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martedì 27 giugno 2017

La poiesi filmica di Vasilij Makarovič pt. 2

6. E’ appunto questa disposizione che stacca nettamente i film. di Shukshin dal tipico prodotto medio della produzione sovietica. I suoi film spirano aria fresca, quanto gli altri sanno di ripetitivo. I suoi film rifuggono da ogni bugiardo manicheismo; e non danno una visione declamatoria ed encomiastica della realtà sovietica, ma una versione problematica e dubitativa, con la traccia di personaggi-emblema [le scanzonate millanterie da insicurezza di Paska Kolokolnikov in Zivét takoj paren'; le “stupide" insofferenze nostalgiche di Stepàn in Vaé syn i brat; il vecchio presidente del soviet di Strannye Ijudiin in crisi di identità; il pregiudicato recidivo che non riesce a riscattarsi in Kalina krasnaia]. La sua risoluzione di intellettuale di fronte alla realtà del suo paese é, per dirla con Moravia, per una funzione espressiva e non esornativa.
7 - Elementi costitutivi di questo Eriebnis divenuto materia di poesia sono, come abbiamo visto, i valori perenni della civiltà contadina; la prudenza diffidente contro certi valori che valori non sono e che pur inarcano la cultura urbana; I'inquieta nostalgia di un ubi consistam che indicativamente viene materializzato nella “solidità" della casa di campagna; il ricorso costante alla figura agglutinante del padre, come termine di riferimento e di ricapitolazione delle esperienze e della sapienza di vivere (una Vaterbindug tutta da esplorare ancora; credo, con fertilissimi risultati), il desiderio nel suo senso pregnante: attesa – dalle - stelle di un compimento di un assestamento di quel “caos familiare" che i suoi personaggi si ritrovan dentro (il vissuto, le idee, il dolore, le paure, i piaceri) per cui nulla é chiaro, nulla é definitivo, nulla é sicuro. E questo
desiderio di definizione di un contesto Shukshin proclama [ma nei suoi film lo suggerisce, timidamente, con un pudore che sembra assai prossimo all’incertezza] può avvenire soltanto in una sede, la coscienza: coscienza, coscienza e ancora una volta coscienza ».
Una coscienza che funziona con intermittenze e che ha dunque quasi bisogno dei “traumi” del vivere: a il problema della coscienza, della ricchezza morale e spirituale non solo degli individui, ma di tutta la società, é una cosa molto importante. Per questo, quando i nostri giovani dimenticano l’importanza di questo problema, è necessario intervenire, é necessario spiegare questi fenomeni » [C. Benedetti, int. cit., pp. 4 e 5). Da qui una sorta di mistica della purità [si pensi per esempio al sogno dell'amore giovanile del presidente del soviet in Strannye Ijudi] come ipotesi di una alterità che trascende le iniquità del vivere e che risiede inequivocamente nella campagna; da qui anche quel motivo costante [da Vas syn i brat a Kalina krasnaja] di una comprensione ‘evangelica’ per l’errante, pur nella risoluta affermazione che nella vita si paga tutto.
In conclusione i pérsonaggi di Shukshin sono, in un modo o nell'altro, dei devianti, dei disadattati, degli insofferenti, uomini controcorrente, uomini delIa contraddizione: la quale, secondo la logica asmatica del sistema, sta sotto il segno della sconfitta. Ma sul piano della dinamica della storia sta nei segno della vittoria.
8. ll personaggio-tipo di Shukshin ripete Shukshin stesso che si confessava, a quarant’anni, uomo -in- bilico: non fino in fondo uomo della città e non più uomo di campagna. Ma questa situazione ha i suoi vantaggi. Dal confronto, dal continuo andare é venire fra le due realtà, nascono spontaneamente molti pensieri non solo sulla città e sulla campagna, ma anche sulla Russia, nella sua totaIità » [Lev Ahninskij, cit., p. 8]. E Lev Kulidianov, nel suo rapporto "1975 al plenum dell’Unione dei cineasti, confermava il valore di questo personaggio sciusohiniano < uomo inquieto, assolutamente al di fuori degli stereotipi »,  incerto come pellegrino, come viaggiatore »,  caratterizzato dalla tensione d’una ricerca; la ricerca di risposte alle domande che la sua mente, il suo sguardo tormentoso avanzano senza posa".
9. Estremamente importante nella scrittura di Shukshin è la funzione della musica, delle canzoni soprattutto, che é rilevante in tutti i film (anzi, Kalina krasnaja é il titolo della canzone che Egor e
Liuba cantano nel loro incontro estremo). Questa funzione andrebbe attentamente studiata, seguendo l’ipotesi che i cori e la canzone popolare nella filmica di Shukshin siano commensurabili agli stasimi della tragedia eschilea e/o al mélos apoleluménon della tragedia euripidea: elemento concorrente alla vicenda dell'eroe, enfatizzazione patetica dei sentimenti del protagonista.
10. I più correnti termini di riferimento per Shukshin cineasta sono Dovizénko e Donskoj, registi contadini. Anche questa é un'ipotesi d’indagine da proseguire. Al primo Io apparenta la vocazione narrativa e la misura di lirircità ed eplicità della scrittura; al secondo il senso dell’atmosfera e la forza di persuasione. Resta comunque risolutiva, di questo primo approccio a Shukshin, i'impressione di un artista severo; e di una personalità profondamente sensibile e spalancata alla comprensione dei problemi, di tutti i problemi, non solo di quelli che ha scelto di approfondire. II suo ci appare un contributo importante alla interpretazione del mondo sovietico di oggi: e un indice cospicuo per comprendere le contraddizioni di una società ancora in mobilitazione alla ricerca di una identità più “umanamente” plausibile.
La sua misura di umanità é quella che più impressiona, ancor prima e più della sua misura di artista e di autore. Il rammarico per la sua scomparsa prematura si rinforza nella certezza di tutto quello che avrebbe ancora potuto dire e fare.
Si possono dunque ripetere le parole di Svevo in La coscienza di Zeno: Alla sua tomba, come a tutte quelle su cui piansi, il mio dolore fu dedicato anche a quella parte di me stesso che vi era sepolta .
 Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976


mercoledì 21 giugno 2017

La poiesi filmica di Vasilij Makarovič

Per un consuntivo interinale

Nessun bilancio esauriente sarà possibile sulla poiesi — narrativa, visiva e drammaturgica -- di Vasilij Makarovic Shukshin finché non avremo a disposizione -Peéki-iavoéki, la traduzione —auspicabilissima - della sua opera di romanziere e tutte le sue interpretazioni filmiche.
Sicché ora é possibile appena abbozzare un consuntivo provvisorio e sommario della sua esperienza d'au-tore; un consuntivo che andrà rimeditato e aggiornato man a mano che altre sezioni della sua attività ci saranno noti. E‘ questa la ragione per cui esso é stilato in forma di appunti.

1. Si può parlare a buona ragione di fenomeno Shukshin. Le testimonianze dall’Urss dicono di un notevole interesse intorno alla sua figora di autore. Tra l’altro, ha dalla sua un forte consenso che non sembra affatto frutto di un gregarismo istintivo e qualunquistico ma piuttosto di una convergenza espansiva sui valori, sui modelli culturali, sulla Weitanschauung proposta da Shukshin attraverso Ia narrativa e i film. La partecipazione alle sue esequie è stata imponente. I suoi film sono molto seguiti [Kalina krasnaia ha vinto il primo premio al settimo festival nazionale del film sovietico a Baku, rassegna globale della produzione di tutte le repubbliche: scelta assai indicativa]. I suoi racconti sono richiestissimi nelle librerie. I vecchi numeri di Novyj Mir e di Molodaja Gvardija sono ricercati presso i negozi di libri usati. Non s'é smorzata l'ondata di articoli e saggi sulla sua opera, su riviste e gazzette del mondo culturale. Shukshin é un uomo che ha inciso nel quadro della cultura sovietica contemporanea, oltre e contro le perplessità e titubanze ufficiali.

2. Nella vita ho fatto solo tre o quattro libretti e due film, Pecki-lavocki e Kalina krasnaja [Lev ’ Anninskij, -Vasilij Shukshin, Sojuz kinematograitov, SSSP, Bjuio propagandy sovetskojo kinoiskusstva,1976]. Shukshin è un perfezionista come tutti i lavoratori tenaci: è per il “lavorare e provare" di Romm. Ma il primum del suo impegno é la letteratura. “E’ lì che tutto comincia. Prima di tutto, in quanto scrittore, medito su un fenomeno qualunque. Soltanto in seguito, ed è la regola generale, interviene la visione cinematografica e allora comincio a lavorare come cineasta" [Natalia Rubetskaia, Vassilij Sciukscin, l’Ecran ,1974, dic., p. 7].

3. La narrativa dunque é per Shukshin la prima scelta espressiva. Attraverso di essa manifesta il suo appetito di realtà, di problemi, di circostanze, di personaggi. Attraverso di esso, torna ciclicamente su alcune idee forza, memoriali della sua concezione del mondo, fedele allo spirito georgico della terra russa. I suoi racconti sono altrettante inchieste condotte sul corpo vivo di quella umanità rurale che per la sua allogazione é stata la meno permeabile alle proposte di cambiamento rivoluzionario. Tutta la sua narrativa, pur cosi frantumata, compone un variegato affresco di un mondo in costruzione, di una realtà che si vien costituendo, per effetto di un cambiamento. Ed è un gran romanzo in ‘positivo’ perché tiene soprattutto conto dei canoni poetici di Belinskij. Moderno rapsodo, Shukshin ha scelto come forma narrativa tipica il racconto: la cui tipologia é perfettamente omologa -da sempre — al realismo, scelto come concezione di fondo.
La preferenza accordata a una narrativa di scansione sincronica in luogo di quella diacronica propria deI romanzo, significa attenzione all' hic et nunc, a un certo costume, a una certa realtà, a un certo ambiente e ai suoi problemi. Per cui prevalgono la situazione sulla vicenda e il protagonista suIl'evento storico. E i capitoletti della sua comédie humaine sono allogati in una precisa realtà geopolitica, quella della regione dell’Altaj nella Siberia meridionale, a sud di Novosibirsk, attraversata dal Katun immissario dell'Ob. La natura, il fiume, i campi, gIi alberi sono coprotagonisti della sua narrativa. .

4. – L’interpretazione scenica é una componente importante ma non decisiva della sua espressività.
La sua faccia severa, i tratti forti dei fisico richiamano la somatica tipica del siberiano. Zigomi puntuti, fronte schiusa, occhi stretti, acutamente ritirati sotto le arcate sopracciliari. Una professionalità sicura, ma anche una ridotta possibilità di variazioni interpretative. Ma siamo naturalmente molto lontani dalla monocordicitià.
Si distinguono di solito (Lev Alnninskij, Vasilij Shukshin, art.. cit.) quattro momenti distinti nella sua storia d'attore. Gli anni 1959-1964 sette film, piuttosto anonimi, in cui Vasilij Makarovic si sforza di tratteggiare i lineamenti di un tipo umano che definirà inseguito con la sua attività di autore; quasi un tempo di prove sperimentali.
Il secondo momento [1964-1967] segna una pausa nelle sue interpretazioni cinematografiche e corrisponde all'esordio in regia e a una intensificazione dell'impegno di narratore.
Il terzo momento comprende gli anni tra il 1967 e il 1971, nel corso dei quali Shukshin interpreta sei film, ma con un ingaggio nuovo e non casuale a costruire l’immagine di un personaggio ‘deviante’, per intenderci, alla Bogart: un uomo che ha sbagliato più per la stretta di eventi avversi, che per responsabilità personale; un personaggio sano nonostante; un personaggio che dietro modi bruschi e scontrosi e oltre repentine avventatezze conserva una radicale onestà, insufficiente pero a scamparlo dalla sventura.
L'ultimo tempo del suo ingaggio d'attore Shukshin Io confonde con il suo impegno di autore: diventa protagonista dei suoi due ultimi film con una caratterizzazione nel senso dell'amarezza e dell‘accoramento, che il male fisico drammatizza nella piega amara delle labbra, nella tensione dei tratti facciali, nell’aggrondarsi delle sopraciglia.
In genere il lavoro con gli altri registi non lo ha soddisfatto. La sua esperienza come direttore di attori lo ha portato a questa conclusione: “ci si deve fidare dell'attore, e mettersi nei suoi panni a condizione ch'egli pensi come te e abbia le tue stesse aspirazioni » [Natalia Rubetskaia, Vassili Shukshin, cit.', p. 7]. Tutto il suo itinerario interpretativo, dal giovane soldato Fédor del film di Khuciev, 1959, al Pétr Lopatkin, vecchio minatore e soldato nel film di Bondarciuk, 1974, cit., sembra una delle esposizioni del suo Erlebnis.
(continua)
 Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976


domenica 21 maggio 2017

Калина красная



 Viburno rosso

In uno dei suoi abbottonatissimi interventi Sergéj Geràsimov, gran cencertatore del cinema sovietico, esprimeva le perplessità ufficiali di fronte a questa estrema “insolenza"'di Shukshin che osava insinuare che nell'Unione sovietica possono anche non riuscire gIi sforzi tesi a ‘redimere’ un ladro recidivo: “Quale motivo c'è di collocare al centro di un film cosi ricco di talento il destino di un criminale, di un delinquente? Come ha quest’uomo il diritto di entrare nella coscienza e nel cuore degli spettatori, di conquistare la loro attenzione e attraverso di essa anche la loro simpatia? » [Nicole Zand, Le message ambigu de Vassili Choukchine, in Le monde, 2.5.1974].
E‘ destino (e remora) di ogni agiografia di squadernane modelli edificanti in tutto e per tutto politi, tirati a lucido da ogni imperfezione. La pia fraus può essere giustificata con motivazioni “edificatorie” nelle società strette e giovani, come un soprassalto di devozione. Ma i suoi modem sono implausibili fuori di essa. E anche dentro di essa, appena passa il memento delle emergenze parenetiche e quando il tempo abbia fatto giustizia delle amplificazioni acclamatorie.
L'implausibilità ha piedi d’argilla e contraddice I’estetico. E’ appena una forma edulcorata di menzogna. E la menzogna può anche esser necessaria in certi casi; ma se diventa regola finisce con lo smentire se stessa. Ecco che Ia mistificazione zdanoviana del realismo ritorna petulante nei dubbi ‘ortodossi’di Geràsimov, col quel tacito richiamo alla tendenziosità delI'arte, la quale dovrebbe essere coedificativa nella realizzazione piena della società socialista. Ma il deontologismo unidirezionale e assordato dell'estetica ufficiale viene esorcizzato da Shukshin anche in Kalina krasnaja, che é stato definito il suo film-testamento.
II precetto di Vissérion Grigierévic Belinskij, per il quale Ia funzione poetica sta non già neIl'esornare la realtà ma nel coglierla cosi com’é, resta uno dei capisaldi della poesia di Shukshin. E qui anzi si vena di un patetismo che chiameremmo ambiguo se si ignorasse che Shukshin respira, in questo film, la morte: ma come nascita al definitivo.
L'accorata malinconia non é qui fine a se stessa ma vestibolo per quell'appello alla coscienza individuale che é costante ossessione di Shukshin, indice di autentica umanità,in Kalina krasnaia la ripulsa ad un facile happy-end consolatorio va oltre il rifiuto dell'aggiustamento confortatorio e filisteo. Presentando il suo film, Vasilij Makàrovic ha detto espressamente di diffidare di ogni happy-end ‘da copione’.
Che é inevitabile - e non parliamo qui della domanda della platea - quando I'autore condolendosi con tutta l'anima per il suo eroe caduto in disgrazia, << cerca compassionevolmente di buttargli un salvagente ». La storia di Viburno rosso aveva effettivamente in sé l'insidia delle paternali moralizzati. Shukshin libera lo spettatore da questa impostura dandosi da fare per “distruggere il testo », traguardando a problemati che più ampie, raccontando cioè  “non del destino infelice di un recidivo, ma di un'anima, di come essa cerca il suo posto nella vita, si tormenta... »
Una tormentosa inquietudine é infatti il filo che lega tutti i protagonisti noti della narrativa iconica di Shukshin. Dal Paska scapato e vagabondo che in Zivét takoj paren’ cerca la sua identità, allo Stepan nostalgico e naif di Vas syn i brat, dall'affranto e smarrito Matvéej Ivénovic di Strannye Iiudj aIl'Egor Prokudin di Kalina krasnaia, che cerca I’ ubi consistam dopo i < disaccordi con la coscienza ».,corre il filo sottile di questo inquieto scontento, della pena di uno straniamento che sbocca nella nostalgia di una sede serena - la coscienza? —, di un ordine interiore con un suo ancoraggio etico: qualcosa che I’organizzazione sociale non garantisce, e che in Viburno rosso é indicato esplicitamente nella capacità di amare {la paziente indulgenza di Ljuba Bajkalova].
Una indicazione, questa, tenera e accorata, come il saldo sentimento che già nella- vita legava Shukshin all'attrice che nel film interpreta Ljuba. Giò che scioglie i grumi dell’anima di Egor -  icasticamente suggeriti dalle sequenze che mostrano Egor far esplodere il suo vitalismo nella ricerca di divertimenti, di distrazioni. di donne; e poi nello stesso bagno nella sauna, che indicizza il bisogno di una corroborante purificazione fisica, di una liberazione dalle tossine di una vita “in disaccordo con la coscienza” – è l’incontro, prima diffidente e poi ricco di abbandoni, con la donna, che già conosce gli smarrimenti della solitudine.
E’ lei che ridesta in Egor < qualcosa di profondo, di dimenticato »: é la memoria dell'infanzia trascorsa sulla “buona terra", e di tutto quel che di buono e di sano vi era stato allora instillato per sempre: e che l'esperienza della malavita aveva solo ottenebrato.
Questo é il tema del film, anzi e il nodo di tutti i problemi di Egor: “Com'é possibile — si chiede Shukshin — che in una vita vissuta ad alta velocità, segnata dalla potenza delle macchine, dilatata da straordinarie scoperte, assillata da mille superproblemi, com'è possibile trovare uno spazio per l'anima? ». Com’é, insomma, possibile trovare — per dirla con Saba – “la bontà non morta / la dolcezza di un caldo angolo »?
Egor è l'ultima campionatura della commedia umana di Shukshin, nella quale una gente cerca se stessa dopo un ennesimo “disaccordo con la coscienza”. Qui Shukshin segue questa ricerca con partecipazione assoluta, e non solo perché, come in questo caso, è lui stesso l’interprete di questa esplorazione. Narratore sincronico, Shukshin ha scelto ancora la misura breve del racconto per approfondire i motivi che gli stanno a cuore, quelli che il suo Erlebnis fa mulinare dentro, e spasimano di uscire, di trovare comunicazione.
Neanche qui Shukshin é eziologico. Neanche qui dice il come e il perché e il quando del  “disaccordo con la coscienza”. Ne registra la effettualità, e ne studia I rimedi. Pone ancora una volta in dubbio l’efficacia in quantum delle strutture sociali e si appella a un tipo di moralità individuale, scontrosa anche — e qui I'accusa di egotismo può appigliarsi ben facile —, che é sempre invariabilmente tesa dal desiderio/dolore di un ritorno -è questo il senso pregnante della nostalgia - verso valori conosciuti, indettati un tempo e smarriti nel corso di un peregrinare deviante.
Ma Shukshin non mette a carico della società — che é la società in cui crede - questo sbandamento,anzi. Afferma e riafferma con forza estrema l'obbligo della responsabilità personale che è appunto, un frammento necessario della corresponsabilità universale. Vasilij Makerovic é stato esplicito, nel presentare il film, circa la responsabilità del|'uomo di fronte alla terra che l'ha allevato. “Per tutto quanto succede oggi sulla terra dovremmo rispondere, noi tutti che viviamo. Per il bene e per il male. Per le menzogne, per la mancanza di coscienza, per il nostro viver da parassiti, per il conformismo. per la viltà e il tradimento, per tutto bisognerà pagare. Pagare fino alI'estremo. Anche di questo parla Viburno rosso“.
L'insidia del mélo [nell'Ottocento, da noi, se ne sarebbe fatta un'opera lirica] e l'inciampo della declamazione è normale per chi si ponga a trattar di questi temi con tutta la forza della propria convinzione che già chiamavamo esiodea. Shukshin evita queste  trappole anche qui con un dettato scarno ed aspro — la tensione del volto di Shukshin interprete è l’architrave del film — che non perde però in freschezza e perspicuità nelle notazioni psicologiche e nelle modulazioni coreutiche tipiche dei suoi film. Le quali, qui, toccano il diapason, per esempio nella quieta discussione che vede Egor, Ljuba e il vecchio padre di lei nell'isba, accanto alla solenne stufa in maiolica, ad esaminare pacatamente, puntigliosamente, le "destinazioni" possibili per Egor.
Li, intendi, l’anima collettiva della gente dei campi soccorre con sapienziale accoramento allo smarrimento di un uomo che cerca il suo destino. E quest'anima collettiva non gli oppone convenzioni o divieti: ma con fermezza e pazienza gli presenta, come misura di sanità autentica, il proprio modello esistenziale.
Accettare la iustissima telus, per chi abbia “provato" la città, non é un semplice subire, non é un accomodamento o un ripiego: è un'azione attiva, un trionfo positivo. E lo é tanto che la malavita non
può graziare questo ‘tradimento’. Ed e nel momento in cui Egor paga “fino all’estremo” il fio della sua mancata identificazione coi “Iati negativi del progresso" ch'egli si riprende integralmente la sua dimensione d'uomo [Cfr. C. Benedetti, E’ morto Vassili Shukshin in “Unità, 4.10.1974] “Si, é verbo - diceva Shukshin -,è bello parlare di progresso, ma il progresso ha anche un Iato negativo. -Ed è appunto questo quello che io voglio far capire con miei racconti e con i miei film: la gente di campagna non si deve scoraggiare dinanzi all’avvento della “tecnica”, deve far ricorso, proprio per non affogare, alla propria coscienza, alla forza del cuore; deve risolvere i problemi legati al progresso con la coscienza. Ma, purtroppo, io.,da contadino come sono, vedo che la gente comincia a credere in certi valori che non sono valori. E questo é tragico. Ecco, io vorrei contribuire, a far si che la gente di campagna resti vera e viva cosi come lo é il personaggio di Viburno rosso, il quale torna ad essere uomo proprio mentre cade colpito dalla vendetta della banda che aveva rinnegato ».

SulIa scena compare un uomo. Ha larghe spalle e il viso -arso dal vento.
Dice: "0ra il coro canterà una canzone che ci farà pensare: ‘II suono della sera”!
Dalle quinte cominciano ad uscire sul palcoscenico i componenti del coro. Si dividono e si raggruppano in due sezioni, una dietro l'altra, a formare un piccolo e un grande gruppo. Sono ben lontani dall'avere l’aspetto di" coristi ...»
Così, in medo un pò singolare e insolito, comincia il racconto di Shukshin “Il Viburno rosso “.
II protagonista é Egor Prokudin, ladro recidivo. E’ uno dei coristi. II tempo della sua reclusione é scontato, ora é libero. Così, sulla porta di un campo di rieducazione, comincia la conoscenza di questo malfattore, un uomo straordinariamente interessante, a suo modo eccezionale.
A seguirlo subito dopo la sua liberazione. Egor Prokudin non sembra voglia farla finita con la sua professione . Dall'altro canto, ora che è  fuori, egli non può concedersi il lusso di filosofare, “essere o non essere", “rubare  non rubare”. Bisogna risolvere problemi più semplici e concreti:"dove trovare un
tetto, dove sistemarsi almeno per i primi tempi.
I vecchi amici di Egor non Io possono ospitare; loro stessi sono braccati dalla polizia.
Ma Egor non si perde d’animo. In tasca ha ancora un indirizzo. Prima, quand'era recluso, ha tenuto corrispondenza con una giovane donna separata dal marito, Ljuba.Lei abita in un villaggio, e anche se non ha -mai vista Egor, l’ha invitato a casa sua. “Vieni da me, al nostro villaggio, gli scriveva Ljuba; Egor ha
deciso di andarci. Non ha piani né programmi a lunga scadenza. Pensa di trovarvi un temporaneo rifugio e basta. -Ma le cose vanno in un altro modo, serio e inaspettato. L’incontro con Ljuba, l’incontro con la gente del villaggio (lui stesso é nato in campagna) muta la sua vita e i suo-i piani. Egor decide di farla finita per sempre con la sua vecchia professione e di cominciare una vita nuova, come si dice. lavora nel koIchoz come trattorista. Due mesi dopo, ai margini di un bosco di betulle, vicino al campo che ha appena finito
di arare Egor viene colpito a morte da una pallottola. l suoi ex amici non gli hanno perdonato iI tradimento.


domenica 7 maggio 2017

Странные люди - Strana gente

La novellistica fusa e fluente dei primi due film si scompone, nel terzo, in capitoletti autonomi tenuti assieme da un piú intenso rap- porto di appartenenza dei protagonisti alla natura e da una loro qualificazione inequivoca al ruolo di stravaganti E’,anzi, forte la tentazione di parlare di Strannye ljudi come di un tentativo di confermare l'apoftemma  prustiano per il quale siam tutti costretti, proprio per render sopportabile la realtà, a tener desta in noi qualche piccola follia.

 Il film è un trittico esplicito. Il primo episodio è Fratello mio. Paška abita e lavora in un villaggio. Un giorno se ne parte per la città, Yalta, per far visita al fratello. Si ritrovano dopo,molto tempo. Ciascuno racconta cosa, intanto, gli è capitato. Il maggiore ha divorziato, e pensa di risposarsi. Ne parla a Paška, presentandogli le « varianti» tra cui può scegliere.
Si recano insieme in casa d'una di queste possibili fidanzate. Paška parla con entusiasmo alla bambina, che è la figlia di questa vedova, della campagna. E Ie racconta la fiaba dei fiori e del cuculo.
Paška, quindi, visita la città. Ma dopo un sol giorno decide di tornare a casa.
Per non far sfigurare il fratello, racconta di non esserci mai stato e di aver perso i solidi. Deve giustificarsi cosí davanti alla fidanzata che glieli  aveva procurati. Si conferma cosi nel ruolo di « svitato ››.
Secondo episodio: Colpo fatale. Bronka, un vecchio contadino, viene ammonito per il suo comportamento bizzarro dal presidente del soviet. Vengono intanto da lui, dalla città, dei cacciatori per invitarlo ad una battuta. Dopo un battibecco con la moglie che gli chiede dei soldi, Bronka si avvia. Durante una sosta, Bronka chiede ai suoi giovani compagni se si ricordino degli attentati a Hitler. Racconta poi di essere stato lui stesso l’autore di uno degli attentati. Era il 22 giugno 1943: alla sua audacia e ad una Browning con i proiettili avvelenati sarebbe toccato di vendicare la patria e di liberare il mondo da Hitler. Bronka rievoca come gli capito di fallire.
Il terzo episodio, Meditazioni, è  dedicato a Matvèj lvànovic, responsabile amministrativo del suo villaggio. L'episodio descrive le riflessioni e i tormentati sogni di questo vecchio che ha dedicato tutta la vita al lavoro e che non riesce a seguire i ritmi del cambiamento. Dice degli scontri e delle incomprensioni con la gente che lo circonda e soprattutto con la nu-ova generazione: il giovane appassionato di musica che gli impedisce iI sonno suonando la fisarmonica la notte e che gli ricorda con le sue canzoni la morte del fratello minore: il giovane scultore che dedica tutto il suo tempo a intagliare statue di legno; la stessa sua figlia, che non riesce ad entrare all'università e che però rifiuta un lavoro  quaIsiasi . La figlia lo obbliga anzi ad un incontro-scontro con la moglie che gli confessa finalmente di averlo sposato non già per dovere -- com'egli aveva creduto ma per amore. Matvèj difende le sue convinzioni anche attraverso un sogno. Epperò alla fine, nel corso di un ultimo incontro con lo scultore, ne approva le scelte, confermando senso e valore al «nuovo ».

La bizzarrie, in un qualsiasi corpo sociale, può diventare una sorta di necessario anti-corpo contro le monotonie e le passività grame nel vivere. Salutare presenza, quella degli strambi, ci dice šukšin. E' di fronte alle loro “ammonizioni' che vengono meno le sicurezze dei savi, cioè le baldanze abituali di tutti. Quel loro mettere 'in dubbio le convenzioni della vita sociale ed affettiva, quel loro scrollare dalle fondamenta le abitudini e i sistemi di classificazione sussunti col latte “materno” sono una sfida a quella “logica' che ci assicura le quietudini e le sazietà d'ogni giorno.
Gli “strambi” nei film di šukšin stanno naturalmente in campagna. La loro bizzarria tè il correlativo dell'instintività campagnola di front alle quadrate logiche che si nutrono in città e che ne costituiscono il malioso fascino. La trilogia che qui ne esce è di una freschezza sbarazzina e melanconica insieme, che fa crescere un film teso, e polito, modulato con accortezza sui registri di una rustica -e il termi-ne è tutt'altro che restrittivo - comédie humaine.
La bizzarria ha le sue varianti, naturalmente. E šukšin ne illustra tre.
La prima è la variante patetica. La novelletta del giovane Paška che se ne viene in città a trovare il fratello che non vede da tempo e che trova tanto cambiato da non reggere l'urto di quella diversità - e a quest'urto un altro se ne aggiunge, quello di una città austera e incomprensibile -  è l'ennesima va-riazione del motivo, caro a šukšin, della inconciliabilità dei due mondi, ovvero della confusione che la città mette in chi l'avvicina con devota confidenza in lei.
Paška denuncia una delle situazioni dell'Erlebnis di šulkšin quando dirige il film: « Non sono riuscito a capire bene -cosí si confessava con Benedetti [int. cit.] che cosa deve trovare un uomo di campagna nella sua vita nuova. Voglio, questo è certo, che riesca a trovare qualcosa di vero, di non artificiale di solido. Qualcosa di campagnolo ».
Paška non riesce a trovar quel "qualcosa di noto" che egli viene incosciamente cercando in città. Il suo vagabondare per le strade, l’inattesa distonia con il fratello lo mettono in iscacco, lo risolvono ad accettare la sua resa, senza ammetterla di fronte agli altri.- La menzogna con la quale si pr-esenta ai suoi e alla fidanzata è appunto un modo diverso di dire la verità, di riconoscere la propria erranza e di rientrare nel proprio personaggio. Se viene creduto è anche perché quel suo mentire è necessario agli altri, perché gli sia restituito il suo ruolo di specchio necessario; a se stesso per chiudere la parentesi dalla sua ricercata esenzione dalla funzione che è sua: riscontro della “normalità".
Un'altra variante della bizzarria dà vita al secondo capitoletto del film di šukšin. [Ed le un delizioso entr'acte di una specie di rustico teatro dell'assurdo. L'affabulazione di Bronka e del suo immaginario attentato a Hitler è uno straordinario “crescendo” musicale di invasamenti, di commozioni, di esaltazioni, di sbalordimenti, di sgomenti, talmente ben modulati da rendere assolutamente credibile l'assolo del vecchio contadino dinanzi agli sbalorditi compagni; ospiti venuti dalla città. La loro confusione è  mediata, metaforicamente, dallo spento ruminare delle vacche che ficcan gli occhi nell’impossibile occhio della camera, quasi a dire il potere di suggestione che docilmente viene recepito attraverso le meccaniche dei mass-media. Bronka conosce la via di altre suggestioni. È vero. Ma non a caso esplode con il suo assolo dopo che ha litigato con la moglie capziosa, che lo molesta con una questione rasoterra, i soldi per tirare la giornata.
Di fronte alle esazioni del quotidiano Bronka ha bisogno di un colpo d'ala. Di quel suo solito colpo d'ala che lo tragga fuori come una droga che-assicura immantinente un trip nel mare dell'immaginario ove dolce e il naufragio  da una realtà meschina e grama e che trasfiguri la sua realtà di emarginato, ma rispettato e invocato, nell'aura di un epos eroico a sua misura, in fondo l'eroismo non è forse solo uno dei tanti modi di rivelarsi goffi e bizzarri? E allora?
Un terzo momento della bizzarria può essere la scontrosità. L'irritabile stanchezza di Matvij lvànovic è il frutto di una sollecitudine spesa senza misura per gli altri, giorno per giorno, in una responsabilità che logora. Se oggi ha in uggia il presente è perché è tutto preso dalla memoria del futuro. II futuro apre enormi spazi di invenzione sulle monotonie che il presente misura con pedante pigrizia. La morte diventa un pensiero dominante e la curiosità dopo è cosi viva che a Matvèj lvanovic riesce facile di inventarsi un fantastico funerale. E con la morte la memoria dell’amore che torna, altro termine della bilancia, attraverso la candida figura del'l'amore giovanile che sguscia ed erompe attraverso la scorza delle incomprensioni presenti.
E quando il vecchio avverte che l'amore -- quello che rammemora, perduto, e quello, solo ora rivelato, della moglie - è il vero futuro, quello che è entrato in lui per trasformarsi in dinamica di dedicazione, molto prima di essere "accaduto", allora solamente rientra dal suo straniamento e accetta il presente "mutuato" attraverso il sofferto confronto con lo scultore nelle cui mani il legno già vivo rivive per una seconda creazione, non indegna della prima.
La vita è una tenace recidiva. E Matvèj lvanovíc quando ancora per una volta riconosce nella remissività degli altri, a lui d'intorno, l'ostinazione di questa legge che ha I'età dei suoi anni.

  
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

lunedì 3 aprile 2017

La letteratura della terra e Vasilij Šukšin - pt. 3

Dal punto di vista della militanza politica la posizione di šukšin era tuttavia ben diversa. Era iscritto al partito - fu anche segretario di un Komsomol regionale -e lavorava nell'ambito della produzione cinematografica di stato. Eppure lo qualificavano « non allineato ›› quella sua religione della campagna, quella sua sorniona diffidenza verso « certi valori che valori non sono ›› e che vengono mediati da un sistema di segni tutto urbano e tecnologico, in un linguaggio « neutro, senza sfumature, quasi da gazza ladra, da uccello che cinguetta velocemente ›› (C. Benedetti, intervista cit.`],-quella sua ferma proclamazione dei diritti/doveri della coscienza individuale, quel suo incessante invito alla prudenza per non essere travolti dal filisteismo indettato dalla cultura urbana' (C. Benedetti, int. cit.): « Alcuni miei lettori pensano che io contrappongo la città alla campagna sostenendo che in campagna va tutto bene e che la vita è bella. In città, invece va tutto male. Questo giudizio è sbagliato. Ma devo dire con tutta sincerità che io mi sento molto piú agio tra le cose che conosco bene. Ecco, forse ci vuole una nuova saggezza per capire anche la città. Io infatti sento la necessità di salire un altro gradino per apprendere anche il materiale cittadino. E qui bisogna incominciare a fare qualche distinguo. Bisogna cioè comprendere che la città non è soltanto una forza nemica. Nella città, infatti, abita molta gente, è nella città spesso che si scrivono libri interessanti, si fanno film. «Nella città vi sono esempi di arte. Ciò vuol dire che anche la città può essere la base per dare vita a tutte queste cose. « Forse, per me, questo processo di comprensione «è troppo lungo. Forse sono troppo prudente per comprendere queste cose. Ma nello stesso tempo credo fortemente che anche i protagonisti dei miei racconti nelle stesse situazioni sarebbero prudenti. Bisogna essere prudenti in varie occasioni: per scegliere un libro giusto, per trovare la persona giusta, per non sbagliare in città, per non pensare che l'uomo che ha fatto un paio di istituti è l'uomo piú saggio del mondo. E' necessario, quindi, cercare in modo profondo, proprio cosí come fanno i contadini, alla contadina. Ebbene,se si resta all'interno di questa concezione, la città non sarà piú un guaio. Io ritengo che lasciando la radice in campagna si lascia anche la radice nell'anima. Al contadino cioè deve restare dentro qualcosa perché non divenga, in città, un filisteo. Ma non sempre avviene cosi ». ln una parola, è stata la sua 'alterità' rispetto alla cultura ufficiale che lo ha reso inevitabilmente non già sospetto ma certamente «<atipico ››: un tollerato insomma nel ben atticciato conformismo delle istituzioni.
Resta un mistero, per esempio -potrebbe essere solo un caso tecnico; e lo si può anche pensare -perché mai non sia stato inviato a Venezia, con gli altri film di šukšin, Peãki-Iavoški (l'espressione che letteralmente vale 'stufe-panchine' nel sottocodice linguistico della regione dell'Altaj vale come vera e propria proposizione esclamativa ellittica enfatizzata dall'allitterazione; e denota stretta amicizia; ed è rapportabile, in qualche modo, all'espressione veneta cul e camisa] con ogni probabilità la piú tipica delle sue opere.
Si è ipotizzato che il "colore locale" del film sia apparso ai funzionari ragione sufficiente per ritenerlo incapace di destar l'interesse.
Dimenticando il principio luikacsiano della "particolarità del rispecchiamento" che assai probabilmente - a quel che si dice – trova in questo film una prova esemplare.
Ma è soprattutto il contraddittorio ironico e graffiante, sempre indiretto, di šukšin nei confronti della burocrazia e delle sue sciocche onnipotenze; soprattutto la polemica garbata ma ferma contro gli arrivisti e i conformisti 'scaltri', che san trar partito da ogni situazione e che in ogni caso inventano il modo di adattarsi alle circostanze - šuikšin nei racconti li tratta da lemuri, non da uomini - e i monitori insistenti contro le tentazioni borghesi del proletariato urbano a porlo in prossimità delle tensioni di Zòšcenko.
E poi, anche, la lingua. La struttura della sua narrativa, sia verbale che iconica, è una struttura, dicevamo, paratattica: è una sequela di monologhi - resi visivamente attraverso il ricorso ai campi lunghi, alle carrellate, alle panoramiche “interiettive" -- e di dialoghi nei quali sprizzano inequivoci il mondo spirituale di šukšin, il suo Erlebnis e le destinazioni del suo discorso. Che non scivola mai nel moralismo ma si regge invece su un sostanziale sforzo di comprensione della gente, delle situazioni, della storia.
E' per queste tensioni, per queste intonazioni e per l'importanza che šukšin dà al linguaggio dei suoi personaggi  - sembra che Vasilìj Makàrovic segua alla lettera il parere di Ralph Emerson per il quale il linguaggio è "poesia fossile"; o meglio si può dire ch'egli enfatizza, per usare un linguaggio sossuriano, la parole rispetto alla Iangue; parole intesa come primum di ogni fenomeno evolutivo, progressivo della comunicazione - che non ci sembra improponibile, dunque, l’accostamento del nostro autore a Zòšceniko.
Quel romantico sentimentalista che fu Zukòvskij sembra abbia lasciato un motto, che si può rammentare a proposito di šukšin: quei che si scrive con fatica, si legge con facilità. La lettura di šukšin romanziere verbale e/o iconico è diretta e agevole. E' diretta perché sul piano del'espressione la denotazione - quella
che si ricava dal codice lessicale in funzione _-è nettamente prevalente sulla connotazione,la quale invece rinforza il proprio senso in ordine al contesto in cui si pone. šukšin lo si legge senza ambiguità, nettamente, come il fondo d'un fiume attraverso la sua acqua chiara.
l significati aggiunti non mancano, ma non sono tracimanti. Emergono dalla totalità del discorso espressivo e si propongono come termine ad quem del messaggio poetico. La metafora vi è bandita, la metonimia accettata: quando serva a indicizzare il mondo ideale dell'autore.
Eppure questa facilità, questa immediatezza di comunicazione è frutto d'una fatica appassionata, di un provare e riprovare instancabile: il magistero di Romm, in quest'ordine, è stato rispettato fino all'ultima energia.
La fatica nutre la saggezza. NihiI sine magno vita Iaborededit mortalibus, sentenziava Orazio. E chi meglio e piú della gente dei campi conosce la pena e la verità di questa legge? E una generosa saggezza, anzi - dice šukš in (C. Benedetti, intervista cit.) - una saggezza «superiore ›› è quella che deve cavar fuori un autore
(cosí come fa un padre che deve farla valere in faccia a quella dei coetanei del suo figliolo] per far opera che resta. E questo appunto è, per šukšin, il destino e il compito dell'arte: epifania, appunto, di bontà e di sapienza.

Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

giovedì 30 marzo 2017

La letteratura della terra e Vasilij Šukšin - pt. 2

Neanche la poesia ha smesso in questo secolo la lode della campagna e della fedeltà alla terra. Pensiamo alla persistenza delle qualità contadine nella poesia di uno Esenin - la toskà, nostalgia malinconica del passato e del villaggio perduto; la religiosità; I'umanitarismo e il lirismo della sua poesia procedono dalla matrice contadina - e prima ancora di un Kljùev, che, tradizionalista per tensioni (anche religiose) e cultura ma novatore per accenti (assorbí parecchio dell'ornato simbolista), spasimò nell'antagonismo campagna-città cercando di comporlo in una religiosità totalizzante che pretendeva coinvolgere anche Lenin e la rivoluzione: ottenendo il ripudio "ufficiale" che si può immaginare.
Ma è certo difficilmente numerabile la schiera dei minori che di georgicità fecero professione trovando però raramente la composizione del loro temperamento culturale con le esigenze nuove di una mediazione politica dell'arte. Pensiamo a Pëtr Vasìl'evic Onèšin, a Sergéj Klyökòv, ad Aleksandr širjàevec, poeti schietti, ma troppo romanticamente innamorati della terra per avvertire le urgenze dei tempi nuovi e, in qualche modo, adattarvisi.
Tra i prosatori - torniamo ad essi - che accettarono la rivoluzione pur senza militarvi e che si proposero di coadiuvare con la propria attività il proletariato a consolidare il suo potere, meritando cosi l'ambigua e non sempre contestata qualifica di “compagni di strada" non si può dimenticare Lìdija Nikolàevna Sejfùllina, che con i suoi racconti e alcuni dei suoi romanzi [« Humus ››, « Virinèja ›› e « Sulla propria terra ») acclamò con temperata (e femminilmente trepida) rettorica alla terra e alla sua gente emancipata dalla rivoluzione.
E nell'ambito della grande fortuna che dopo i primi anni trenta toccò al romanzo storico, val la pena rammentare autori come Viašeslàv Jàkovlevic šiškòv e Ol'ga Dmitrievna Forš. Entrambi, pur nel novero di altre loro rivisitazioni del passato, tornarono anch'essi al frequentato motivo della rivoluzione contadina e a Pugaëëv, dichiaratamente assurto ad antesignano della volontà di liberazione delle classi subalterne dal proprio secolare servaggio ›[l'Emeljàn  Pugašëv di šiškòv fu pubblicato nel '44, il Radiššev della Forš nel `39].
Ma intanto il romanzo sovietico di "fiction" stava procedendo regolarmente sui binari parenetici di confermazione della rivoluzione e dei suoi obiettivi, prima che venisse istituzionalizzato il “ realismo socialista" come canone estetico-politico, nel primo Congresso degli scrittori del 1934. Indice dell'interesse con cui gli scrittori di estrazione contadina [o attenti comunque a quella realtà] seguirono le reazioni del loro ambiente alle novità della rivoluzione e ai problemi che la costruzione di quel tipo di socialismo poneva, sono per esempio l'emblematico « Cemento ›› di «Fëdor VasìI'evìc Gladkòv (bisogna cementare se stessi e la rivoluzione, occorre scompaginare insieme i mattoni dello stato dei contadini e degli operai), «Bruski ›› di Fëdorlvànovic Panfërov, il « Capàev » di Dmitrij Andréevic Fúrmanov (lodatissimo romanzo per aver trasfigurato quel rappresentante della classe contadina lavoratrice in eroe tipo della sua classe) e i racconti di vita contadina di Aleiksàndr Sergéevic Nevèrov.
Non occorrerà poi spendere troppe parole per rammentare lo spazio e il rilievo che occupano in « Il placido Don ›› e in ›« Podnjataja celina ›› [t.ital.: « l dissodatori ››) di ›I\Mlichaìl Aleksàndrovic šolochov al tema del trionfo della collettivizzazione della terra oltre e contro le resistenze e la tragedia ch'essa comportò.
Maggior considerazione per l'uomo biologico che sopravvive oltre le “quadratura” dell'uomo di classe spicca invece esplicitamente nei vivaci e coloriti racconti di vita contadina - soprattutto nella raccolta « Sulla terra - firmati da Vladìmir  Matvéevic  Bachmètev, "scrittore proletario" che converge sulla campagna. E intanto dalla campagna vengono direttamente a testimoniare aspirazioni, resistenze e dubbi prima e dopo il Nep e la collettivizzazione i romanzi di Pëtrilvànovic Zamòjskij, i racconti e il romanzo «« Il quinto amore ›› di Michail Jàikovlevic Karpov, le novelle di Jàkov Evdokimic Koròbov (esemplare diorama della difficoltà che incontrarono i primi rapporti tra la gente delle campagne e il proletariato operaio] e i racconti di Rodiòn Michàjlovic Akùl'šin.
Anche i territori della poesia intanto eran percorsi dalla consegna proclamata nel congresso degli scrittori del '42 con i versi « non si canta soltanto, si scolpisce, si fucina, si costruisce ». A frotte i poeti si adattarono, piú o meno di buon grado, a riordinare la propria « domestica azienda poetica ››, con risultati esteticamente piú o meno esaltanti. Non mancò chi riuscí a mantenersi entro il partijnost, l'ordinazione di partito, senza venir meno alla propria vocazione di devozione alla campagna e alla natura come - siamo ormai nel secondo dopoguerra -Nikolàj Leopòl'dòvic Braun con « Le pianure della mia patria » e con “La terra in fiore”  o come il piú raffinatamente metaforico Pàvel 'Nikolàevic šubin.
Nel quadro poi del drastico giro di vite con il quale il comitato centrale del Pc intese, nell'agosto del'46, stroncare le tendenze “non sane" il “cosmopolitismo" e “formalismo”, correlativi estetici dell'imputazione di deviazione] che in letteratura disturbavano « l'adempimento dei grandi compiti posti all'arte dalla nuova tappa dello sviluppo storico ››, riprese forza la vena 'minore' - se rapportata al 'grosso' tema della ripresa industriale della riedificazione dell'agricoltura e della ripresa della vita dei kolchozy. Romanzi e racconti tornarono alla campagna, al suo nuovo volto storico, con stacco piú diligente che ispirato e con risultati piú documentari che artisticamente commendevoli, quando non addirittura schematici: basterà fare i nomi di Semën Pëtrovic Babaèvskij, di Juri Grigòr'vic Làptev, di Galina Evgèn'evna Niikolàeva.
Il disgelo e le sue smorzate liberalità, l`atmosfera nuova quanto instabile che si stabili anche in letteratura dopo il rapporto Kruscëv al XX congresso del Pc sono eventi noti e recenti per esigere campionature piú esaustive.
Per quel che si sa, gli anni sessanta e settanta vedono in letteratura un fenomeno di decentramento “tematico” analogo a quello, appena intravisto però, che si nota in cinematografia con il decentramento produttivo nelle repubbliche periferiche e con il tentativo di recupero delle singolarità etniche e culturali delle diverse repubbliche sovietiche. Anche in letteratura sembra avvertirsi dunque un fenomeno parallelo di riconoscimento dello Hinterland: quello cosmico per cui gli scrittori si dedicano alla scoperta o riscoperta del mare o dello spazio (basterà ricordare i padri della fantascienza Adàmov, Beljàev, Efrèmov e Kazàncev) e quello geografico che porta alla rivelazione dell'amor di terra lontana, la Siberia (Anatòliij Pàvlovic Zlòbin, Leonid  Ivànovic lvànov,per esempio), la regione dell'oltre Baikal (Boris Aleksàindrovic Kostjukòvskij, ll'jàMichàilovic Lavròv) e quella dell'Altaj'(Sergéj Ivànovic Zalšlginlç e il piú anziano e autorevole Afanàsij Lazàrevic Koptèlov, accreditato dalla critica sovietica d'esser stato il primo, già a metà degli anni trenta, con il romanzo « ll grande campo dei nomadi ››, ad aver celebrato I'importanza della rivoluzione socialista nella vita delle piccole comunità. .Sono naturalmente, queste, terre periferiche rispetto al « meridiano fondamentale ›› che è Mosca; non lo sono per questi autori che vi son nati e che le conoscono come conoscono il terreno su cui hanno edificato la propria casa. Si confessa šukšin (c. -Benedetti, int. cit.): «Su questi temi ero autonomo, audace, attivo. Una volta scelto il campo ho deciso di coltivarlo; per fare altre cose, bisognerebbe viver tre volte per raccontar tutto ».
E in questo comparto convenzionale e in questa dimensione della letteratura russo-sovietica contemporanea sembra potersi collocare, a buon diritto, Vasilij Makàrovic šukšin.
C`è un altro autore contemporaneo cui šukšin viene talora apparentato ed è difficile dire con quanta attendibilità, almeno fino a quando, di šukšin, non si conoscerà l'opera omnia. E' Michàil Michàjlovic Zòššenrko. Morto sessantatreenne nel '58, Zòšöenko è il piú brioso campione di quell'umorismo satirico che «è un tarlo inammissibile per una ferma struttura ufficiale di letteratura che si proponga di esaltare “l'uomo nuovo socialista". La demistificazione dell'eroe positivo, del ritratto a tutto tondo, dell'integro e integrale interprete della rivoluzione, dell'industrializzazione e della collettivizzazione, la rivelazione di una realtà double-face è una presunzione imperdonabile per un uomo di lettere che debba dipendere dai burocrati. A poco a poco, l'autore di -« I racconti di «Nazar Il'ic signor Sinebrjùchov ››, di « Cittadini stimati», di i« Gente nervosa ››,con i suoi aneddoti in diretta - skaz o divagazione - con la sua fiera pretesa di non essere « né comunista né monarchico ma russo ››, con la sua assenza nello sforzo di fiancheggiamento che gli scrittori compirono al tempo della grande guerra nazionale contro il nazismo, con la ripresa imperterrita dell'autobiografismo in « Prima del sorgere del sole ››, la cui pubblicazione fu avviata nel 1943 sulla rivista  « Oktjabr' ››, con quel suo imperversare in mezzo a quel mondo piccolo-borghese di sussieghi, piccinerie e ostinazioni che la rivoluzione non aveva saputo rimuovere, diventò inevitabilmente (insieme alla Achmàtova] il capro espiatorio della stretta di freni contro le  “tendenze non sane” in letteratura (cosmopolitismo, formalismo e, appunto egotismo), che comportò l'espulsione dei due dall'Unione degli scrittori e una non breve mora alla facoltà di pubblicare.
                                                                                                                             (continua)
 Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

mercoledì 29 marzo 2017

La letteratura della terra e Vasilij Šukšin - pt. 1

Ed è questa, in fondo, una costante della cultura - e della letteratura russe: un valore indeclinabile, che non è un ripiegamento intellettuale verso le malie delle georgità o un cedimento di nostalgia alla natura, primigenio "provocatorio" della cultura.
E' una costante che ha una radice nella stessa tradizione della gente di campagna. La quale ha espresso nel canto la fedeltà alla propriaidentità e il proprio epos nei canti bylinici, autentiche occasioni divita collettiva indicizzate dal nomadismo dei cantori. La vita comunitaria dunque della gente della campagna è stata da sempre rinvigorita da questo tessuto connettivo, da questo patrimonio comunque che veniva esaltato nelle occasioni rituali di incontro - pesche stagionali, taglio dei boschi, ricorrenze religiose o etniche – ovvero
attraverso l'incessante itinerare degli umili artigiani che di villaggio in villaggio portavano, oltre al loro mestiere, il patrimonio, via via piú consistente, di questa melica corale contadina.
Le byline - res gestae cioè, avvenimenti di fatto accaduti, sedimento epico formatosi per gradi nei secoli con i bogatyriper protagonisti, a respingere ad una ad una le minacce che dall'esterno insidiavano la patria russa - sono dunque il patrimonio piú genuino del mondo rurale russo, soprattutto nel Sever[nord della Russia), nella Siberia e nei territori tenuti dal cosacchi.
Le byline sono il primo indice di una particolare spiritualità, lirica, fantasiosa e schietta, e di una sensibilità ruvida e appassionata che fascia la propria terra e la garantisce da ogni sfida piú o meno intimidatoria [al fondo, remoto, aleggia sempre costante e tenace lo spettro tartaro] che venga da fuori. E oggi l'esterno è la città,I'industrializzazione, il consumismo, con tutte le loro malattie sociali.
Accanto a questa espressione folk, spontanea emitica, v'è naturalmente nella cultura russa anche tutta una tradizione di attenzione alla terra e alla sua gente, che fu per secoli crucciata dalla servitù della gleba fino all'editto di emancipazione di Alessandro ll, del 3 marzo 1861.
Così in letteratura (e giusto per venire a tempi piú prossimi] dai vagheggiamenti idealizzanti di Sergèi Timofeevic  Aksàkov e dello stesso Ivan SergvèevicTurgénev, si passa nella seconda metà dell'Ottocento a tutta una produzione di rincalzo all`abolizione della servitú, una produzione che rivisita in lungo e in largo le miserie e le iniquità della vita contadina. Una tensione che avrebbe avuto probabilmente ancora in Lev Nikolàevic Tolstoj la sua espressione piú acuta e appassionata se il grande scrittore avesse condotto in porto il progetto del '77 -- l'anno della sua crisi - di un grande elogio del popolo delle campagne e della sua forza che si esprime soprattutto, appunto, nella devota coltivazione della terra.
E anche nel Novecento questa attenzione alla terra non smette, nei territori della letteratura. Ed è questa solerte auscultazione della campagna e della sua gente che šukšín prosegue, ponendosi in buona, in ottima compagnia. Impossibile in questa sede definire il quadro organico di questi interessi e di questa produzione. E' giocoforza procedere per nominazioni e per riferimenti; i quali però già indicano i sensi dell'estremamente modulata serie di approcci e di compromissioni con questa tematica.
Giusto per non rifarci direttamente al campione del realismo socialista, Maksìm Gorkij, ricorderemo alcuni dei suoi seguaci, quelli che piú direttamente, anche se non esclusivamente, seguirono la campagna e la sua gente nel lento moto di metamorfosi sociale e politica; e iniziarono l'inventario delle inferenze di questo cambiamento nell'anima del contadino russo.
Già nel corso della rivoluzione del 1905 Stèpan Gavriloviö Petròv detto Skitàlec, il “vagabondo” scriveva i suoi racconti sulla campagna russa, primo ragguaglio su un mondo che si muove. E tra i racconti di Sergej Nikolàevic Sergéev Ciènskij, uno degli esponenti del realismo critico prerivoluzionario, campeggia «Tristezza dei campi ››, acuminata parabola del superamento dei crucci per lo star bene.
Con grande forza espressiva Aleikséj Pàvlovic šapygin recupera le sue origini contadine e il timbro del mondo bilinico nel romanzo « 'L'eremitaggio bianco ›› che è del 1915: e poi, nel '27, colla rievocazione quasi filologica dell'epopea di quell'indomito`contadino che nel 1670 riuscí con la sua ribellione a far tremare il trono degli zar, Strèpan Razin, un precursore di Pugacëv. E šukšin infatti, come dicemmo, confermerà il significato storico di quella ribellione e la perenne attualità di quel gesto - il no detto a un mondo  lontano, assente, che si  fa vivo imponendo parametri, comportamenti ed esazioni - intestando a Razin il romanzo cinematografico «Sono venuto a darvi la libertà ››.
Prima della conversione alla drammaturgia - e « Pugaëëšcina » (t.l.: I tempi di Pugacëv] è nel 1924 il suo biglietto di visita come autore teatrale - anche Konstantin  Andréevic Trenëv, lui pure di origine contadina, fissò la sua attenzione sullo status della vita della sua gente in una serie di ben azzeccati racconti.
Autonomi rispetto a Gor"kìj ed anzi esponenti della diffusa corrente del realismo critico che precede la rivoluzione d'ottobre sono Semën Pàvlovic Pod'jàöev e lvàn Egoròvic Vladimirov. Essi son gli ultimi campioni di una linea di intelligenciia contadina, di formazione per lo piú autodidattica, che s'era spontaneamente e inorganicamente costituita nella seconda metà del secolo con il proposito di rendere testimonianza quasi cronachistica ai tempi e alle situazioni esistenziali e sociali della gente delle campagne. I loro racconti, sovente di vena autobiografica, sono estremamente interessanti oltre che come documento sociologico e come rilevazione del fermento politico che attraversa la loro gente, anche dal punto di vista linguistico perché si nutrono di quella espressività singolare, della rotta freschezza e arguzia di quel dialogo. Non a caso l'uno e l'altro diverranno dopo la rivoluzione diligenti rubricatori della "ricostruzione socialista" delle campagne. Le quali d'ora in avanti, anche in seguito al grande decollo dell'alfabetizzazione, avranno sempre meno autori “genuini”, espressi cioè direttamente dalle province per testimoniare la vita della gente dei campi sarà in aumento invece la schiera dei cantori d'elezione, prosatori e poeti che scelgono la terra come materia di canto e termine del loro ingaggio sociale.
Prima che questa proletarizzazione delle campagne e di conseguenza anche della letteratura sulla campagna venisse acquisita  fu quasi un'avvisaglia - uno scrittore di estrazione liberalborghese, Viktor Vasil’evic  Mùjzel, proprio “piegandosi” da gentiluomo sulla vita miserevole dei contadini e raccontandola, andò oltre la "disposizione" del nostro Verga e trovò il destro per accostarsi alla sinistra politica.
Chi invece questo passo non seppe e non volle fare, rifiutando anzi con il gesto eloquente dell'esilio le prospettive rivoluzionarie, fu lvàn Alekséevic Bùnin. In lui l'estrazione sociale - i suoi erano grossi proprietari terrieri ridotti male - determinò unidirezionalmente il plurimo impegno di letterato - non ebbe neanche studi regolari , impegno che però raggiunse una prima acme, dopo i racconti “preparatori”, in due romanzi, « La campagna » e « Valsecca ››, che all'inizio degli anni dieci consacrarono il suo grande talento di narratore, che otterrà il riconoscimento del Nobel nel 1933.
ln questa "lunga suite epico-lirica” in due tempi emerge la sua sostanziale fedeltà alla tradizione: nel recupero dell'umanitarismo ottocentesco, nella celebrazione della natura e delle sue sane lusinghe, nell'ossequio a un tema di fondo - la campagna e i rapporti tra padrone e contadini, accomunati in fondo alla severa e tribolata religione della terra - sempre scompaginato dal fantasmagorico irrompere delle vicende e dei protagonisti che conciliano ì loro dissidi aspri o futili nella consapevolezza d'una soggezione a un destino comune.
Contemporaneo di Bùnin, autodidatta e fedele fino in fondo alla patria russa, interprete tra i piú originali del realismo, capace d`una scrittura icastica, dalla quasi fisica palpabilità cosi lo giudicò Gor'kij - fu Michail Michàilovic Prìsvin. Egli tè probabilmente il piú alto interprete contemporaneo della pietas verso la natura colta come sfondo della vita umana; e della stupefazione dell'uomo, che fiorisce soprattutto tra l'umile gente creatrice di fiabe, di fronte alle meraviglie di quella: tensioni che trovano il loro vertice nella raccolta di novelle « Lo sgelo della foresta ››, 1945. 
                                                                                                                        (continua)

 Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

mercoledì 8 marzo 2017

Genesi di un narratore

C'è tutto un quadro di intelligencija russa, soprattutto letteraria, che coltiva da sempre questa ragioni dello spirito e della vita. E' impossibile prescindere da essa se si vuol intendere a fondo il messaggio poetico di Šukšin. Il catalogo che ora ne diamo. sommario e incompleto, v’è appena una prima indicazione di ricerca per chi voglia approfondire i nessi di questo salutare e fecondo rapporto tra una certa tradizione letteraria russa e Šukšin; e tra Šukšin scrittore e Šukšin autore cinematografico.
Il momento nodale della sua vocazione di autore lo trova al VGIK, alla scuola di Michail Romm, « autentico uomo di cultura » così lo definisce Šukšin, maestro di vita oltre che d`arte: « La sua voce sorda, paziente, a volte un po' rauca ›› è la memoria che l'allievo ha lasciato del maestro al momento della sua scomparsa [in Le film soviétique ››, 1975. n. 9. p. 31)  « di un uomo buono e stanco di ripetere agli altri le verità più elementari. Stanco, ma che non smette di ripeterle. Due di queste verità - la necessità della bontà e del sapere - erano per lui il tema principale dell'arte.  «Era molto paziente. Quando sono stato suo allievo non l'ho mai temuto, non ho mai avuto il rimorso di rubargli il suo tempo. Era molto buono con me e pensavo che ciò fosse naturale. Poi, quando ho cominciato a capire, ero stupefatto dalla sua pazienza. E mi è molto dispiaciuto, per esempio, di avergli dato da leggere le mie brutte novelle. « Ci insegnava a lavorare. A lavorare molto. Tutta la vita. Era da questo che cominciava il suo insegnamento. Ci ha raccontato quanto lavorava, e con quali difficoltà, LevTolstòj. E per cinque anni ci ha ripetuto: "Ragazzi, bisogna lavorare" E si è ficcata in me questa idea che bisogna lavorare, lavorare e ancora lavorare per arrivare forse a qualcosa. “Bisogna leggere", “bisogna riflettere": erano anche questi inviti a lavorare. “Provare ancora": sempre la stessa cosa, lavorare e lavorare. « Anche lui ha lavorato fino all'ultimo giorno. E' cosí che vivono gli
artisti, ora lo so perfettamente. Soprattutto quando ripenso a tutta la sua vita. E so con altrettanta chiarezza che il tema principale dell'arte è la necessità della bontà e del sapere ››.
Il marchio di Romm nella vita di Šukšin è netto e preciso. Dal maestro non solo apprende un metodo di lavoro, una proposta estetica e poetica [l'arte come epifania «della bontà e della sapienza), ma ottiene l'accertamento della propria identità umana. Tre anni appena dopo aver scritto queste parole Šukšin morirà. E solo la morte gli ingiungerà di « smettere di ripetere ›› alla gente le sue « verità elementari ›› con un potere di convinzione che la malattia ha reso più caparbio e persuasivo. La sua ostinazione, alla fine - per quanto è vero che ogni autore è postumo di se stesso - la spunta perfino, almeno in parte, sui burocrati che non han saputo capire il valore e la portata della sua testimonianza di anticonformismo.
Da Romm dunque, al quale ha dato in visione i suoi racconti, Šukšin riceve consigli ed esortazioni a insistere in campo letterario. A trent'anni. le sue prime cartelle gli sono accettate da « NovyiMir ››, la famosa rivista diretta da .Aleksandr TrifònovicTvardòvskij, che s'era rivelato grande poeta nel 1930, lui di estrazione proletaria, proprio con una raccolta di liriche sulla trasformazione della vita della campagna, «La via al socialismo ››. Quasi sempre prima di uscire in volume i racconti di Šukšin compariranno su questa rivista o sull'altra, « Molodaia 'Gvardija ››. Nel 1963, con il titolo « Sel'skieìiteli » (t.l. Abitanti di paese), i suoi primi racconti son raccolti  in volume. 
Due anni piú tardi darà alle stampe il suo primo romanzo, « Ljub viny » [t.l.: il due ›Ljubavin], che sarà ridotto per lo schermo nel 1972 col titolo La fine dei Liubavin. Nel 1970 esce una seconda raccolta di novelle, «Tam, vdalì ›› (t.l.: Là, lontano). Passa un altro biennio e compare il suo terzo volume di racconti, intitolati significativamente « Zemljaki ›› [t.l.: Compaesani, che è stato ora trascritto per lo schermo dagli amici di Šukšin.
A questo punto l'attività di Šukšin si intensifica in maniera straordinaria. Testimonia Gerasimov che Šukšin «possedeva un'inconsueta, inesauribile avidità di lavoro. ll ruolo era difficile, esigeva una continua presenza. Eppure in ogni minuto libero dalle riprese, egli scriveva. Scriveva sui pezzetti di carta che gli capitavano sottomano se non trovava nella tasca il quaderno di appunti. Scriveva velocemente, temendo che il pensiero gli scivolasse via, gli sfuggisse, si polverizzasse. Ed ecco che l'idea nasceva, trovava forma verbale, assumeva una precisa intonazione. Soltanto allora era soddisfatto: ma per questo bisognava fissarla velocemente. Sebbene Šukšin possedesse una memoria prodigiosa, tuttavia non se ne fidava, sostenendo, e giustamente, che la letteratura «è una forma d'arte in cui formulare un pensiero appena un po' approssimativo è in sostanza capovolgere le leggi generali, che si basano sulla scelta puntuale e sul legame preciso delle parole, in nome della precisione dell'immagine ›› « llskusstvo kino ››, 1975, 1, cit., p. 148). Continua dunque a scrivere per l'editoria e per il cinema interpreta film, ne prepara e gira i suoi. Vedono la luce il romanzo cinematografico « Ja prišel dat' vam volju ›› [t.l.: «Sono venuto a darvi la libertà), nel 1971; e nel '73 la quarta silloge di novelle, «Charaktery ›› [t.l.: l caratteri) e il racconto cinematografico «Kalina krasnaja › [t.l.:Il viburno rosso) che diventerà film nel 1974.
Nel '74 chiude con un'altra coppia di volumi di racconti: « Besedi prjasnoj lune ›› [t.l.: Colloqui al chiar di luna] e « Rasskazy ›› [t.l.: Racconti). Già le intestazioni della produzione letteraria di Šukšin - schiette, quasi ritrose nella loro semplicità -- sono indicative dell’orientamento di fondo della sua poetica. Non è solo la salubrità dell`aria, la genuinità della natura, la franchezza e la saggia bonomia della gente che abita la terra ad avvisare l'alterità che William Cowper, il pre-romantico inglese, avvertí profondamente in mezzo ai suoi melanconici terrori sintetizzandola nell'apoftemma “Dío fece la campagna e l'uomo la città".
Per Šukšin la città è la residenza della lucida razionalità della programmazione, della geometria e della standardizzazione. La campagna è il luogo primordiale del buon senso, del sentimento, dei
moti teneri e bruschi del cuore; è il luogo della spontaneità e insieme della fedeltà ad un archetipo sociale che fortifica e rinfranca il carattere dell'uomo e lo scampa dalle seduzioni di un mondo illustrato ma volubile, facile ma subdolo.
E' questa la nota dominante dei suoi racconti [soprattutto in « Là lontano ››] e di tutti i suoi film, in particolare dell'inedito da noi Peöki-lavoöki ›(t.l.: Stufe-panchine, 1973].
Non che Šukšin si lasci imbecherare da quelle che Sinisgalli chiamerebbe le moine della natura. Šukšin sente la campagna virilmente come termine di riferimento etico, come sede della pulizia, non solo ecologica ed atmosferica, ma fisica, psichica e morale.
Pensiamo ad una delle sequenze conclusive di Vaš syn y brat. Il padre e i due figli sono sulla riva del fiume Katun, antico spettacolo dell'acqua diversa e impassibile, immagine - per ricordare Melville -dell'inafferrabile fantasma della vita. Il fiume giudica il vecchio, la vita sua che declina. E il vecchio giudica i due figli: il piú  giovane, Vassia, che è rimasto fedele alla terra e gli lavora la campagna, e il maggiore, lgnati, che ha scelto la città e s'è messo bene con la sua palestra di ginnastica per adulti. ll vecchio, quotando la forza fisica dei due figli, vuole che la misurino nella lotta, come facevano quand'erano ragazzi. Vassia prevarrà e darà conferma al padre: il vigore fisico speso in città è un vigore sprecato. Ma Vassia, il fedele, il buono, il timido Vassia si schermisce: è piú possente, è evidente, ma non si fida fino in fondo della sua forza, soffre d'inferiorità di fronte alla vigoria « razionalizzata » del fratello. il confronto non ha luogo. Il padre è deluso, Vassia rimpiangerà l'occasione perduta.
Ma la sua “superiorità” non viene scalfita dalla prova mancata. Proprio perché non c’è bisogno di prova. Chi fatica, chi soffre, quello è superiore: Antòn Pàvloviöc Cèchov registra in questa fase un decreto esistenziale che nessuno nega. E la terra non accorda sconti alla fatica. Dà e riprende a misura di come e quanto è servita.
E' il motivo secolare della iustissima tellus: mentre chiede, rende a misura, imparzialmente, forza, sapienza, bontà.

Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, lugio/agosto 1976

domenica 12 febbraio 2017

Racconto letterario e racconto iconico


«Per šukšin letteratura e cinema erano in sostanza un unico processo. E proprio in questa unità veniva alla luce, nella sua forza dirompente, il suo talento››.
La testimonianza di Sergej Gerasimov («lskusstvo kino», 1975, 1, p. 146-149, passim) sancisce la triplice modulazione espressiva della Erlebnis dello scrittore siberiano: interpretazione scenica, letteratura, cinema d'autore.
Un’interpretazione scenica è però accidentale rispetto al suo ruolo di autore, sulla pagina e sullo schermo. Accidentale nel senso di mediativa: la letteratura - testimonia ancora Gerasimov - è stata per lui il tramite più prossimo e immediato per spiegarsi col proprio lettore sugli avvenimenti che turbavano il suo animo: ed
ecco perché le sue pagine si distinguono per l`inconsueta leggerezza e libertà, sia nella scelta del tema e del materiale, sia nella forma dell'espressione artistica ››. E sono sceneggiature, racconti e romanzi (verbali e iconici), quelli di šukšin, che mancano totalmente di letterarietà, nel senso sveviano del termine: inutile e dannoso orpello, raffinata tautologia.
Essi sono scanditi in una lingua quella paesana arcaica, nella sua regione del'l'Altaj - cosi diversa da quella standardizzata del cittadino medio che vive in città: una lingua «bella, flessibile a cantilena », come lui la chiamava (intervista con C. Benedetti in « Nuova 'Generazione ››, n. 179, 28.9.1975, passim) e serrati in una sintassi essenzialmente paratattica. Hanno una struttura piana, elementare, quasi salmodica, cioè rincalzante, mai ellittica. Una struttura che da un lato ripropone i moduli della cultura contadina, lineare e continuativa, fatta di esperienze sedimentate nei secoli e prolungata e accresciuta di generazione in generazione con metodica chiarezza; e che dall'altro espone le condensazioni dell'Erlebnis, cioè la somma del vissuto di Vasilij Makàroviö: e non solo il vissuto “storico”,l'agglutinamento già sciolto delle sperimentazioni culturali, istituzionali, immaginative, oniriche, sentimentali; ma tutto quanto alla fine converge, attraverso il filtro della sensibilità, nella coscienza e che diventa _-per usare parole di šukšin -«forza del cuore » (C. Benedetti, int. cit.)
E la sensibilità, instimolata dall'ispirazione, torna ad attivare le fondazioni della coscienza e le « risolutive » forze del cuore nell'espressione artistica. In šukšin avviene con maturità e interdipendenza di manifestazioni - il racconto verbale e iconico e la mediazione drammaturgica - e con una piana saggezza che possiamo definire esiodea.
Di Esiodo šukšin ha la stessa forza di convinzione. La convinzione profonda di chi si sente portatore e custode d'una saggezza antica e insieme di una fede nuova che esige però mediazioni prudenti.
Per Esiodo il termine di fede fu la dike democratica che sottentrava alla società omerica, aristocratica, feudale e guerriera; per šukšin è la metanoia socialista che ha sgominato la società aristocratica feudale e guerrafondaia degli zar: e di questo fa argomento di discorso, e infine di poesia.
Come il sistema teologico-morale che Esiodo annuncia «è agganciato alla dike -personificazione numinosa del costume che fonda un ordinamento sociale come necessità, e insieme personificazione giustificatrice della vittoria di Zeus, che è il nume della serenità pacificatrice, tutore delle leggi tradizionali, della liberta politica e delle norme morali - così il sistema etico di šukšin verte sulla riconferma del valore decisamente storico e storicamente decisivo del socialismo nella terra russa; e sulla necessità di comporre e armonizzare, nel quadro di cambiamento di mentalità che ogni rivoluzione comporta, nuove forme di vita associata in cui la saggezza secolare degli uomini della terra «[nei primi anni della rivoluzione ancora l`ottanta per cento dei russi eran contadini) non sia travolta e guastata dalle irrequietudini e dagli scompensi che seguono all'inurbamento e al brusco aggiornamento industriale e tecnologico.
Ma non c’è antagonismo - šukšin ha ripetutamente insistito su questo anche nella intervista pubblicata postuma da Benedetti, proprio per rintuzzare quei critici che lo censuravano con queste motivazioni [in: «Nuova generazione ››, n. 179, cit., passim) - tra città e campagna. E' una semplificazione di comodo, dice Vasilij Makàrovic. Una riduzione che non regge.
« Quando i critici mi chiamano “scrittore contadino" non hanno ragione perché con una etichetta del genere rendono più stretto del reale il senso e l'importanza di questo fenomeno. Comunque a me piacciono quei cosiddetti "scrittori contadini" perché sono persone oneste. So bene che se arrivano in alto, ad occupare posti di scrittore o letterato, è perché hanno talento. Cioè la loro promozione non avviene a caso. Anzi, mi sembra che si possa parlare di un vero e proprio corso obbligatorio. L'arrivare, nel campo della letteratura, è una conclusione logica e necessaria. Forse, per questo, sono scrittori più naturali e piacciono al nostro lettore di oggi. Certo, ora, io non voglio fare dei confronti. Non sostengo intatti che gli scrittori "cittadini" non sono in grado di creare veri valori letterari. E del resto non voglio nemmeno usare questo termine di “scrittori cittadini" che, come quello di “scrittori contadini" è troppo stretto, offensivo ››.
Epperò -- fatto salvo questo "distingue" - è presente indubbiamente in šukšin, nella sua opera letteraria come in quella cinematografica, una tenace e appassionata “religione”. La religione tutta esiodea della terra che nasce dall'amore per essa e che la madre terra nutre di generazione in generazione a misura del sudore ch'essa riceve.La fertilità della terra insemina questa religione - religione intesa nel senso di una struttura solidale di credenze e di valori vissuti che hanno il potere di religare una certa comunità umana - la quale nutre, accanto alla custodia di tradizioni vetuste, una profonda esigenza di giustizia, e l'amore al lavoro, e la costanza della fatica; ed anche quel sobrio e burbero portamento, che questa gente si reca addosso e che Vasilij Maikàrovië allega alla quieta faccia dolorosa dei suoi ultimi anni, quando già il male mortale lo insidiava e quando una tranquilla inquietudine gli trascriveva sul viso la domanda più volte ripetuta: «perché vivere se non si sa quando si muore? ”
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976