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mercoledì 9 marzo 2022

Mozart, Dostoïevski... Bresson




"Robert Bresson est le cinéma français, comme Dostoïevski est le roman russe et Mozart, c'est de la musique allemande". Jean-Luc Godard


 

lunedì 21 maggio 2018

Stile trascendentale e sua rappresentazione




Non c’è nessuna definizione di «trascendentale» o di «stile» che possa monopolizzare il dibattito su un'opera d’arte. E quei film che utilizzano lo stile trascendentale possono essere anche analizzati, come spesso accade, all’interno della cultura o della personalità creatrice che li hanno prodotti. Sebbene il metodo critico che associo al termine «stile trascendentale» non possa vantare l’esclusiva nell’analisi di registi come Ozu e Bresson, ritengo tuttavia che esso abbia una priorità. Nella maggior parte delle pellicole l’abilità del regista nell’esprimere la propria cultura o la propria personalità è più importante della sua incapacità di trascenderle, ma quando un film sembra possedere un autentico valore trascendente, una qualità «Altra» - come avviene per Tardo autunno di Ozu o per Diario di un curato di campagna di Bresson, allora una prospettiva culturale o individuale, anche se incisiva e penetrante, risulta insufficiente perché finisce giocoforza per trascurare la qualità unica dello stile trascendentale, ossia la sua capacità di trascendere appunto cultura e personalità. C’è una verità spirituale che può essere raggiunta solo disponendo in modo neutro oggetti e immagini gli uni a fianco alle altre, e a questa verità non è possibile arrivare con un approccio soggettivo, individuale o culturale.
Lo studio dello stile trascendentale rivela «una forma universale di rappresentazione». Le differenze tra i film di Ozu, Bresson e Dreyer sono perciò di tipo culturale e personale, mentre le loro affinità sono di tipo stilistico, e costituiscono un modo comune di esprimere il trascendente nel cinema.
Paul Schrader, IL TRASCENDENTE NEL CINEMA, donzelli editore, 2010

lunedì 9 aprile 2018

Matter of style







There is a presence of something which I call God, but I don't want to show it too much I prefer to make people feel it."
Robert Bresson interviewed by Paul Schrader.

Per uno spettatore occidentale è più facile riconoscere gli elementi culturali di Bresson che quelli di Ozu: può trovare indistinguibili l’uno dall'altro i diversi stati d’animo del furyu, mentre non gli sarà difficile comprendere le varie sfaccettature della teologia e dell’estetica occidentali. In ogni caso Ozu e Bresson si servono delle caratteristiche specifiche della loro cultura di appartenenza, ma le riducono al loro elemento comune: la forma.
Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, Donzelli, 2002



domenica 27 agosto 2017

Perfidia e debolezze



Sei qui...

Forse col tempo mi perdonerai.

Ma non avere fretta.

Tante ragazze oneste
diventano donne disoneste.

Forse io offrirò un esempio contrario.

Ancora non sono degna
che ti avvicini a me.
Aspetta.

Lasciami solo la speranza.

Giudicherai il mio comportamento...

Sarò felice se accetterai
per un po' la mia presenza.

Dimmi in quale angolo della
casa mi permetterai di abitare.

E io ci resterò senza lagnarmi.

Non sono cattiva.

Mi conosco.

Sono stata debole.

Ti amavo, questa è la mia sola scusa.

Non ho avuto la forza
di aprirti gli occhi.

Ricordati la lettera che
non hai voluto leggere.
Non è stato divertente.
  
Non ti darò più fastidio.
E' facile.

Jean Cocteau per
Robert BressonLes  Dames du Bois de Boulogne (Perfidia), 1945

venerdì 25 agosto 2017

Robert Bresson's cinematographers


Philippe Agostini ( 1910 – 2001)


Leonce-H. Burel (1892-1977)


Pierre Ghislain Cloquet (1924 - 1981)


Pasqualino De Santis (1927 - 1996)

martedì 22 agosto 2017

giovedì 17 settembre 2015

Da Robert Bresson a Gustave Flaubert

In un paese che, per molte ragioni, e malgrado tutto, è ancora legato al rispetto di certi valori tradizionali, a Robert Bresson è riuscito il colpo incredibile di trovare dei finanziatori per tradurre in un film il romanzo del povero Georges Bernanos, il << Journal d'un cure de campagne >>. Si tratta di un’opera cinematografica di raro interesse; anche se è chiaro che sul piano morale quei bei tipi di capitalisti che hanno affidato i loro milioni a Bresson meritano almeno la stessa riconoscenza, da parte degli spettatori illuminati, guadagnata dal regista. I problemi del male, della grazia, della carità, del destino com’è abbastanza noto, sono affrontati nel suo maggior romanzo dal Bernanos attraverso la figura d’un prete di campagna candido, disarmato, malato ma dall'incorruttibile fede. È un dramma quasi sempre interiore, e spinto, ai fini artistici, ai limiti delle possibilità romanzesche. La Chiesa chiede infatti ai suoi servi impegnati << nel secolo >> che siano di buona salute, apostoli vigo-rosi e soldati senza debolezze fisiche. Accade invece che il giovane protagonista del Diario sia affetto- da un tumore mortale, malattia piuttosto rara nei giovani e ad ogni modo difficile da diagnosticare alle origini. Il sacerdote trova nel piccolo centro, delle cui anime è il pastore, diffidenza cocciuta, inerte, cieca da parte dei villici mentre il << castello >> ospita un << nodo di vipere >> difficile da sciogliere. Malato a morte, ma senza saperlo, il prete ha la fatale rivelazione da un medico volteriano; scrive le ultime pagine del Diario in uno di quei caffeucci vicino alle stazioni ; poi va a morire tra le braccia di un compagno di seminario, che ha lasciato la veste sacerdotale per accompagnarsi con una donna. Prima di morire mormora: << Tutto è grazia >> .
Bresson, scegliendo il prete di Bernanos a protagonista del suo film, sapeva di porsi una sorta di scommessa. Nel Diario di un curato di campagna non vi è nulla di ciò che non solo i maneggioni ma i teorici dello << specifico filmico >> -ritengono << cinematografico >>. Manca il sesso; manca l’avventura; non c’è ombra di trama; non c’è << lieto fine >>. E manca soprattutto il << movimento >>. A parte le difficoltà tecniche, penso che sia più facile ricavare un film da Proust, dal romanzo nel romanzo intitolato << Un amour de Swann» per esempio (idea che, a quanto ne so, non è ancora venuta in testa a nessuno), che dal romanzo di Bernanos. Eppure Bresson ha quasi vinto la scommessa. Il suo film, senza essere <<d’avanguardia >>, ha un fascino singolare. Non ha, a propriamente parlare, una tradizione cinematografica. Soltanto, ma in un’altra direzione spirituale, la coppia Coward-Lean con Breve incontro in Inghilterra ha tentato di dirci, come Bresson, qualcosa di ineffabile. E sempre sul terreno della lezione, del messaggio, di una certa letteratura francese che si rivolge << all’uomo interiore >>: per Breve incontro la lezione viene dalla << Princesse de Clèves >> di Madame de La Fayette, per il film di Bresson bisogna rimontare, attraverso Bernanos, alle << Pensées >> di Pascal. Un particolare rivelatore consiste, nel Journal di un curé de campagne, nella parte artisticamente più debole: quella che si svolge nel << castello >> tra i ricchi, affetti, direi organicamente, da alcuni peccati mortali. Che è l’unica che offra partiti di interesse pratico, nella quale affiori  l’ombra d'una trama. Soltanto dalla civiltà francese, da una nazione in cui una società è ancora viva e in fermento, in cui la passione delle idee riesce ancora a muovere il capitale privato, ci poteva venire il segno, restato quasi unico a Venezia, che il cinema non è morto, e che la Francia è il luogo fisico e spirituale delle sue prove più durature e virili.
Per dare maggiore autenticità al racconto, il Bresson è ricorso a un giovane, Claude Laydu, che era alla sua prima interpretazione; mentre l’ambiente, campagne deserte, strade  autunnali, caffeucci, povere case, è lo stesso, nel nord della Francia, che ha ispirato il testo originale di Bernanos. Altissima prova di stile, il Diario- non ha un cedimento: è visto e raccontato con una puntualità stilistica da dar le vertigini. È una di quelle opere che si accettano << in toto->> o si respingono senza remissione. Di fronte a film pur importanti e vitali come L’asso nella manica, il Diario fa la figura di << mo-stro >> sacro'. Ma è certo che alcuni passi: le attese mistiche all’alba e al tramonto, il dialogo finale con il buon curato di- Torcy, sono di tale potenza da commuovere anche lo spettatore più distratto, il più tenace ammiratore dei tipetti formato Esther Williams.
È curioso questo fatto: mentre tra il diario-romanzo e il diario-film i << contenuti >> sono quasi identici, tra Bernanos, l'autore, e Bresson, il regista, dal punto di vista espressivo, c’è una differenza sostanziale. Bernanos è un narratore romantico, impegnato, pieno di furore biblico, di canonico disprezzo per gli atei, contro i quali, nelle sue pagine, balenano, d’improvviso, fulminanti invettive. Bresson è, invece, un narratore avviluppante e pacato, lucido e puntuale. Un tipo per cui la lingua, lo stile son tutto: come il Dreyer  di Dies irae. E se volete un paragone letterario', pensate al Flaubert moralista e stilista di <Madame Bovary >> e di <<Un coeur simple >>.
                                                                                                             1951.
 Pietro Bianchi, Maestri del cinema

mercoledì 2 gennaio 2013

'55 Chevy vs Pontiac G.T.O.

OGGI
AL CINEFORUM PEPPUCCIO TORNATORE

La retrospettiva dedicata a Robert Bresson termina al Cineforum con l'opera maggiore di un autore americano che riprende lo stile del maestro francese, provare per credere.
La cinepresa attrezzata di lente anamorfica indugia sulla strada e sui personaggi carpendovi gli stati d'animo ed il paesaggio in una storia tipicamente on the road, colorata dalle canzoni westcostiane dell'epoca.
James (Caroline on my mind) Taylor e Warren Oates non escono mai da quell'apparente recitazione che caratterizza il cinema bressoniano.
Mi viene un ulteriore suggerimento:in questo film Monte Hellman coniuga Robert Bresson con l'ausilio di Sam Peckimpah.



giovedì 27 dicembre 2012

L'art et les films de Robert Bresson

Robert Bresson : La même image amenée par dix chemins différents sera dix fois une image différente

"Pouvoir qu'ont tes images (aplaties) d'être autres que ce qu'elles sont. La même image amenée par dix chemins différents sera dix fois une image différente."
Robert Bresson, Notes sur le cinématographe
Image... (dernier plan de Mouchette, de Robert Bresson)

...et chemin de l'image (vidéo : dernière scène de Mouchette, de Robert Bresson)

domenica 16 dicembre 2012

The sad story of a disadsvanteged and friendless teenage girl in rural France

 

Robert Bresson’s Mouchette (1967) tells the sad story of a disadvantaged and friendless teenage girl in rural France. Usually there was a hiatus of several years between Bresson’s productions, but Mouchette was filmed immediately after his Au Hasard Balthazar and features some common elements and themes with that film. Both depict ill-fated girls living a tormented life in rural French society, which itself is portrayed as violent, mean spirited, and alcohol besotted. Because of these thematic commonalities, the two films are often paired by critics and held in mutually high esteem by Bresson’s admirers. There is one striking difference between the two, however. While Au Hasard Balthazar was, unusually for Bresson’, based on his own script, Mouchette was adapted from an existing text – in this case a novella by Georges Bernanos, another of whose works had served as the basis for Bresson’s masterful Diary of a Country Priest (Journal d'un Curé de Campagne, 1950). But apart from the nature of authorship, there are other distinctions and points of comparison between Mouchette and Au Hasard Balthazar, as I will elaborate further.

Bresson’s films have been considered to be spiritual, or even religious, and certainly his films reveal the influence of his Jansenist Roman Catholic upbringing. But I would argue that they are not so explicitly religious, although they do evoke the fundamental Existentialist issues that are invariably addressed by religions and theological schools. After all, Bresson characterised himself as an agnostic, so we should not really expect him to be completely obsessed by religious schema. Perhaps it is best to fall back to the term, ‘transcendental”, which Paul Schrader used to characterize Bresson’s work. In any case Mouchette represents a further progression in Bresson’s movement towards a pessimistic view of human nature and the prospects of redemption. Whereas redemption was at least held as possible in Diary of a Country Priest, A Man Escaped (1956), and Pickpocket (1959), when we proceed further and get to The Trial of Joan of Arc (1962), and Au Hasard Balthazar (1966), the possibilities of redemption seem, at best, only subjective. Finally with Mouchette, the picture moves even further away from contemplative melancholy and closer to complete despair. In spite of its gloomy outlook, however, Mouchette was named in a 1972 poll conducted by Sight and Sound magazine to be among the top twenty greatest movies ever made.

By the time of the making of this film, Bresson’s cinematic aesthetics were famously austere, even severe. He restricted himself to nonprofessional actors, who were instructed to read their lines in a flat, automatic fashion, without the slightest trace of theatrical interpretation. This was done in order to present the cinematic viewing experience as something original, rather than as a photographed version of some narrative that had been situated in another form of expression, such as a novel or a play. As I remarked in my review of Balthazar,
. . . Bresson always forces the viewer to construct his own, individual diegesis. Bresson argued that when we experience immediate events in our everyday lives, there is no causality. A causal understanding of experience is only produced later, upon reflection. Bresson wanted the audience to have this direct causal-construction experience with his film narratives, and for this reason he didn’t want his actors (which he preferred to call “models”) to inject their own interpretive causal renderings in their roles. He didn’t want them to “perform”, because this would inevitably lead them to introduce their personal causal interpretations that would disadvantage the constructive experience for the viewer. It is for this reason that he insisted on those flat performances of his models, with downcast eyes that disconnected the players from each other. As a consequence, each viewer of a Bresson film will have to construct his or her diegetic interpretation purely within the framework of his or her own experiences.
It follows then that the viewer often sees events in Bresson’s films in something of a reverse order: first the events depicting an effect are shown, and then the events that provide a causal explanation of that effect are shown moments later. Events presented this way can place the viewer into a mode of existential experience aligned with the film’s protagonist. In the case of Mouchette, Bresson’s concern with aspects of causality is a key issue, since the causal motivations of Mouchette’s final actions are open to our interpretation and somewhat problematic.

The story of the film, which proceeds through four main sections, is covered in some detail, because a number of elements accumulate to create the overall theme.

I. Setting the Scene (11 minutes). This comprises four disconnected scenes that separately introduce the principal characters, whose identities and relationships will be revealed gradually.
  1. A lone woman laments her declining condition, saying, “what will become of them without me”. After she leaves, the camera remains fixed on her empty chair, thereby establishing the visual motif of absence and isolation that will dominate the film.
  2. A game warden in the forest eyes a poacher snaring birds. Filmed almost exclusively in closeups, the scene compels the viewer to patch together the images and to try and make the connections.
  3. The game warden walks back into town and passes some girls on their way to school. One of the girls in the foreground hears her name called, “Mouchette”.
  4. The game warden, Mathieu, goes to a tavern and earnestly propositions the barmaid, Louisa, but she seems indifferent. Then two bootleggers unload a truck full of whiskey crates and deliver them to the tavern. After downing shots of whiskey, they drive home, where Mouchette is attending her sick mother (the woman seen initially).
II. Romantic Frustrations (16 minutes). The next day in school, Mouchette, with shabby old clothes and clunky wooden clogs, is harshly scolded by her teacher for not conforming with the class group singing activity. After school, Mouchette hides near the road and flings mud at her better-dressed classmates. Then on her way home, a village boy attempts to humiliate the friendless girl by brazenly exposing himself to her. Later, on Sunday after attending church, the villagers go to the tavern, where Mouchette works helping the bar made, Louisa. Afterwards, Mouchette wanders over to the town fair and wistfully stares at the bumper-car ride concession. A passing lady gives Mouchette coins needed to go for a ride, and she quickly joins in the fun, soon engaging in a flirtatious bumping rivalry with a well-dressed village boy in another bumper car. But after the conclusion of the ride when she timidly approaches the boy, her father comes over and rudely slaps her in the face for being a hussy, reducing the poor girl to tears. Louisa then comes to the fair with the poacher, Arsene, and they get on another concession ride together, much to the jealous consternation of the onlooking Mathieu.

III. Mouchette’s Night Out (26 minutes). The next day, Mouchette is back to flinging mud at her classmates again after school. But the other schoolgirls just ignore the abuse and ride away with their boyfriends on their motor scooters, while Mouchette looks on enviously. She runs off into the nearby forest, but she gets caught in a sudden rainstorm and hides under a tree to wait it out. When the rain finally stops, it is already dark, but as she starts to walk home, she hides when she sees the gun-wielding Mathieu in search of the poacher Arsene. We then follow Mathieu, who finds and confronts Arsene. But after an initial fistfight, they fall to the ground and are soon laughing and drinking whiskey together like old comrades. Somwhat later, Arsene finds Mouchette hiding and takes her to his hut in the woods so that they can take shelter from what he calls the “cyclone”. There he confides to her that he thinks he may have killed Mathieu and demands that she testify to a false alibi that would cover him should the police question her. Wanting to remove evidence that he was in the forest that night, Arsene then takes her to the village tavern and breaks into the back room. But shortly after entering the room Arsene falls into a frightening epileptic seizure and starts thrashing on the floor. Mouchette, moved by his suffering, holds him still and then tenderly sings her school song to him as he gradually comes to. But when Arsene completely regains consciousness, he has forgotten about his confession and Mouchette’s assurances of loyalty, and so he tries to prevent her from leaving the hut to go home. Eventually he overpowers her and rapes her, and she ultimately submits.

IV. No Way Out (27 minutes). Mouchette eventually escapes from the tavern and returns home early in the morning. In a short space of time she then has a series of dispiriting experiences:
  1. In a daze and crying from her harrowing experience, she tries to look after the baby for her helplessly ill mother. But her mother soon succumbs to her illness and dies.
  2. The next morning Mouchette goes out to get milk for the baby. A grocery store lady expresses her sympathies to Mouchette concerning her mother and offers the girl chocolate. But when she sees some scratches on Mouchett’e neck, the woman rudely calls her a slut.
  3. On the way back to her home, Mouchette passes by the gamekeeper’s house and sees that he is perfectly OK – Arsene’s story of having killed the gamekeeper was illusory. The gamekeeper and his wife accuse Mouchette of carousing with Arsene and harshly question her, but Mouchette defiantly tells them that in fact she loves Arsene.
  4. As Mouchette walks home, a wealthy old lady invites her inside and gives her a shroud and some dresses. But the woman’s age and incessant talk about death only put off Mouchette, and she rebelliously whispers under her breath, “you disgusting old thing”.
  5. Continuing home Mouchette walks past the forest again, where men are shooting rabbits. Seeing a rabbit shot by the “sportsmen”, she rushes over to watch it in its death throes.
  6. After these experiences, Mouchette walks over to a pond and sits near the bank. She holds up one of the dresses that the old lady had given to her, but it tears on a branch. Apparently distraught over the spoiling of her one nice possession, she puts the torn dress over her and rolls down the hill towards the pond, perhaps merely to complete the ruination of the dress. When she sits up, she sees a tractor in the distance and calls out to it, but although the driver stares back, he does not respond. She goes back to rolling down the bank again, but now with the intent of rolling all the way into the pond. On her second attempt her suicidal act is successful, and the camera remains focused on the pond.
When we compare Mouchette to Au Hasard Balthazar, it can be seen that despite some common elements, there are also very marked differences. In fact one might speculate that Mouchette was conceived to overcome a deficiency that was present in that immediately preceding film of Bresson’s. In Au Hasard Balthazar, there was no observable, or even possible, justification or motivation for Marie’s slavish love for the thug, Gerard. There was no hint of a comprehensible human relationship. This prevented the viewer from engaging in any existential empathy with Marie (and of course, such empathy was equally impossible for the innocent, but opaque, donkey, Balthazar). Both Marie and Balthazar may have engaged our sympathies, but not our empathy. But in Mouchette the situation is somewhat different. Even though the hopes for meaningful personal relationships are ultimately frustrated, at least the quest for genuine human engagement is observable and once or twice seems possible. This is highlighted by the brief moment of tenderness that Mouchette feels for Arsene after his epileptic fit – one of the most intimate and touching moments in the entire Bressonian canon.

In fact the quest for a meaningful relationship that would establish her identity (to herself) is what underlies the film. As Bernanos and Bresson knew well, we understand ourselves in terms of our meaningful relationships with others. Mouchette is seen throughout as an “unperson” who is completely isolated from the village and not recognized as a normal human being. Her father brutalizes her; her classmates ignore her; and the village boys mock her. Throughout the film she tries the little acts of rebellion common to all children that represent minimal assertions of selfhood. She mischievously spills milk when serving her family coffee. She intentionally sings off key in her classroom. She stomps her Sunday shoes in the mud. And she scrapes her muddy shoes on the old lady’s nice carpet. These minor misdemeanors are indicative of her limited opportunities for free expression and action. Apart from her mother, there is only one person who treats her like a human being, and that is Arsene. That is why she swears that she would die for him and why she defends him to the gamekeeper even after he raped her.

But the adult world, dominated as it is by artefacts, machines, and mechanical manipulation, seems to offer her no opportunities for a self-defining human relationship. This is symbolized by both the sound of intrusively noisy trucks incessantly passing by her apartment and the boys’ motor scooters that whisk away Mouchette’s classmates. Mouchette’s one opportunity to experience this mechanical world – when she rode the bumper cars – was only a fantasy that ended in pain and humliation. Her alcohol-fueled father holds his cap and pretends he is driving his truck when he falls drunkenly into bed: mechanical control is what dominates his dreams. They all have their contraptions: her father has his truck, Mathieu and the rabbit shooters have their guns, and Arsene has his animal trap. In fact, the adult world is so artificial and schematic that, as far as Mouchette is concerned, there is a sense of unreality to it. What is real, and what is not? When Arsene and Mathieu appear to be fighting to the death in the forest, they suddenly and mysteriously start laughing and drinking together. Arsene tells Mouchette that the storm was a “cyclone”, but the next day her mother, whom she trusts, tells her that there wasn’t one. Arsene tells her that he killed Mathieu, and the next day she sees Mathieu perfectly unharmed. Was all her suffering on behalf of Arsene just a dream? After seeing her mother die in suffering and the innocent rabbit blown apart by the hunters’ rifle shots, life itself must have been held in question.

Thus Mouchette is very much an existentialist tale of loneliness and isolation, while Au Hasard Balthazar is more of an expressionistic nightmare of pure suffering. Mouchette was impaired, however, by the progressive austerity of Bresson’s now-rigid mise en scène. This is exemplified in Bresson’s differing adaptaions of the two texts by Bernanos. As literary works, both Bernanos’s Diary of a Country Priest, and his Mouchette were told as first-person French histoires. Bresson’s earlier filming Diary of a Country Priest was faithful to Bernanos’s first-person narrative, and the result was brilliant. But by the time of the filming of Mouchette, Bresson eschewed such causation-infected narrative contrivances, to the detriment of the viewing experience. This degree of aesthetic self-discipline on the part of Bresson distances the viewer from the character of Mouchette and enervates the power of the story. Although Mouchette may be more sophisticated and more profound, Au Hasard Balthazar is more powerful.

In the last analysis, one might ask whether Mouchette was devoid of any hope at all. That final calling out to the tractor driver on the part of Mouchette in the film is reminiscent of Joseph K’s final, hopeful glance up to the lighted window in Franz Kafka’s The Trial. This was one last appeal for a meaningful interaction. Something more than the cold stare that Mouchette received might have saved her life. But those life-saving “something more” gestures are all-too rare in this world
 
L'originale è qui:

lunedì 10 dicembre 2012

L'inverno di Robert Bresson




Dio ha visto tutto ma non ha detto una parola.
Mouchette non ha progetti, non ha una “vocazione” come Michel in Pickpocket o Giovanna d’Arco nel Processo. Essa non è più che un destino. In questo film, dove si vede il più libero, moralmente, il più forte dei suoi eroi, Bresson ha voluto far sentire una mano superiore che dirige gli avvenimenti. Jean Semulé

Il “cattolico” Bresson, mentre si ispira a Bernanos, continua a descriverci un mondo senza Grazia.: l’impossibilità di rapporto della protagonista (“sola contro tutti” diceva l’autore del romanzo) è totale, i suoi occhi si posano su un universo gretto e insensato, la sua adolescenza avverte ed esaurisce in poche stagioni (che si compendiano e precipitano negli avvenimenti di una sola giornata) tutta la mortificazione e il dolore di esistere. Bresson si allontana ancora dal “giansenismo” risentito, a suo modo attivo, del Condannato e dello stesso Processo a Giovanna, verso una sorta di cristianesimo ateo, senza riscatto, in cui l’unico gesto libero che l’uomo sembra compiere è quello di morire. Una morte che non è più l’estrema conseguenza dell’ ”utopia” dei protagonisti, di fronte al “realismo” degli altri e dell’istituzione sociale repressiva, ma un triste congedo senza pretesa di “esemplarità”. Ma non senza la certezza cresciuta nel sangue e nel pensiero, di doversi separare da quella faticosa e mortificata contraffazione della vita che è l’esistenza degli altri e, in quel contesto, la propria. Questa determinazione eroica di annullamento che accentua, fuori di ogni pietismo consolatorio di specie cristiana e/o populistica, la grande Giovanna e l’oscura Mouchette, è qualcosa di diverso, di più umile, ma anche di più “radicale” e voluto sino in fondo dal nero abisso che “accoglie solo i predestinati” (Bernanos)  Adelio Ferrero
Avevo parlato di primavera a proposito delle Quattro notti di un sognatore, con Mouchette ci siamo addentrati nell’inverno più freddo.  Mouchette è il pianto della terra orribilmente devastata e violentata.
Irreversibilmente.

Alla sua età, morire o diventare una signora sono due avventure chimeriche.

domenica 9 dicembre 2012

giovedì 6 dicembre 2012

Le curé et la Sainte Agonie


« La véritable structure selon laquelle se déroule le film n’est pas celle de la tragédie mais du « Jeu de la Passion » ou, mieux encore, du Chemin de Croix. Chaque séquence est une station. La clef nous en est révélée par le dialogue dans la cabane entre les deux curés quand celui d’Ambricourt découvre sa préférence spirituelle pour le Mont des Oliviers. « N’est-ce pas assez que Notre Seigneur m’ai fait cette grâce de me révéler aujourd’hui par la voix de mon vieux maître que rien ne m’arracherait à la place choisie par moi de toute éternité, que j’étais prisonnier de la Sainte Agonie. » la mort n’est pas la fatalité de l’agonie, seulement son terme et la délivrance. Nous saurons désormais à quelle souveraine ordonnance, à quel rythme spirituel répondent les souffrances et les actes du curé. Ils figurent son agonie.
Il n’est peut-être pas inutile de signaler les analogies christiques dont abondent la fin du film, car elles ont des raisons de passer inaperçues. Ainsi les deux évanouissements dans la nuit ; de la chute dans la boue, des vomissures de vin et de sang (où se retrouve une synthèse de métaphores bouleversantes avec les chutes de Jésus, le sang de la Passion, l’éponge du vinaigre et les souillures des crachats). Encore : voile de Véronique, le torchon de Séraphita ; enfin la mort dans la mansarde, Golgotha dérisoire où ne manque pas le bon (ou le mauvais ?) larron. Oublions immédiatement ces rapprochements dont la formulation trahit nécessairement la pure immanence. Leur valeur esthétique procède de leur valeur théologique, l’une et l’autre s’opposent à l’explicitation ; Bresson comme Bernanos s’étant gardé de l’allusion symbolique, aucune des situations dont la référence évangélique est cependant certaine n’est là pour sa ressemblance, elle possède sa signification propre, biographique et contingente, sa similitude christique n’est que seconde par projection sur le plan supérieur de l’analogie. La vie du curé d’Ars n’imite en aucune façon celle de son Modèle, elle La répète et La figure. Chacun porte sa Croix et chaque Croix est différente mais ce sont toutes Celle de la Passion. Au front du curé, les sueurs de la fièvre sont du sang.
Aussi pour la première fois sans doute, le cinéma nous offre non point seulement un film dont les seuls événements véritables, les seuls mouvements sensibles sont ceux de la vie intérieure, mais, plus encore, une dramaturgie nouvelle spécifiquement religieuse, mieux, théologique : une phénoménologie du salut et de la grâce. »
André Bazin, Le Journal d’un Curé de Campagne et la stylistique de Robert Bresson, Cahiers du Cinéma n° 3, juin 1951
« C’est aux ailes de la Victoire de Samothrace que Le Journal d’un curé de campagne fait penser. Prodigieuse victoire de l’image et du verbe. Bresson ne trouve qu’un précédent : Dreyer. En paraphrasant les dernières paroles du curé d’Ambricourt – Tout est grâce ! - Bresson semble ajouter « Tout est poésie ». C’est par la poésie que tout spectateur, même l’agnostique, devient la conscience du héros. Il va de soi que la révélation d’une prise de conscience importe plus que les raisonnements qui en découlent – La poésie à la source de la raison ! Si vraiment derrière l’art de Bresson, il y a une pensée méthodique et concertée, le ressort de son œuvre est là. Cela expliquerait aussi la continuité absolue entre l’œuvre littéraire de Bernanos et l’œuvre filmique de Bresson. […]
R. Bresson domine toutes les composantes du film, la musique même – la belle musique de J.J.Grunenwald – devient un élément fonctionnel qui se fond dans l’ensemble du Journal du Curé de Campagne. Bresson a senti – et nous fait sentir – l’angoisse de son personnage, son infinie détresse d’homme solitaire. Solitaire, parce qu’il est le seul dans sa paroisse à vivre selon le Christ. Le curé d’Ambricourt est un solitaire comme le pasteur de Dies Irae. Cette angoisse atteint une telle perfection, que le film donne en réalité un sens de bonheur : on est heureux d’avoir été envoûté par le plus hostile des messages, par cette lutte contre le vide de l’âme, par la grâce. Le film « catholique » diffère en cela du film « protestant » de Dreyer, on aura observé cependant que tous les deux s’achèvent sur la même image, qui ne doit rien au cinéma : une croix de lumière, qui cache les larmes d’Anna dans le janséniste Dies Irae ; qui annonce la mort du curé « Qu’est-ce que cela fait ? Tout est grâce. » dans Le Journal d’un Curé de Campagne. […] »
Lo Duca, Un acte de foi, Cahiers du Cinéma n°1, avril 1951

domenica 2 dicembre 2012

Scolpire il tempo: Tarkovskij/Bresson

There are few people of genius in the cinema; look at Bresson, Mizoguchi, Dovzhenko, Paradjanov, Bunuel: not one of them could be confused with anyone else. An artist of that calibre follows one straight line, albeit at great cost; not without weakness or even, indeed, occasionally being farfetched; but always in the name of the one idea, the one conception.


What is Bresson's genre? He doesn't have one. Bresson is Bresson. He is a genre in himself. Antonioni, Fellini, Bergman, Kurosawa, Dovzhenko, Vigo, Mizoguchi, Bunuel - each is identified with himself. The very concept of genre is as cold as the tomb. And is Chaplin - comedy? No: he is Chaplin, pure and simple; a unique phenomenon, never to be repeated.

There are two basic categories of film directors. One consists of those who seek to imitate the world in which they live, the other of those who seek to create their own world. The second category contains the poets of cinema, Bresson, Dovzenko, Mizoguchi, Bergman, Buñuel and Kurosawa, the cinema's most important names. The work of these film-makers is difficult to distribute: it reflects their inner aspirations, and this always runs counter to public taste. This does not mean that the film-makers don't want to be understood by their audience. But rather that they themselves try to pick up on and understand the inner feelings of the audience.

mercoledì 28 novembre 2012

Le maniere per realizzare un film

Ci sono parecchie maniere per realizzare un film. Come Jean Renoir e  Robert Bresson, che fanno della musica. Come Eisenstein che fa della pittura, Come Stroheim che scrive dei romanzi parlati all’epoca del muto. Come Alain Resnais che fa della scultura. E come Socrate, cioè Rossellini che fa semplicemente della filosofia, in breve, il cinema può essere talvolta musica. Jean-Luc Godard


lunedì 19 novembre 2012

Un fuoco che brucia sulla spalla di Gesù Cristo

La struttura e la scansione del diario, conservate amorevolmente dal regista, accentuano, esasperandola, la condizione di isolamento: le pagine del quaderno sulle quali il curato annota i poveri fatti e i grandi dubbi e trasalimenti delle sue giornate, riempiono lo schermo fin dall’inizio e vi torneranno più di una volta, a racchiudere e scandire il luogo di una riflessione  solitaria e implacata. Le parole, tracciate sui fogli con una grafia incerta e smozzicata, vengono restituite contemporaneamente dalla voce  uniforme e sommessa del protagonista, spegnendone l’inflessione drammatica, presente nella pagina del romanziere, nella neutralità di quel parlare “recto tono” su cui si ferma André Bazin, per il quale il Diario poteva essere definito “un film muto con sottotitoli parlati”. Adelio Ferrero

Che mi si rimprovera? D’essere quel che siete … la gente non odia la vostra semplicità, se ne difende. E’ una specie di fuoco che brucia.

La vera miseria non ha per risultato né il male né il bene, la vera miseria non ha via d’uscita. La vera miseria dei miserabili non ha uscita che in Dio, ma non vuole una liberazione. Essa si chiude in se stessa. E’ murata come l’inferno. Io credo che una tale miseria, che dimenticato finanche il suo nome, che non cerca più, che non ragiona più, che volge l caso la sua fronte torva, deve risvegliarsi un giorno sulla spalla di Gesù Cristo.


Journal d'un curé de campagne di xavier_sirven
Le Journal d'un curé de campagne - la moto di Patamars

domenica 4 novembre 2012

Non per soldi ma per...


Dagli attenti studiosi dell’opera bressoniana, la presenza dostoveskiana è stata avvertita in opere come Pickpocket- Delitto e castigo – e  Au hazard balthazar – L’idiota.
L’ultimo film del maestro  francese è invece tratto da Lev Tolstoi  - Denaro falso o La cedola falsa.
Questa volta per addentrarvi nel film abbozzo io una trama che parte dal film e risale al racconto di Tolstoi pubblicato postumo nel 1911.
Leggete qua:
Luigi, impiegato di un Ente di Formazione Professionale, da mesi  si ritrova senza  lo stipendio, pur recandosi ogni giorno sul posto d lavoro e svolgendo le mansioni affidategli.  Altri, più sopra di lui, decidono di fare e disfare sulla sua testa e quella dei suoi colleghi. Altri, seduti comodamente che non si fanno mancare niente, compresi i compensi, falsi, per le trasferte.
Occasionalmente, Luigi, fa dei lavori con lo scopo di raccogliere quanto gli serve per far fronte ad un mutuo ancora in corso e rimborsare la finanziaria presso cui ha fatto ricorso per un prestito al fine di ristrutturare la casa, certo di far fronte, quando ha firmato in banca ed alla finanziaria, agli impegni ,da quanto riceveva in busta paga ora busta fantasma.
Per uno di questi lavori saltuari, un trasporto di legna con il suo pickup, riceve una banconota falsa di cento euro. Ignaro del danaro falso si reca dal distributore di carburante per rifornirsi. Lì per lì l’operaio del rifornimento non si accorge del falso e scambia la banconota consegnando il resto allo sprovveduto Luigi.
Se ne accorge la sera il gestore dell’impianto il quale penalizza sulla paga l’operaio ma trattiene anche la banconota falsa, pensando di riciclarla con il primo malcapitato.
Nel fine settimana lo trova in un vecchio giardiniere che gli cura il verde dell’impianto di rifornimento, come compenso settimanale. E’ sabato, ed il vecchio si reca al supermercato per fare la spesa da portare a casa dove vive con la moglie, ma viene fermato perché la macchinetta che serve per riconoscere i falsi rigetta la banconota. Chiamata la polizia il malcapitato denuncia il gestore che gli ha rifilato il danaro fraudolento. Questi viene denunciato per spaccio di banconote false e arrestato. Processato si vede costretto a cedere l’impianto di rifornimento. Le spese processuali costringono alla fine anche quest’ultimo ad inventarsi un lavoro per poter mantenere la famiglia composta di due figli e di una moglie affetta da sclerosi multipla. Angosciato per non riuscirci, in un momento d’ira con i figli, decide di farla finita con tutto e tutti …
E’ stato detto che rispetto al racconto originale di Tolstoi, nel film di Bresson, il quale era ritenuto un giansenista, non c’è redenzione; ma che redenzione può esserci,  in questo momento in cui si sta svendendo tutto compreso i sentimenti e gli affetti, dove altri, dai dirigenti della Monsanto ai dirigenti della Regione siciliana decidono per dove deve scorrere il denaro?
Già da tre anni Vasilij aveva lasciato il suo villaggio per venire a vivere in città. … Ogni anno dimenticava sempre di più le leggi della gente di campagna e assimilava le abitudini della città. Là al suo villaggio tutto era grossolano,  grigio, misero, disordinato, qua era tutto fine, pulito, ricco, e tutto era in ordine. Ed egli era sempre più convinto che i contadini vivessero senza alcun senno, come le bestie della foresta, e che solo qua ci fossero i veri uomini. Leggeva libri i bravi autori, romanzi, andava agli spettacoli della casa del popolo. Cose che in campagna non ci sono neppure. In campagna i vecchi dicono: vivi secondo la legge con tua moglie, lavora, non mangiare troppo, e non vantarti; qua invece uomini intelligenti e istruiti, che quindi conoscevano le vere leggi, vivevano secondo il loro piacere. E  tutto andava bene. La cedola falsa, Tolstoi, Tutti i racconti vol. 2, I Meridiani, Mondadori, Trad. Maria Crepax.

venerdì 2 novembre 2012

Il gigante e la bambina


Durante la lavorazione di Au hasard de Balthazar di Robert Bresson, Jean-Luc Godard si presenta sul set per un'intervista al regista da pubblicarsi sui Cahiers du Cinema. Il regista all'epoca era sposato con  Anna Karina, che senza indugio mollò per la protagonista bressoniana, un'altra Anna (!).

« Cet homme qui m'aimait et que j'aimais... »
Un jour de juin 1966, j'écrivis une courte lettre àJean-Luc Godard adressée aux « Cahiers du cinéma », 5, rue Clément-Marot, Paris-8
e
. Je luidisais avoir beaucoup aimé son dernier film, «Masculin Féminin ». Je lui disais encore que j'aimais l'homme qui était derrière, que je l'aimais,lui. J'avais agi sans réaliser la portée de certainsmots, après une conversation avec GhislainCloquet, rencontré lors du tournage d'« Au hasardBalthazar » de Robert Bresson. [...]
Lentement Jean-Luc m'attira vers le lit
enretirant mes vêtements, les siens. Il me guidaitavec une infinie délicatesse, attentif au moindre demes tressaillements, anticipant un baiser, unecaresse. Ses mains sur ma peau me procuraientdes ondes de plaisir qui me bouleversaient.Comme me bouleversa sa façon de me fairel'amour. Je sus tout de suite y répondre : nos corpss'étaient immédiatement accordés, « trouvés »,comme il me le dira plus tard. Je réalisais que jevenais de faire vraiment l'amour pour la premièrefois de ma vie, que j'aimais ça. Un monde deplaisir s'ouvrait devant moi, grâce à cet homme quim'aimait et que j'aimais. La gratitude, l'envie de
l'embrasser, de mieux connaître son corps, de toutlui donner du mien, tout cela m'étourdissait. [ ...]
La rencontre entre ma mère et Jean-Luc
eut lieupeu après. Elle l'appelait « monsieur » et lui «madame ». Il était intimidé, elle s'efforçait d'êtrepolie. Comme nous nous apprêtions à sortir dîner,il l'invita à se joindre à nous. Elle refusa avecviolence. Je vis alors dans ses yeux le dégoût qu'illui inspirait. Un dégoût radical et définitif. Même luiserrer la main lui demanda un effort.
«Anne ne doit  pas rentrer au-delà de minuit »,
dit-elle sur le pasde la porte. Je me taisais, humiliée d'être traitéecomme une petite fille alors que je n'étais pluscensée l'être depuis longtemps. Jean-Luc prenaitles choses avec humour :
« C'est compliquéd'aimer une mineure ! »
Et dans l'espoir de medérider :
« Ta mère finira par s'y faire. »
Je passailes jours qui suivirent à tenter de réviser lagéographie. J'avais du mal à me concentrer, priseentre l'amour de Jean-Luc et l'hostilité de mamère. [ ...]

Une année studieuse, par Anne Wiazemsky, Gallimard 2011

giovedì 11 ottobre 2012

Il cinema francese come ...


Robert Bresson è il cinema francese come Dostoevskij il romanzo russo  e Mozart la musica tedesca. Jean-Luc Godard