La fotografia di Figueroa è infatti, nel suo complesso e coi
suoi limiti, sostanzialmente coerente all'assunto lirico e al temperamento elegiaco
di Fernandez. E' una fotografia dolce, languida a volte, che usa volentieri del
filtro, ricca di toni sfumati e sfrangiati, una fotografia edonistica che si
adegua naturalmente ad un ritmo rilassato di racconto e di montaggio. A nostro
avviso Figueroa è però un fenomeno più modesto di quanto generalmente si crede.
La sua fotografia deriva da quello standard fotografico che gli americani e
francesi hanno derivato, in moneta speciale, dall`espressionismo tedesco e che
tende ad effetti chiaroscurali in funzione psicologica. Su questo standard Figueroa
innesta poi, conformemente al suo temperamento romantico, ricerche cromatiche,
ricorrendo specialmente ad effetti di filtro e di flou; ma sostanzialmente la
sua fotografia non differisce molto, come impostazione, da quella d'un Gregg
Toland o, se vogliamo, d'uno Schüítan. E ne è la prova The Fugitive in cui il plasticismo di John Ford assimila con tutta
naturalezza la fotografia di Figueroa, proprio perché questa fotografia
costituisce la naturale conclusione di certe ricerche che Ford aveva condotto
con operatori americani. Fra Long Voyage Home,
fotografia di Gregg Toland, e The Fugitive,
fotografia di Figueroa, non c'è che una differenza di grado, non di direzione.
L'esperienza di Figueroa - che è caratterizzata da
un'assoluta mancanza di autosuperamento - si svolge quindi nell'ambito di una
maniera, sia pure vivificata da un'eccezionale bravura tecnica, ed è ben
lontana dall'originalità inventiva, per citare a caso, d'un Maté o d'un Aldo o,
con riferimento proprio al Messico, d'un Tissé. D'altronde è proprio la sua
bravura tecnica, non sempre superata in poesia, che finisce talvolta per pesare
come un artificio ('l'abuso del filtro, per esempio, o del panfocus).
Anche per Figueroa, del resto, può valere quanto si è detto
per Fernandez e cioè che il suo temperamento lirico gli concede scarse attitudini
di racconto; cosicché certi artifici e certe forzature (per esempio certi
sterili effetti di panfocus) derivano non tanto da acribia fotografica, quanto
dallo sforzo di adeguarsi ad esigenze narrative che gli rimangono estranee. La
fotografia di Figueroa ci sembra insomma perfettamente coerente alla regia di
Fernandez e tale da smentire certe insinuazioni della critica circa un preteso
influsso negativo, in senso calligrafico, di Figueroa su Fernandez. Al contrario,
ci sembra che le loro personalità siano perfettamente affini: ciò spiega il
loro affiatamento divenuto ormai proverbiale.
Del resto tutta l’opera di Fernandez appare, dentro i suoi
limiti e le sue incoerenze pregiudiziali, improntata ad una sostanziale
coerenza di tutti i suoi elementi.
Anche la recitazione è in linea. E' una recitazione,
improntata ad un naturalismo lirico, che raggiunge il suo acme in certi
atteggiamenti elementari, in espressioni distese di stati d'animo e che scade
invece nella retorica più vieta quando tenta schemi convulsi di azione e di
psicologia.
Recitazione estremamente discontinua, che passa dalla pura
bellezza dei primi piani di Maria Felix in Enamorada
alle insopportabili contorsioni di Dolores del Rio in Las abandonadas. A Fernandez va tuttavia riconosciuto il merito di
aver saputo plasmare nell'ambiente provinciale messicano, privo di una tradizione
e di un insegnamento recitativi, un nucleo di ottimi attori: Pedro Armendariz,
Maria Felix, Columba Dominguez, Maria Elena Marquez. Alcuni di essi si impongono
oggi anche all'estero: Pedro Arrnendariz lavora a Hollywood e Columba Dominguez
a Cinecittà.
Questi, a grandi linee, i motivi tipici del cinema di Emilio
Fernandez: esso ci appare come una singolare avventura sbocciata all'intersezione
di civiltà contrastanti e nutrita di esigenze diverse. C’è nella
sua opera una ricerca di cultura e di tecnica tesa ad un
esito di istinto e viceversa un fondo primitivo che cerca di chiarirsi e di
esprimersi in termini di cultura e di eccellenza tecnica. Da
quest’antinomia costitutiva della sua
personalità deriva la contaminazione che Fernandez compie fra i dati genuini
della sua ispirazione lirica e la metodica corrente del racconto
cinematografico.
Esperienza contrastata quindi, quella di Fernandez, che
sotto una apparente facilità di canto cela uno sforzo doloroso di
chiarificazione e di maturazione. Esperienza sincera, sofferta.
E' a questa sincerità soprattutto che si affidano gli
elementi di una conclusione critica su Fernandez. La sua opera nasce
dall'esigenza d'un clima assoluto, umano e geografico, e ci porge la
suggestione d'un paesaggio mitico, l’immagine d'una evasione di cui, già prima
di Fernandez, S. ,M. Eisenstein e André Breton avevano sentito il richiamo. A questo
richiamo ha risposto recentemente sia pure con scarsa sincerità John Ford in The Fugitive. Si accinge ora a
rispondervi anche Luis Bunuel.
Nel quadro odierno della produzione cinematografica mondiale
ciò che Fernandez ci ha dato finora rimane un'affermazione latente di poesia
che, per esplicarsi in pieno, attende, da una parte, una più matura coscienza
del proprio temperamento e, dall'altra, una condizione produttiva più propizia
ad un libero esercizio d'ispirazione.
Franco Venturini in
BIANCO E NERO ANNO XII – N. 4 - APRILE
1951
Nota Bibliografica
Per una bibliografia su Fernandez rimane ancora valida
quella indicata per il cinema messicano da Mario Verdone in appendice al suo
studio «Aspetti del cinema messicano» in «Bianco e Nero» aprile 1949. Ad essa è
solo da aggiungere, ch'io sappia, la recensione di Massimo Mida su La Perla («Bianco e Nero ››, giugno
1949) e la già citata recensione di Glauco Viazzi su Enamorada, («Bianco e Nero , settembre 1949) i cui argomenti sono
ripetuti anche in un altro scritto di Viazzi: «Il cinema nell'arte e nella vita
messicana» in «Ferrania» n. 7, 1949.
Tutti questi testi sono del genere da leggersi in treno.
L'unico di essi che dia, sia pure sommariamente, un apporto concreto di critica
è, al solito, quello di G. C. Castello («Infanzia precoce del cinema messicano»
in «Cinema» n. s. n. 2, 10 novembre 1948). Dal punto di vista informativo ë
interessante lo scritto di André Camp: « Apergus sur le cinéma mexicain ›› in
«La Revue du cinéma» n. 15, luglio 1948. Chi volesse poi documentarsi sul clima
culturale messicano in cui si è formato il cinema di Fernandez può consultare
utilmente, prendendo però le dovute precauzioni, le corrispondenze dal Messico
di André Bréton in «Minotaure», Parigi, annata 1939.
In apertura screenshot da The Fugitive, 1947 di John Ford