ordinaria, ma brivido fantastico e trillante sicumera.
Campogalliani: è ancora per me la festa dell’assurdo, che mi carezza il cuore: la bionda tedesca che mi traeva al centro d’un immenso cortile bolognese, perché le sedessi accanto e le interpretassi le facezie d’un Fasulein che imperversava nei freddi bagliori di una lampada ad acetilene. Ah, festa magica d’argento, degna d’un Piazzetta o d’un Guardi, innanzi ad un drammone burattinesco, in cui Fagiolino, tra lazzi gioviali, accumulava cadaveri, sul banco dei giudici, in nome della giustizia popolare!
Il regista Carlo Campogalliani, emiliano anch’esso, ha, senza dubbio, qualcosa del genio della famiglia: la truculenza inventiva, la popolaresca faraggine. Quante volte i suoi film hanno riscosso in me la nostalgia delle mie feste galanti burattinesche di Bologna, o, più precisamente, per un eccesso di truculenza, mi hanno costretto a rifugiarmici! Il Campogalliani regista dà un po’ troppo nella truculenza ordinaria, nella retorica dell’odio, in quel ch’io non amo. Mi spiegherò con qualche esempio.
Carlo Campogalliani è un uomo che, dal 1914 ad oggi, in ventotto anni, ha diretto una settantacinquina di film; ma egli stesso, modesto quanto laborioso, ci fa capire che non val la pena di ricordar tanti titoli e, dando un esempio di spiritosa discrezione, si limita a rammentarcene una mezza dozzina. Sulle orme di qualche storico, noi dovremmo limitarci a ricordarne uno solo, del 1914: Maciste contro la Morte . E’ un titolo perfettamente rappresentativo del genere campogallianesco e ci ricongiunge col Campogalliani bolognese, col genio della famiglia, in quanto, con un Fasulein al posto di Maciste, potreste trovarlo annunciato, in uno stampatello maiuscolo, sotto il volto del Podestà o presso un altro casottino celebre, ove un forzuto e gioviale eroe stia per accumulare cadaveri sul banco dei giudici.
Ma non è questo ancora il regista ch’io conosco. Io ricordo d’avere imparato a conoscere il regista Campogalliani nel film La lanterna del diavolo (1934). Era là la più orripilante storia di malfattori, montanari, e, poiché allora non c’era film senza un tabarin, anche quei malfattori d’alta cima avevano voluto il loro tabarin e la loro vampira. Che cosa fosse quel “paradiso artificiale” d’alta montagna, quel covo di sinistre raffinatezze, è cosa ch’io non vi saprei dire. Era un tal vertice dell’assurdo, che, per tollerante ch’io fossi, mi rivoltava e “mi ripigneva là dove ‘l sol tace”: alla prima giovinezza, cioè, al Campogalliani più vero e maggiore, quello riposante, ch’aveva lumeggiato di tanto sorriso e di tanta argentea luce i miei ricordi. Quella vamp montanara in calze di seta, dalle occhiaie bistrate, golfi della lusinga e dell’orrore! Ahi, quanto diversa dalla rosea bionda che m’aveva appreso come Fagiolino sapesse essere gaio anche ammonticchiando cadaveri, e come due amici possano amare la stessa donna e dividersela in perfetta pace, quale tenero crafen o croccante kiffel. Adorabile e profonda saggezza del Campogalliani bolognese, come mi parevi tradita dalla tetraggine, dal lugubernio del Campogalliani regista!
Fedel in questo al genio bolognese della famiglia, il Campogalliani regista è. Innanzi tutto, l’uomo che ha bisogno d’inventare il suo drammone, la sua grossa macchina: è l’uomo che ha ancora la fantasia dell’orrido: o meglio, che la ritrova in sé, sempre più infantile ed imperiosa col passare degli anni. Da giovane, si rassegnava a filmeggiare tele drammatiche come Romanticismo (1914) e, sino a pochi anni or sono, anche tele brillanti come I quattro moschettieri (1936): ma nell’ultimo cinquennio il regista Campogalliani ha bisogno di farsi un soggetto di suo gusto, di montare un gran truculento macchinone, di lugubrrizzarselo a suo talento. Quest’esigenza è diventata indeclinabile, atavica, oseremmo dire. Ma finché fantastica e soggettizza, il Campogalliani regista può dirsi ancora ispirato dal demone familiare. Il guaio serio comincia quando deve tradurla in cinema, la sua macchina, e non trova più che un’infilata d’oleografie senza colore, una più arruffata e grigia dell’altra. Piccolo, nitido boccascena dell’atavito teatrino, tutto colore, tutto scintille! Aurora sfringuellante della fantasia anche attraverso i gelidi abissi dell’orrido, dove, dove sei fuggita?
Il lugubre, il macchinoso di cotesti drammoni illividentisi scheletrizzanti nell’Artide filmistica, come cercasse di vecchie navi, fa talvolta una gran pena al cuore ansioso di farfalle solari e memore dell’antico Eliso. Eppure, anche cotesto sperduto della festa burattinesca padana, cotesto grigio naufrago dell’Artide cinematografica, ha i suoi felici momenti.
Io ho seguito con simpatia cordiale il drammone campogallianesco e più rappresentativo, Il bravo di Venezia: o, meglio, l’ho seguito con la stessa attenzione ultravigile con cui avrei potuto seguire il dramma faragginoso d’uno dei tragici elisabettiani minori. Ebbene: debbo dire che la mia attentissima simpatia ha avuto il degno premio.
Ad un certo punto, il drammone, affastellato e torvo nel suo grigiume, s’illumina. Si è nella casa del Bravo, del tremendo boia: ed il vecchio servo, che teme in ogni rumore la voce satanica d’un denunciatore che porti una nuova vittima, è pervaso da un folle orrore. Non so neppur io per quali vie del senso o dello spirito, o dell’uno e dell’altro insieme, ma è certo che la scena filmistica raggiunge qui d’improvviso l’altezza d’un vero tragico orrore. Un felice caso, forse, ha voluto che il sovraccarico d’effetti, sotto cui il lugubrizzatore stava per soffocare questa scena, non si avvertisse. Mi dicono che quel servo dovrebbe essere cieco e che questo, secondo le intenzioni del regista, dovrebbe giustificare il terrore. Ma nessuno avverte, per fortuna, cotesta cecità di cui non c’era affatto bisogno: ed il terrore, appunto perché naturale e candido, può diventar persuasivo. Una squisita lezione di semplicità attraverso quest’affastellatore ampolloso, che ha disertato il nativo piano dell’orrido infantile e trillante.
Restare infantili: è il suo imperituro segreto della forza e dell’allegria, sia, tremenda o sia leggera. Avere anche in faccia ai pedanti che riformano la lingua, il coraggio delle proprie cantonate, perché la vita è tutta una cantonata che soltanto col coraggio si raddrizza e ritrova un significato. Ecco quel genere di saggezza che manca al nostro troppo lugubre Campogalliani. Portare qua e là, accanto ai crocevia solatii, o per viali popolosi o per cortili festanti, il proprio casottino leggero, e improvvisare a cuore ugualmente leggero: ecco una gloria che il nostro regista non dovrebbe mai dimenticare quando s’accinge a coprir di negrofumo le cinematografiche superfici. Più semplicità, più festa, più sole, la semplicità del vero infantile e del vero tremendo, è quel che occorre ai suoi film. Modena e la Ghirlandina, Bologna e il Podestà: tutta a forza e la soavità della pianura padana, attraversata da un cuore in festa: ecco quel che dovrebbe sountare un certo giorno, in un film di Carlo Campogalliani.
Nel regista Campogalliani, presso alla torbida e soverchiante vena drammatica, mi par di scorgerne una più umile, più limpida, in film come Stadio e Montevergine. Questa limpidità, più franca, più scorrevole, dovrebbe, un certo giorno, prevalere. Aver tanto lavorato e non veder mai chiaro, dev’essere pur penoso anche per un lavoratore paziente come questo.
Nessuno vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva: e, soprattutto, che vada verso il popolo con una più schietta semplicità, con un più ingenuo orrido, con una più leggera fantasia.
Eugenio Giovannetti

Opere rappresentative di Carlo Campogalliani: Romanticismo, Maciste contro la Morte (1914) – Il medico per forza (1930) – La lanterna del diavolo (1931) – Stadio (1934) – I quattro moschettieri (1936) –Montevergine, La notte delle beffe (1939) – Cuori nella tormenta (soggetto e regia), Il cavaliere di Kruia (1940) - Il bravo di Venezia (soggetto e regia) (1941) – Perdizione (in lavoro).


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 5  31 GENNAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Voglio vivere così  di produzione Sangraf –Pegoraro con Silvana Jachino, Ferruccio Tagliavini, Luigi Almirante, Carlo Campanini, Giovanni, Grasso, Nino Crisma.

domenica 1 marzo 2020

ENRICO GUAZZONI




I REGISTI (senza peli sulla lingua)
ENRICO GUAZZONI
DI EUGEGIO GIOVANNETTI

Prestami la ritorta conchiglia, o tritone di Fontana di Trevi, perché io ci dia dentro a pieni polmoni e allarghi sulle croscianti acque la fama di questo buon padre dell’italico cinema, romanissimo cive che gli diè risonanza oltre Oceano e primo perse le vie all'americano Griffizio che tant’ala stese sulla nuova arte, la quale dedalea e quasi icarea vuolsi giustamente nomare.
Quanto quest’arte del ciurma debba ai barocchi per lo spirito e per la romana origine, niuno ancor sa. Ell’ è il perenne metamorfoseo dell'immagine plasmata dal moto, e puossi ben dire nata in Roma con la celebre statua del cavalier Bernino: Dafne ramificantesi al corso e sorpresa come eterna essenza travagliata dal moto.
Ma romano fu il cinema per nascimento anche, nel 1913, quando Enrico Guazzoni diè al mondo Quo vadis? e Antonio e Cleopatra. Non la scena teatrale come suolsi immaginare, ma Roma stessa quale immenso scenario creato dai barocchi, influiva su quel nascimento.
Nel dissipato gestire, nell'esagitato brulichio, nel ventilato drappeggio con cui balenavan le cinematografiche folle intorno ai loro vecchi eroi, riverberava, ad insaputa degli stessi Guarzoni, non la ribalta teatrale ma la statuaria barocca di Roma, la vuota e mirifica drammaturgia solare, sciorinata da quegli scultori a sommo del porticato berniniano, sull`alto della facciata di San Giovaumi, lungo i parapetti di Ponte Sant’Angelo, tra le acque di Fontana di Trevi. Questa ventilata sinfonia di Roma, inaspettata marmorea trasfigurazione del motto “i cenci van sempre all’aria”, fu l’inavvertita ma onnipresente maestra d'Enrico Guazzoni. Il suo cinema, romano di pretesto e romanesco-barocco di spirito, si gonfiò, corruscò, crosciò, s'allargò, come la più nuova e la più vasta tra le fontane di Roma.
ln questa nuova macchina delle meraviglie fu immessa la vena della sensualità ottocentesca. La nuova ispiratrice segreta del nuovo spettacolo, era la Venere polputa e callipigea, vagheggiata dalla Roma godereccia dei funzionarii e dei capigabinetto: quella stessa Venere che, per immagini varianti ma ugualmente dilettose, arrideva loro dalla fontana del Rutelli e dal sipario del Brugnoli al Costanzi, dove una baldracca floridissima appariva in una specie di barbarico trionfo equestre.
Quell'ideale estetico della Venere cicciuta, celebrato ogni dì e rinfrescato nelle Naiadi del Rutelli all'Esedra, corrispondeva per un lato perfettamente all'epicureismo romanesco e, per l’alto, anche alla fantasia pittorica del tritone sensuale Boecklin, romaneggiato a sua volta in quelle sensuali e folleggianti oceanine. Un gusto vecchio, del resto, che, dall'Ottocento, si ricongiungeva ancora col Seicento, col barocco galante di qualche stampa dei tempi di Luigi XVI. Ne ricordo una bellissima in cui son già le naiadi carnose del Boecklin e del Rutelli ma assai più maestose e languide, assai più Montespan.
Enrico Guazzoni portò nel cinema quest'ideale romanesco-barocco della bellezza femminile, con quelle Terribili-Gonzales che fu, per noi ragazzi, l`indimenticabile Cleopatra. Ah, com'racano lontani allora dall'estetica della “mezza-porzione”, invalsa poi con le dive americane dello jolì! La Cleopatra che Enrico Guazzoni ci sceglieva era porzione intera, quella fatta ancora pei robusti appetiti, quella che sognano Ia plebe e gli adolescenti di tutti i secoli. Che fosforescenza aveva per lg nostre fantasie la didascalia in cui Cleopatra annunciava: “Antonio, ti ho preparata una notte d’amore”. Che programma!
Enrico Guazzoni voglia perdonarci se poniamo oggi il freno della dignità al nostro entusiasmo per la sua Cleopatra: ma siam pronti a confessargli che l’idea soda ch'eglì aveva d'una diva cinematografica ha ancora la sua potenza e che ne facciam la prova ogni giorno, quando, girando per Roma in botticella, al passaggio di qualche formosa Cleopatra, noi, gli intellettuali raffinati, ci accorgiamo d'avere gli stessi gusti del nostro vetturino.
Questo romanesco-barocco del cinema italiano, quale Enrico Guazzoni seppe imporlo al mondo sotto pretesto di storica romanità, non mancava certo d'intuizioni geniali. E della confusione stessa tra romano e romanesco non si può far colpa ad Enrico Guazzoni se essa, attraverso il barrocco, è ancor oggi inavvertita e lampante in architetti come Brasini. Il romanesco trova nella sua Roma, bell'e fatto, il più magnifico tra gli scenarii, in cui è ancora così facile drappeggiare a toga un lenzuolo.
Il cinema italiano, quale il Guazzoni l'educò, fu, in sostanza, un capolavoro postumo ma non vulgare del genio barocco romano, in quanto genio corrusco del moto.
Attraverso il genio del moto qualche intuizione cinematografica del Guazzoni riuscì a forare la scenografia barocca ed a penetrare nel vivo della vita antica. Assai prima che Fred Niblo l’avesse per il Ben Hur, egli aveva avuto l’idea della corsa delle quadrighe: un’idea per cui si tornava veramente ad una romanità palpitante anche se detestabile. Non so quanto in queste rievocazioni circensi contribuisse la pittura storicizzante ottocentesca (c'ê un celebre quadro con una quadriga in curia per le vie di Pompei) ma non v’ha dubbio che la trovata fosse, per gran parte, cinematografica e felice.
Cosa strana, la corsa stupenda era ancor più animatrice nel suono che nell’immagine: e ce ne accorgemmo nella versione sonorizzata del Ben Hur.
La vita antica aveva tre immagini sonore di cui noi moderni non sapevamo più ritrovar l’idea: questa delle quadrighe uscenti a turbine dal curcer sul lastricato del circo: quella d’una flotta rameggiante nella bonaccia: quella del grido cui s’apriva la battaglia, vero polso sonoro da cui un orecchio esperto misurava il tono spirituale di tutta un’armata.
Questa delle quadrighe era davvero una sequenza da sonorizzare, perché nel suono, ancor più che nell'immagine, era il dramma: al contrario di quel che accade nel nostro mondo in cui la corsa di cavalli è di per sé silenziosa ed il rumore è tutto esterno. Che senso poteva avere, invece, una sonorizzazione della Gerusalemme liberata? Ma il Guazzoni ha sempre amato oltremodo la Gerusalemme liberata, questa sua così poco significante creatura ch`è stata la preoccupazione e l’orgoglio di tutta la sua vita. Ci lavorava già nel 1911, l'ha presentata nel 1917, l'ha sonorizzata nel 1934.
Il Guazzoni ha sempre un po’ avuta la debolezza di non sentire il mutarsi dei tempi. Nel 1924, quando il cinema americano ci aveva già tolto da gran parte dei mercati e ci aveva superati nella spettacolosità e nella squisitezza, egli credeva ancora di potere interessare il mondo col vecchio barocco romanesco, e dirigeva una Messalina.
Lo rivedemmo nel 1932, al primo rifiorire del cinema italiano, cimentarsi col Dono del mattino: far cioè del mediocre, se non dal cattivo, teatro forzanesco. Questa sì ch'era veramente la ribalta, coi lumi ancora a petrolio.
Ma l’uomo è, in sostanza, più agile di quanto paia, e, qualche volta, sa rimettersi in carreggiata. Il re burlone fu, relativamente, un rimettersi in carreggiata: un tornare, per quanto possibile, alla pari coi tempi.
Non dico che ci fossero novità in quel film: me ne guarderò bene. Si rispolverò, per l’occasione, il trenino campestre cameriniano di Figaro e la sua gran giornata. Ma il teatro, con Armando Falconi, si fece più largo, più ventilato, più brioso. Invece dei lumi a petrolio, c’erano già le lampadine elettriche.
Negli anni successivi, il Guazzoni inclina all'oleografia sentimentale, da vecchia parete. E` il tempo dei Due sergenti e del Dottor Antonio. Vorrebbe mettersi tuttavia in paro, ma mi par che questa volta non gliela faccia più. Racconta ora le cose ultravventurose. La figlia del corsaro verde e I pirati della Malesia del Salgari, ma ha un po’ l’aria d'un nonno che non s'accorga di raccontar favole, che andavan bene, sì, per il figliuolo ma sono già un tantino vecchiotte per il nepote. Salgari è già superato per i bimbi che giuocano con la mitragliatrice e l'aeroplano e il carrettino armato.
Non vorrei finire col dire cose sgradevoli ad un uomo che ha lavorato con gran passione ed ha fatto in trent`anni un terzo appena dei film che i nostri baldanzosi registi ci scodellano oggi in dieci anni. Enrico Guazzoni non è affatto un uomo della preistoria del nostro cinema: è un carattere rappresentativo, che ha dato al cinema italiano un'impronta che non s’è mai del tutto cancellala: intuito della scena, magnificenza, corruscare di masse. ln un tempo in cui si parla tanto d’un teatro di masse, bisognerebbe ricordare che questo regista ha creato il cinema italiano mettendo in primo piano la mass. Che egli fosse superato e che la vera drammaturgia filmistica nascesse il giorno in cui il cinema avesse messo in primo piano invece della massa i volti degli eroi e delle eroine, era le com’è fatale che le arti evolvano dal grandioso allo squisito, dal macchinoso al profondo, dal teatrale all’intimo. Ma aver cominciato sotto gli auspici solari e avventati del barocco romano, aver aperto al mondo questo più vero e maggior teatro delle meraviglie ch’è spettacolo cinematografico, portando del moto e della luce significa pure qualcosa. Possa o no piacervi Enrico Guazzoni è un personaggio, un creatore, che appartiene alla storia della civiltà. Nazionale.
Eugenio Giovannetti

Opere di Enrico Guazzoni: Bruto, I Maccabei, Agrippina (1911) – Marcantonio e Cleopatra, Quo Vadis? (1913) - La Gerusalemme liberata (1911-17-31) – Giulio Cesare (1914) - Messalina (1924) – Miriam la sperduta d’Allah (1928) – Il dono del mattino (1932) – La signorina Paradiso (1934) - Re Burlone (1935) -
Ho perduto mio marito, Re di denari, I due sergenti (1936) -- Il dottor Antonio (1937) - Il suo destino (1938) – Ho visto brillare le stelle (1939) – Antonio Meucci (1940) - La figlia del Corsaro Verde, l pirati della Malesia (1941).
 film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 4  24 GENNAIO 1942 XX

La testata si riferisce al film Via delle cinque lune diretto da Luigi Chiarini e interpretato da Luisella Beghi, Andrea Checchi, Olga Solbelli (Prdod. Cinecittà, realizz. artistica C.S C.; distr. Enic)