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martedì 26 ottobre 2021

Decision Before Dawn

L’Autore de I dannati non dice di quali colpe si fosse macchiata la Germania alla vigilia della catastrofe, quali debiti avesse accumulato verso l`umanità. Considera le due forze di fronte, e la forza nemica nel momento della sua disgregazione. Ci risparmia ogni facile orrore, ogni accusa. Un comandante tedesco è veduto come un impiegato nel suo ufficio, e il suo impiego è la guerra. C'è una specie di rispetto professionale. E sono lasciate allo spettatore le considerazioni sull'atteggiamento dell'America verso la Germania, su questo rispetto professionale della guerra combattuta fino in fondo, a costo della ultima distruzione di quanto è più caro nel cuore di una città e di molte città illustri di passato.
Altre considerazioni assai più ardue e problematiche nello spirito d'oggi sono lasciate allo spettatore, e che non tocca a noi definire, se lo stesso regista si è fermato a questo punto.
Restiamo nel fatto umano, come il regista vuole restare, e diciamo che un patetico mai scoperto, mai confessato, è quello dell`infelice eroe, dell'inutile eroe di cui nessuno vorrà fregiarsi: la spia nella sua solitudine incomunicabile, che si vieta a una donna come si vieta ogni sguardo che gli possa far riconoscere nel viso del compagno un suo consanguineo, che in ogni gesto teme di tradirsi come ogni gesto finisce col tradirlo, che in prossimità della sua casa telefona a suo padre per sentirne la voce senza sentirsi degno di fargli udire la sua; e alla fine, caduto nelle mani dei suoi come traditore riconosciuto, giudicato dal nemico stesso che ha servito. «In fin dei conti, niente altro che un tedesco».
Per i cultori di squisitezze, la scena della caccia della spia in un teatro bombardato, con un principio di
contagio esilarante della finzione di un mondo di cartapesta negli stessi persecutori, è esemplare di misura.
L`autore non vuole giudicare, abbiamo detto. Non pone neppure un interrogativo. Ci dà lo specchio d'una situazione crudele, uno dei più potenti documenti su un dramma contemporaneo, e tutto sommato non invoca che il silenzio, fuori di ogni opportunità moraleggiante, e d'ogni provvisoria e accomodante spiegazione e soluzione. Ci offre soltanto il ritratto di un protagonista nuovo, d'una tragedia nuova.
CORRADO ALVARO
«Il Mondo», 19 aprile 1952

 

lunedì 7 giugno 2021

Corrado Alvaro in URSS




 

IL PUBBLICO SOVIETICO
 

NOI siamo soliti considerare il film russo sulla misura di quelli veduti a Venezia, a Parigi, nelle Ambasciate Sovietiche: La corazzata Potemkine, La madre, Le notti di San Pietroburgo, La tempesta, Ciapaiev.
Ma sarebbe strano che proprio il cinema sovietico non avesse la sua volgarità, i suoi luoghi comuni, la sua convenzionalità, per quanto in un altro senso da quello del cinema occidentale. Bisogna dire subito che il cinema, nell'URSS, non gode della stessa fortuna che ha in Occidente; che il pubblico sovietico preferisce il teatro, essendo il teatro meglio adatto al suo gusto dello spettacolo, alla sua tendenza verso il prolisso, al suo piacere di ascoltare la parola, la frase, il discorso, la concione: infine, alla sua naturale tendenza ai lunghi discorsi. Difatti, i film sovietici sono lunghi e pausati, e se ci si provasse a doppiarli, si incontrerebbero difficoltà di nuovo genere, appunto per l'abbondanza e la lentezza del dialogo. Il pubblico sovietico ha ancora il gusto della letteratura e dell'attore: vuol vedere il suo attore da tutte le parti, come vuol sentirne il discorso in tutto il suo giro. Da ciò la tecnica della recitazione russa, in cui l'attore indugia negli atteggiamenti e pesa molto sugli effetti; e quel gusto particolare verso la commedia dell'arte che hanno ancora i russi, e con la lentezza che per forza porta l'improvvisazione o la calcolata improvvisazione. Questo atteggiamento del pubblico sovietico proviene sia dalla vecchia tradizione dello spettacolo russo, sia dalla nuova elementarità sua. È un pubblico semplice e in qualche modo primitivo. Gli attori vi sono quasi sempre eccellenti, se non altro per la loro diligenza. Non hanno paura di sembrare abietti in una parte abietta. Non cercano la simpatia umana altro che nel loro ruolo. E si sa che, in genere, per attori di scarsa qualità, voler essere simpatici a ogni costo al pubblico è una delle cause delle interpretazioni generiche e della decadenza del teatro. La simpatia nelle arti va acquistata facendo veramente l'arte. E noi conosciamo attori che, nelle parti ingrate, hanno l'aria di fare intendere: «Io non c'entro niente, queste cose non mi piacciono; sono stramberie dell'autore; ma io sono il vostro simpatico e affezionato attore Ipsilonne».
Non so a che punto sia oggi la produzione del cinema sovietico. Parlo di cose osservate cinque anni fa. Ma se il campione maggiore della cinematografia sovietica è oggi il film su Pietro il Grande, è segno che essa si aggira tuttavia su soggetti storici, e con la preoccupazione di rivalutare una storia fino a ieri rinnegata e spregiata; è segno che la produzione minore, oggi come ieri, ha fatto pochi passi verso l'interpretazione del mondo attuale, con una non del tutto ingiustificata preoccupazione di evitare argomenti di vita quotidiana. Essa rappresenta, piuttosto, una vita ideale, quale dovrebbe essere o quale sarebbe augurabile che fosse.
E in questo non mi pare che differisca troppo dalla posizione della cinematografia occidentale, da cui però si stacca in tutto quello che riguarda l'erotismo e l'amore.
Il tema predominante della produzione sovietica corrente è sempre il solito: la prepotenza delle classi distrutte dalla rivoluzione; la donna è quella che più subisce la prepotenza e l'oltraggio; sono scene di provincia, georgiane e caucasiane, dove il pittoresco è più facile; si vede l'oppresso e l'oppressore; inde irae, e trionfo finale.
Uno dei motivi di quella cinematografia è l'odio di classe: delle classi distrutte, nei film storici, e dei nemici del popolo, nei film di vita attuale. Si ricorderà che nel film Verso la vita, tutti i vagabondi riscattati e rimessi all'onore del mondo lottavano contro i sabotatori. (Il film ebbe un tale successo, che i vagabondi, scesi da tre o quattro milioni ad appena tre o quattrocentomila, si moltiplicarono improvvisamente). A parte l'odio, che è il fermento più comune di tutte le opere d'arte sovietiche, quel pubblico ricerca nel film le medesime emozioni di ogni altro pubblico. Se la ragazza occidentale va al cinema per vedere un piccolo paradiso che le è negato nella vita quotidiana, un paradiso di successi senza sforzo, o di piccoli sforzi coronati da grandi fortune, la ragazza sovietica va a gustarsi lo spettacolo d'una felicità simile trasferita sul piano sociale: difatti, quando in un film sovietico è scoppiata la rivolta contro il vecchio padrone o proprietario o borghese, viene il paradiso della conquista dei piccoli beni che sono al sommo di una mente sovietica.
Gli spettatori più accaniti agli spettacoli nell'URSS sono le donne. Siccome la donna è più sensibile alle differenze sociali, e la più pronta e tesa ai mutamenti di condizione, e questo per molte ragioni, e per la possibilità che essa ha di mutare già col semplice fatto del matrimonio, le donne costituiscono il pubblico più vivace ed eccitato dello spettacolo sovietico. E come altrove si imita l'eroina del cinema, quanto a modi, a morale, ad aspirazioni, così si imitano nell'URSS gli atteggiamenti e la mentalità che fornisce lo spettacolo. Teatro o cinema concorrono a prospettare il tipo della cittadina e del cittadino che spregiano ogni forma di vita borghese, ma d'altra parte propongono il tema della nuova borghesia russa coi suoi ideali nuovi, che sarebbero quelli antichissimi: cioè di stare un po' meglio. Quello che in altri film è dato come benefizio improvviso del lavoro, o capriccio della ricchezza, nei film sovietici è dato come beneficio partorito dalla solidarietà collettiva della vita sociale.
Lo spirito sovietico si sta solidificando intorno alla creazione d'una classe media burocratizzata; è insomma il popolo che diventa piccola borghesia, o tende con tutte le sue forze a diventarlo, fenomeno non nuovo e, neppure questo soltanto russo. Bisogna considerare che il pubblico sovietico è composto per la maggior parte di gente venuta dalla provincia, e da province remote come possono essere quelle d'un continente che si stende sulla sesta parte del mondo. Si tratta, inoltre, di generazioni quasi interamente nuove, le quali, venute alla luce o per lo meno cresciute nel clima sovietico, sono abituate a considerare il vecchio mondo come un'accozzaglia di persone ricche e crudeli le quali tenevano sotto il giogo un popolo miserrimo e chiuso in una vita selvaggia come nell'interno della Mongolia o in Siberia. Questa nuova classe fa la scoperta dei benefizi della vita civile e in qualche modo solidale, dei comodi d'una vita servita dall'industrialismo, del diritto di vestirsi discretamente, di avere tutta gli stessi diritti. Crede in buona fede che questo sia una promessa nuova del suo assetto sociale e non immagina che altrove un tale patrimonio, più o meno grande, è già acquisito e perduto e riacquistato molte volte. Siccome poi, per forza di cose, una nuova borghesia si deve costituire, e cioè una nuova classe dirigente, un certo odio è accumulato verso questa inevitabile formazione. Grida e risa di trionfo accolgono da parte del pubblico ingenuo le vicende della conquista materiale del benessere nei film, come pressappoco da noi il pubblico saluta festante la giovane donna che riesce a farsi sposare dal milionario. Insomma, il materialismo dei film americani, trasferito su un altro piano, non differisce che nelle forme da quello sovietico.
Nel tempo del mio soggiorno laggiù, ebbi l'occasione rarissima di vedere il pubblico anche di fronte a un film occidentale. Fu a Mosca; si proiettava un vecchissimo film americano dei tempi del muto, intitolato La sciarpa. La vicenda, come succede spesso nell'arte occidentale che sottintende quasi sempre una critica del costume, poteva servire anche per le menti sovietiche, e con opportuni tagli era una testimonianza alla propaganda in vigore, nella lotta di classe alle nazioni capitaliste. (Mentre l'arte occidentale si può ridurre a una critica della società operante, quella sovietica si può definire come una critica a un mondo distrutto il cui fantasma domina ancora la fantasia dei superstiti). Si faceva la coda al botteghino; la sala era affollatissima: il pubblico femminile era avido di vedere i vestiti delle attrici, sia pure secondo la moda di dieci anni prima. Un altro film occidentale lo vidi a Baku, un pomeriggio, con oltre quaranta gradi all'ombra. Era un film ingiallito come un vecchio libro, e quasi incomprensibile. Non si vedeva altro che gente che liticava, veniva alle mani, si uccideva. Era di ambiente marinaro. Molti tagli lo avevano ridotto a un frenetico litigio di fantasmi. Nella sala c'erano una dozzina di persone. Tra il caldo e l'afa mi addormentai.
Il biglietto costava venti lire.
CORRADO ALVARO
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica ANNO IV – 10 dicembre 1939 XVIII

venerdì 19 marzo 2021

Regista che malamente si potrebbe definire solo un artista


Un film come I dannati di Anatole Litvak fa venire a mente una figura complessa di regista che malamente si potrebbe definire solo un artista. E come un documentario bruto, colto sul vivo, in cui per un rarissimo caso la realtà abbia fornito un materiale già scelto e legato da una logica. Insomma, è un film che raramente fa venire a mente il teatro. Nello spettacolo teatrale, noi siamo tratti spesso a compiacerci della finzione, del simbolismo del dramma, della scelta che fa l’attore tra i cento modi possibili di atteggiarsi. I dannati non ha un solo momento per ripiegarsi sulla estetica del film che fa versare fiumi di inchiostro ai teorici, e nessuna velleità poetica. Di pretesti poetici manca quasi sempre il film americano, a meno che non sia opera di ingegni d'origine e di formazione europea. Questo atteggiamento nel teatro, nel giornalismo, nelle arti in genere e sovrattutto nel film, va dominando il gusto europeo, dando alla letteratura e alla stessa funzione dello scrittore e dell’artista, un'impronta diversa da quella tradizionale, al punto che personalità e individualità cedono il posto al concetto di merce artistica utile e utilizzabile, una delle tante merci di consumo. Non è l`aspetto più trascurabile d`un modo d'essere moderni.
I dannati implica un ingegno artistico di questo genere, in una realizzazione delle più istruttive e importanti. Di quanto un europeo sarebbe tratto a caratterizzare, di tanto il regista si limita a una scelta di tipi comuni; di quanto si sarebbe tratti a isolare episodi, situazioni, paesaggi, atteggiamenti, di tanto egli li accumula con indifferenza apparente l`uno sull'altro, e spesso con una ricchezza che si compiace di andare dimessa e inosservata. Se mai si pensa all`autore, nel corso della proiezione, vien fatto di pensarlo come un tipo di nuovo genere, una specie di impresario, ingegnere, organizzatore. Non ci era ancora capitato di vedere la guerra rappresentata con tanta evidenza, così sporca, così confusa, con tanta umiliazione di uomini e distruzione di beni, con tanta vita rivoltata e pestata e stritolata nel mortaio della rovina di tutto. Il regista aveva a disposizione lo scenario autentico, e in gran parte rimasto intatto, dei paesi tedeschi distrutti dai bombardamenti. Ma ha saputo animare tutto questo dando quel senso di rovina interminabile, di inestricabile tragedia, di angosciosa perennità, di ferita mai chiusa, di confusione di bene e di male e di diritto e di torto che a un certo punto assume la guerra.
CORRADO ALVARO«Il Mondo», 19 aprile 1952

giovedì 18 febbraio 2021

Tamil musical drama




Un senso panico percorre il film (Mira*), il canto e la danza esaltanti esaltano il creato intero, diventano il ritmo che regola la vita, il passaggio dei buoi sull'immenso fiume, i vasai intenti a modellare i loro vasi, i mietitori che ammucchiano le messi, le fanciulle nei loro giardini. Sono i pezzi più belli del film, accanto all'esaltazione del canto e della danza nei templi tra le turbe d'uomini d'ogni condizione, e i brani affidati alla protagonista che il regista non esita a mettere in primo piano per diecine di minuti col suo canto di organo. Per la cronaca, il pubblico abituato ai film dell'industria occidentale che per un orientale devono sembrare prodotti di nevropatici (si ricorderà che qualche anno fa si stabilì una censura sui film occidentali destinati a certi paesi orientali, nella considerazione che alcune di tali opere inducevano quel pubblico diverso al disprezzo del bianco e alla criminalità), il nostro pubblico finiva col ridere d'una situazione sempre uguale sebbene diversa sempre di intensità: Mira che canta le sue lodi, e sono tredici cantici, al dio dagli occhi di loto, coi bracciali alle caviglie, la collana di gemme sul petto, la cintura di piccoli campanelli, il quale a mezzanotte apparirà « sulle rive del fiume d'amore ›. Capita di pensare che questo è il parallelo dei film musicali occidentali in cui la cantante si produce più volte in canzoni sincopate e in danze erotiche.
CORRADO ALVARO, Il Mondo, 12 aprile 1952

*Meera, 1947 by Ellis R. Dungan
In apertura il produttore T. Sadasivam, la protagonista M. S. Subbulakshmi e il regista Ellis R. Dungan sul set si Meera. Segue M. S. Subbulakshmi in uno screenshot.

 

lunedì 1 febbraio 2021

La comunione col dio


Non so se Mira*, il film indiano proiettato nell'edizione originale a cura dell`Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente e dell`Associazione italo-indiana, potrà essere doppiato e presentato a un pubblico più esteso di quello degl’invitati romani che si pigiavano, ed era la haute della città, nei passaggi e lungo le pareti della capace sala. Sarebbe uno spettacolo curioso e in qualche modo sconcertante. L'arte del film è arrivata fin nei più remoti paesi superando tutte le barriere anche delle religioni più gelose, la sua sintassi è accessibile a tutti, e a quanto pare abbastanza facilmente. Gl’intenditori sono esilarati di certe scene che essi scambiano per trovate, come le scene del tribunale e dell'indovina in Rasciomon, memorabili; e si tratta di ciò che originale e della tradizione scenica nazionale è trasportato in questa arte, meccanica. Tanto in quel film giapponese, come in Mira, lo spettacolo serba le esigenze del dramma antico, vale a dire qualche cosa di rituale. Mira è, in più, un dramma mistico, della mistica indiana traboccante di abnegazione suprema e di suprema gioia della vita. Vi cercheremmo inutilmente una qualunque velleità d'intreccio secondo le abitudini di indovinello, assunte spesso dal cinema occidentale; il racconto ha l'andatura d'una biografia esemplare, dall'infanzia alla morte, d`un personaggio straordinario, una santa, e una santa apostolica. Questo mondo che ha raggiunto i culmini del sentimento religioso, ci dice qualche cosa che noi conosciamo attraverso il misticismo occidentale delle grandi epoche, un senso di comunione con la natura, un trasporto d`amore che si esalta nella danza e nel canto, e in essi trova la comunione col dio.
Corrado Alvaro, «Il Mondo», 12 aprile 1952

Ellis R. Dungan, Meera*, 1945

 

domenica 3 gennaio 2021

Così ricco, cosi inutile


Forse bisognerà ravvisare in Barbablù (Barbebleu, Cristian Jacque 1952), un film così ricco e cosi inutile, e cosi formicolante di concetti letterari nel dialogo, uno degli ultimi Scampoli di quella letteratura che aveva il vezzo dei rovesciamenti delle situazioni e degli eroi classici, e in Francia, se non erriamo, iniziati da Laforgue; ina, in tutte le letterature europee, di gran moda nel Seicento, col dileggio dei miti della Cavalleria.
CORRADO ALVARO, Il Mondo 5 aprile 1952

mercoledì 9 dicembre 2020

Corrado A, Umberto D & Vittorio D S



Succede nei racconti popolari, e nei sogni, e nella letteratura più elementare, che il protagonista d'una vicenda si trovi legato a un ambiente e a una situazione perché lo destina cosi la fantasia dell'autore o la simbologia del sogno, e perché accada quello che si vuole accada; ma basterebbe che fosse dotato d'un minimo di libero arbitrio per poter mutare luogo e condizione, e il dramma non avverrebbe. C’è una certa gravità nella fantasia favoleggiante, di fronte a cui si resta perplessi senza ombra di commozione. Non si riesce a definire la causa della nostra scarsa partecipazione e condizione: ma quasi sempre si tratta d`una limitazione della volontà e della libera scelta del protagonista messo nella sua vicenda come in una prigione. Cosi in Umberto D di De Sica: scelto uno dei personaggi più patetici, un vecchio, data una condizione assai comune oggi che è la solitudine, il film scorre senza che noi ci troviamo mai in mezzo alla vicenda, insensibili anche noi come gl`insensibili personaggi che rasentano quel dramma d'uomo. Il perché un'opera di così egregia fattura non ci tocchi, è nel fatto che il vecchio pensionato Umberto D., il cui cruccio consiste nella minaccia continua di essere sfrattato dalla stanza mobiliata che occupa presso una signora piuttosto equivoca, ci è presentato come se non esistessero altre stanze mobilitate nella città di Roma, e anche a minor prezzo, giacché egli paga ventimila lire al mese sulle trentamila che ha di pensione. Non ha ragione per amministrarsi cosi, cioè ragioni sentimentali, di affetto, di consuetudine, legami, ricordi. ...

Ladri di biciclette si reggeva su un filo, con quella mitica bicicletta insostituibile, ma c'era di mezzo un ragazzo, un legame, un dovere, per cui il protagonista agiva e non per sé. Qui il ragazzo è diventato un cane. Umberto D. è arrivato all'astrazione di quella solitudine, e senza l'aiuto di sequenze della forza della messa di beneficienza, e di tutta l'atmosfera mutevole d'una giornata romana, e quella densità di città. ...

Il film è ricco di belle scene, e prima di tutto una visione di Roma monumentale, divenuta scenario quotidiano e in questo senso inedita. E poi la servetta, Maria Pia Casilio, non proprio chiara e forse non del tutto verosimile come psicologia, ma tuttavia letterariamente costruita: le sue spontanee qualità naturali, dai tratti del viso, al corpo, ai gesti, al linguaggio, hanno offerto un gran partito al regista. Basta ricordare i movimenti con cui ella apre la porta della cucina e la richiude mentre regge con le due mani un vassoio carico di vasellame. È una delle cose preziose di questo film, e tutte le volte che questa piccola figura, agisce, De Sica ritrova le corde del suo miglior sentimento. Lina Gennari, la padrona di casa, dà al suo personaggio un colore e una verosimiglianza della più schietta e precisa invenzione. Nell`ambiente di lei, il regista ha messo insieme tutta un'esperienza di osservazioni. Altre figure notevoli: il mendicante dalla voce prepotente e insolente, pieno di avidità e di rancore, figura assai nota a Roma intorno agli anni subito dopo la guerra. E infine, come tratto di umore, il rosario recitato tra malati d'una corsia, per convenienza, per ottenere tolleranza dalla suora infermiera dell'ospedale. E il terzo ospedale che abbiamo visto in un mese nei film italiani.
CORRADO ALVARO, Il Mondo, 22 marzo 1952)


martedì 1 dicembre 2020

Essenza degli antefatti


 L’ANTEFATTO NEL FILM

NEL PRIMO film muto si apriva largamente il racconto cinematografico per lasciar passare la rievocazione del passato, disposta tuttavia quasi sempre in forma parallela, non in profondità o su un piano diverso, secondo gli esempi della narrativa dell'Ottocento. Con l'avvento del parlato. troppo spesso il regista affida al dialogo, alle parole parlate e non alle parole visive, il racconto o l'accenno ai precedenti del personaggio e del fatto. Anche per questo aspetto del racconto cinematografico non si possono né si debbono fissare leggi rigide e assolute. Ma la spia fascista che in Pian delle Stelle, per spiegare la sua vita, racconta, dice, le fatiche, le umiliazioni di operaia in un cotonificio, non esprime l'umanità, che invece vorrebbe rappresentare. ln The Golden Salamamier (La Salamandra d'oro) di Neame, il bisogno di affetto e lo smarrimento sentimentale della protagonista, come la debolezza morale del fratello, si giustificherebbero soltanto con la conoscenza reale del turbamento della loro vita, passata, della loro fuga dalla Francia di Vichy, che invece appare soltanto nelle loro parole. I gesti di molti protagonisti degli ultimi film, sono irreali e falsi, tanto in senso umano e sociale quanto artisticamente, perché non hanno profondità, e preparazione. La studentessa anarchica di Au royaume des cieux (Nel regno dei cieli) di Duvivier, figlia di una ricca famiglia borghese, dovrebbe essere conosciuta nel suo ambiente, attraverso un episodio, o almeno attraverso un momento della sua vita o di quella dei genitori: così, le sue parole, i suoi gesti, come il suo suicidio, non si capiscono. In La cage aux filles (Le minorenni) di Cloche, la figura della protagonista si giustifica e il film in parte si salva, proprio per la presenza dell'antefatto, per le sequenze che raccontano e inseriscono la sua vita precedente, anche se non con sufficiente forza narrativa.

Nei due film di Radványi, Valahol Europaban (E' accaduto in Europa) e Donne senza nome, il meno infelice è il secondo (E' proprio sicuro il Varese? N.d.R) appunto perché conosciamo di alcuni personaggi la vita precedente, e con essa spieghiamo le reazioni sentimentali e gli stessi atti di questa vita. Invece in Valahal Eurapaban, quello che i bambini erano, non è mai detto visivamente, in modo preciso e connesso con la loro presente disperazione e con la loro speranza. Uno dei punti piú belli di Donne senza nome, è l’antefatto della polacca e della tedesca, il racconto della implacabile fredda e scientifica crudeltà della gerarca nazista, che sceglieva le ragazze polacche per i bordelli della Wehrmacht. In Edge of Darkness (La bandiera sventola ancora) di Lewis Milestone, la figura della polacca amante del capitano nazista non si capisce nel bene e nel male, non ha consistenza proprio perché non ci è raccontato, con immagini, il suo passato amaro e doloroso, il modo com'è stata costretta a quella vita.
Alla stessa maniera rimane scialba la figura del giovane collaborazionista, figlio del dottore: dalle sue parole sappiamo come a Oslo alcuni studenti, nel primo momento dell'invasione nazista, cedettero alla suggestione della propaganda, sappiamo come l’isolamento e il disprezzo già l’avessero colpito; ma una sequenza, dei fotogrammi che ci avessero raccontato tutto questo, potevano spiegarci il suo atteggiamento successivo, la sua rassegnazione, la sua ribellione e la sua morte espiatoria.
Anche nel film cecoslovacco Sirena, che pure procede talvolta anche troppo arditamente, certi momenti del racconto non si spiegano, perché le parole non bastano: l’operaio che si impicca lascia scritto in una lettera che i responsabili della sua morte sono i padroni della fabbrica, i quali l'hanno sfruttato e non l'hanno mai assistito. Ma una lettera, e le parole che noi ascoltiamo, non valgono quanto una sequenza, sia pure breve, inserita in un momento opportuno. I fuorilegge, di Aldo Vergano, poteva trovare un suo valore se il richiamo agli intrighi dei baroni separatisti e degli avvocati ambigui, avesse avuto una presenza nel film, per spiegare, o almeno giustificare, la “pietas” per il protagonista, che adombra la figura di Giuliano. Anche in Pinky (Pinky la negra bianca) di Kazan, la falsità del racconto è aggravata dalla mancanza dell'antefatto, del modo com'è cresciuta la ragazza, della sua vita nel Nord e via dicendo. Tuttavia. Anche senza antefatto il racconto talvolta può procedere stretto ed efficace, perché l’arte ha infinite vie e al critico tocca soltanto suggerirne e controllarne i modi e le possibilità. In The Long Voyage Home (Lungo viaggio di ritorno, 1940) di Ford, i personaggi con la loro tragica stona sono rappresentati anche se l’antefatto non viene mai raccontato visivamente: ma non sono le parole, sono i gesti, gli atteggiamenti, i fatti cinematografici che ci suggeriscono il dramma di Smith: la sequenza finale della moglie con i due bambini, che in gramaglie e composti, formano il corteo funebre, all'arrivo della nave, risolve in sé il problema dell'antefatto: in quello famiglia borghese e corretta, sentiamo espressa a tragedia dell'ufficiale degradato, anche se essa non ci è stata mai raccontata direttamente, con immagini.


Il cinematografo può valersi con grande efficacia e libertà del movimento del tempo e nel tempo, perché questa libertà è connessa alla sua essenza stessa. Talvolta il regista può raccontare il presente anticipando il tuto, o una varia, possibilità di futuro, come hanno fatto, per esempio, con fini diversi, ma con eguale felicità, Preston Sturges in Unfaithfullly Yours (Infedelmente tua) e René Clair in La bellezza del diavolo. Lo stato d'animo del marito sospettoso nell'opera di Sturges, e l’inquietudine di Faust sono espressi da questo futuro che, in forma comica, o in forma drammatica, è visto dallo spettatore. Se i registi si ricordassero piú spesso di questa libertà e si richiamassero con immagini, sia pure per scorci, e non con le parole, all'antefatto, molti film acquisterebbero non solo un maggior valore artistico, ma anche una maggiore vivezza e un maggior interesse narrativo.

CLAUDIO VARESE
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Anno III n. 1 - dicembre 1950

Pian delle Stelle, Giorgio Ferroni, 1946
Golden Salamamier (La Salamandra d'oro), Ronald Neame, 1950
Au royaume des cieux (Nel regno dei cieli), Julien Duvivier, 1949
La cage aux filles (Le minorenni), Maurice Cloche,1949
Valahol Europaban (E' accaduto in Europa), Géza von Radványi, 1942
Donne senza nome*, Géza von Radványi, 1950
Edge of Darkness (La bandiera sventola ancora), Lewis Milestone, 1943
Sirena, Karel Stekly, 1947
 I fuorilegge, di Aldo Vergano, 1950
Pinky (Pinky la negra bianca), Elia Kazan, 1949
The Long Voyage Home (Lungo viaggio di ritorno), John Ford, 1940
Unfaithfullly Yours (Infedelmente tua), Preston Sturges, 1949 
La bellezza del diavolo (La Beauté du diable), René Clair, 1950
 
* Sceneggiatore, tra gli altri, Corrado Alvaro


In apertura La cage aux filles (Le minorenni); di seguito Edge of Darkness (La bandiera sventola ancora) di Lewis Milestone e Linda Darnell e Rex Harrison in Unfaithfullly Yours (Infedelmente tua)































domenica 22 novembre 2020

PIU CHE NEOREALISMO


Qui non si tratta più di neorealismo. Il tema che si è dato De Santis lo supera, richiede invenzione, tanto
più che l’ispirazione del regista ha un’esigenza di narrazione del più alto ordine letterario. Difatti ha toccato il punto col personaggio interpretato da Carla Del Poggio, che apparirebbe la chiave della narrazione. Ogni atteggiamento di questa attrice, i suoi caratteri, quel tanto di astratto che ella ha nella fisionomia, fanno pensare che un più approfondito personaggio ella lo avrebbe portato bene avanti. Giacché la scala è crollata per il pigia pigia provocato da lei che è passata avanti a tutte le altre, ella si sente colpevole della catastrofe e della morte di una vittima. Qualcuno del pubblico trova esagerata la preoccupazione e l’ossessione di lei, ma forse perché lo stesso autore non ha approfondito meglio la crisi di questo personaggio. Egli aveva già fatto il salto, oltre il reale ma in una realtà più vasta e profonda e significava: la colpa della società assunta morbosamente da un`innocente e da una debole che si è salvata proprio perché ha usato del suo istinto di difesa. In mancanza di un personaggio, dopo che nella prima parte il personaggio era stato il coro delle ragazze, la seconda parte del film si contenta di una descrizione d'ambiente di ospedale, piuttosto trita, per arrivare a un dubbio effetto: la rivolta delle ragazze ricoverate che, oltre a tutto, devono anche pagare la degenza. Ed è qui che si spunta in una battuta di spirito la polemica, per tornare poi vigorosa nell'inchiesta che fa il commissario di polizia il quale non riesce a definire un colpevole della catastrofe, un colpevole legale, perché d'una colpa più vasta e generale è convinto anche se tace.
CORRADO ALVARO, Il Mondo, 15 marzo1952
In apertura Carla Del Poggio in Roma ore 11, 1952

giovedì 29 ottobre 2020

ROMA, ORE 11


Con Roma, ore 11, Giuseppe De Santis affronta per la prima volta il tema della città dopo i suoi tre film ambientati nella natura, che, quale più quale meno, contenevano brani che lo definivano e ne facevano una personalità distinta, pure tra una mezza dozzina di registi che ormai lavorano su un fondo comune: la condizione del popolo italiano. Per De Santis si potrebbe dire che egli ha un tema suo: la condizione della donna in Italia. Fra tanto parlare di problemi italiani, la donna italiana, con tutte le apparenze della protagonista vezzeggiata, lusingata, cantata, sopporta tutti i carichi d'una società che conosciamo: la prepotenza sulla debolezza, la violenza, il lavoro mal remunerato, lo sfogo d'un`erotica male indirizzata, i pregiudizi che si appuntano e fanno forza su di lei, l'intima povertà della casa. Ma della donna in questa condizione, De Santis ha pure un senso plastico; egli sa come questa plastica sia uno dei temi ricorrenti della nostra vita quotidiana, e così la condizione povera che egli ci descrive è sempre in qualche modo arricchita da quel certo lusso naturale che è la bellezza e la forma della donna. Per quanto gli si senta rimproverare l'eccesso di questa preoccupazione, essa è una scoperta tutta sua.
CORRADO ALVARO, Il Mondo, 15 marzo1952




 

mercoledì 14 ottobre 2020

Rashomon secondo Corrado Alvaro



Vi sono fatti, in Rashomon*, che forse noi non comprendiamo interamente, e prima di tutto la serie di tremendi duelli che arrivano al sadismo. Si tratta del motivo più comune della drammatica giapponese, con una terribilità che noi possiamo rintracciare nelle loro antiche stampe, di cui possiamo stupire per la furia e la crudele maestria fino a quando non sentiamo di aver raggiunto il limite della sopportazione, ma di cui non abbiamo il gusto. La nostra vera adesione va a molti atteggiamenti degli attori, della più alta facoltà d'espressione, d'una scuola quasi rituale, in questo dramma i cui bagliori di tragedia classica, d'una originale autenticità che fa violenza a molte convenzioni cinematografiche, si mescolano a elementi che ci sembrano più spuri, quasi dialettali e convenzionali.
Ma forse ci resterebbe da capire il rapporto che esiste tra questa vicenda e la situazione attuale del popolo giapponese, le allusioni a uno stato d'animo di questo dopoguerra. Ce ne sfugge la simbologia precisa, sebbene con un gioco di pazienza potremmo illuderci di ritrovarne il filo. Comunque, questo è il racconto di un'indicibile sofferenza, e la testimonianza d'un crollo di non pochi valori della vita.
CORRADO ALVARO, «Il Mondo», 8 marzo 1952
Akira Kurosawa, Rashomon (羅生門), 1950

*La porta nelle mura difensive










domenica 20 settembre 2020

La suggestione del travestimento tra le comparse del cinema




 

La suggestione del travestimento gioca ... scherzi. Forse è una consolazione tra le comparse del cinema che aspettano l'ora di pronunziare sia pure una parola per occupare un secondo la veloce macchina da presa e per affacciarsi un istante sul pubblico immenso e diverso delle sale di cinema, indossare un travestimento, simulare qualcuno; e so che spesso, accanto al dramma che si rappresenta, il personaggio che non parla ne porta in sé uno ben più umano. In una città straniera, uno studente del politecnico che aveva assunto in un film una particina da cameriere per arrotondare le sue magre entrate, venne a parlarmi durante un intervallo. Portava la salvietta sul braccio, e pur dicendo molte cose assennate e intelligenti non riusciva a contenersi altro che come aspettando i miei ordini.
CORRADO ALVARO
apparso su Cinema nel marzo 1937

 

 

mercoledì 5 agosto 2020

La seconda vita dell'attore




In ognuno che esercita un'arte si opera una deformazione professionale che è tanto più forte quanto più è raggiunta una personalità. Cosi avviene allo scrittore di proporsi di continuo problemi generali, storici, di costume, di morale; al pittore di scorgere il mondo come un insieme di volumi e di atteggiamenti trovando in essi i sostegni della sua concezione della vita e dell'arte; allo scultore di fondarsi su una certa qualità di forza fisica, e quasi bruta che lo soccorre nella sua lotta con la materia.
Negli artisti del cinema, per il fatto di procacciarsi una popolarità per mezzo della finzione e d'una finzione che ha bisogno di infiniti collaboratori, si nota un carattere continuamente sospeso a cause esteriori che essi non sono in grado di provocare né di dominare: dipendono essi dal direttore di produzione, dal regista, dall'operatore, dal truccatore, dal vestiarista, dall'uomo del montaggio, dall'ufficio pubblicità. Sono come bambini che hanno bisogno dei grandi. Solo che questi bambini del cinema non cresceranno mai e avranno sempre bisogno di qualcuno che fabbrichi la loro gloria. Gli attori del cinema sono del semplice materiale di cui si serve un creatore e un inventore di drammi e di emozioni.
Si accorre verso questo impresario di emozioni come verso qualcuno capace di dare una seconda vita e le miracolose parole per cui ci si trasforma in un’apparizione. Avendone avuto il sospetto, interrogai una volta varie attrici che lavoravano a un film. Quasi tutte mi confessarono di subire durante il lavoro un trasporto istintivo verso il maestro di scena nel momento stesso in cui si trovavano sotto il suo potere. Quasi sempre in questi momenti il maestro di scena dà del tu, quasi sempre l'ubbidienza o la riluttanza dell'attrice ha qualcosa della sottomissione o del capriccio amoroso; sempre si stabilisce un rapporto d'un erotismo tutto speciale tra il creatore e la creatura, e uno vince e l'altro si sottomette. Questa trasformazione è uno dei momenti più interessanti del lavoro cinematografico e contiene una certa parte di mistero, come in ogni operazione creativa.
CORRADO ALVARO
Film D'OGGI Anno 1 - n. 1 - 9 giugno 1945

In apertura Alida Valli sulla copertina di FILM, 14 marzo 1942 XX

mercoledì 1 luglio 2020

Miracoli da comparse


(Nel cinema) le seconde parti e le comparse non svengono mai e non piangono. A che scopo? Non circonda costoro l'attenzione cui si scaldano i primi ruoli lusingati a ogni rappresentazione da una corte osannante, e che hanno anche il diritto di dare spettacolo della loro debolezza. Ma una volta vidi un piccolo ruolo divenuto enormemente importante. Era una ragazza di diciannove anni che non si sapeva muovere e non sapeva dire quattro parole in fila. Questa volta doveva posare quasi nuda. Questa figliuola senza qualità tirò fuori tutto il suo tesoro che le aveva dato la mamma, i bellissimi capelli lunghi, le spalle bene modellate; arsero a scaldarla decine di migliaia di candele; e davanti agli occhi professionali degli operai, direttore, aiutanti, tra il silenzio di mistero che s`era creato nello studio, parve che ella compisse un sacrificio, qualcosa di molto antico, d'un rito barbarico. Fu la sua grande giornata, e per molte ore dopo la poveretta fu scossa da un lieve tremito continuo.
CORRADO ALVAROCinema nel marzo 1937




lunedì 8 giugno 2020

Greta Garbo's clothes

… ditemi se Greta Garbo nel Velo dipinto porti vestiti di sartoria o non piuttosto dei veri e propri costumi. 
Corrado Alvaro, Nuova Antologia 16 Aprile 1935







Richard Boleslawski, Greta Garbo, Herbert MarshallThe Painted Veil (Il velo dipinto),1934

domenica 31 maggio 2020

L'attrice ha bisogno di essere amata e adorata

… un'attrice ha bisogno di essere amata e adorata e farebbe qualunque cosa di cui è capace una donna per ottenere adorazione e amore. E’ capace di simulare una crisi come il bimbo può fingere un male per attrarre l'attenzione dei grandi. lo vidi una scena simile. Un'attrice entrava una mattina in teatro, l`ambiente era triste come sono i teatri di posa la mattina presto (gli operai battono e picchiano; l'ambiente è come un appartamento vecchio e sonnacchioso disabitato da tempo; fa freddo): l`attrice ebbe un'idea: svenne, per quello che io possa immaginare, finse di svenire.  Cadde di schianto in un angolo del salone di carta dipinta. In breve il teatro si rianimò, si accesero le lampade di qualche migliaio di candele per scaldare la diva, qualcuno accorse con un bicchiere d'acqua, altri sosteneva il suo dolce e truccato peso. Quando ella cominciò più tardi a recitare, regnava attorno a lei un silenzio di clinica.  Tra finzione e verità nessuno si diede la pena di approfondire se ella fosse stata veramente male; anche se avesse simulato, era in armonia con l’atmosfera degli studi, lo stesso che fosse stato vero. Come sapeva svenire, quest'attrice sapeva piangere. Non rido di queste cose poiché so che in arte l'atteggiamento fa spesso la funzione: una buona materia a un'artista figurativo, o un buon inchiostro odoroso e carta  buona a uno scrittore propiziano l’ispirazione, queste sono le emozioni quasi inconfessabili che aiutano l'artista nel suo lavoro e ne rendono dilettosa la strada. Che questa attrice, chiudendosi il viso tra le mani e rimanendo assorta nel silenzio dello studio riuscisse poi a levare, al cospetto di tutti, due occhi pieni di lacrime vere, pareva dapprima quasi inumano. Cosi accadde e sulle sue lacrime pronte e limpide la voce del direttore tuonò: Avanti si gira. Era penoso  ed era inesplicabile che la povera signora piangesse a dirotto, ed era altrettanto penoso che ci si affrettasse a lavorare perché ella avrebbe consumato entro mezz`ora la sua risei va di vere lacrime. A ogni intoppo o ritardo ella avrebbe dovuto compiere nuovamente la violenza di quel pianto su se stessa. Mi spiegarono poi, persone esperte in questi segreti, che per piangere quando si voglia basta rimanere qualche tempo a occhi sbarrati senza batter ciglio: non ci ho mai provato e lo dò per dimostrato: ma poi, nel caso della signora che piangeva in teatro certo s'inserisce qualcosa di umano, un dolore antico, una pietà di sé e dei dolori sofferti; insomma, alla fine il pianto diventa vero. Dico che era straziante e avevamo pena della signora come se tutti l'avessimo picchiata.  Ma accadde qualcosa di ancor più strano. Un'altra attrice, e naturalmente rivale di colei, la quale aveva giurato di non saper piangere altro che per una ragione vera e mai per artificio, dovendo affrontare anch'essa la parte lacrimosa, punta dalla felicità del pianto della sua rivale, scoppiò d`un tratto anch'essa in un piangere dirotto, si presentò in scena selvaggiamente felice di quelle lacrime che le scendevano dagli occhi. Cera un inconveniente per ambedue: bisognava ritoccare di continuo il nero delle ciglia che sbavava sotto le lacrime bollenti. Non si sentiva volare una mosca, nient'altro che lo sfrigolio del riflettore che nel gergo degli studi si chiama madama; tutti avevano un viso pietoso; quel duello femminile in cui si disputava una abilità artistica a colpi di singhiozzi, di lacrime ben grosse, di bellissime contrazioni di muscoli del viso, era sconcertante, assurdo, senza possibilità di conforto.
CORRADO ALVARO, Cinema nel marzo 1937 
In apertura, Clara Calamai sulla copertina di  Film D'OGGI Anno 1 - n. 1 - 9 giugno 1945

lunedì 25 maggio 2020

PVFF - Platì Virtual Film Festival - Second Season

Quando si dice che il film deve piacere al pubblico,
si enunzia grossolanamente una verità fondamentale
di ogni arte.
 Corrado Alvaro


 PVFF
Platì Virtual Film Festival
Second Season
Sotto gli auspici di Enzo Ungari



CORRADO ALVARO
o
il vero spettatore cinematografico
20 film da vedere assolutamente

Programma:
Altri tempi (Zibaldone n. 1), Italia 1952; Alessandro Blasetti.
L'amante del torero (The bull-fighter and the lady), USA 1951; Budd Boetticher.
L'Angelo azzurro (Der blaue engel), Germania 1930; Josef von Steinberg.
L'asso nella manica (The big carnival o Ace in the hole), USA 1951; Billy Wilder.
Atlantide (Die herrin von Atlantis), Francia-Germania 1932; Georg W. Pabst.
Aurora (Sunrise), USA 1927; Friedrich W. Murnau.
Bellissima, Italia 1951; Luchino Visconti.
I dannati (Decision before dawn), USA 1951; Anatole Litvak.
9 Diario di un curato di campagna (Journal d'un curé de campagne), Francia 1950; Robert Bresson.
10 Il dottor Caligari (Das kabinett des Dr. Caligari), Germania 1920; Robert Wiene.
11 Germania anno zero, Italia-Germania, 1947; Roberto Rossellini.
12 Luci della ribalta (Limelight), USA 1952; Charles Chaplin.
13 Metropolis (id.), Germania 1926; Fritz Lang.
14 1860, Italia 1934; Alessandro Blasetti.
15 Morte di un commesso viaggiatore (Death of a salesman), USA 1951; Laslo Benedek.
16 Rashômon (id.), Giappone 1950; Akira Kurasawa.
17 Risate in paradiso (Laughter in paradise), G. Bretagna 1951; Mario Zampi.
18 Roma città aperta, Italia 1945; Roberto Rossellini.
19 Salerno ora X (A walk in the sun), USA 1945; Lewis Milestone.
20 Sangue blu (Kind hearts and coronets), G. Bretagna 1949; Robert Hamer e John Dighton.
21 Telefonata a tre mogli (Phon call from a Stranger), USA 1952; Jean Negulesco.
22 Umberto D., Italia 1952; Vittorio De Sica.
23 Un uomo tranquillo (The quiet man), USA 1952; John Ford.
24 Verso la vita (Les bas-fonds), Francia 1936; Jean Renoir.
25 Viale del tramonto (Sunset boulevard), USA 1950; Billy Wilder.

Il cinema Corrado Alvaro lo portò sempre con sé. Accanto alla sua attività di romanziere, viaggiatore, giornalista e quant'altro, il legame col cinema non lo staccò, stancò mai: dentro l'industria dapprima e come saggista e critico dopo. I film riportati sopra ne sono un esempio. Quale più, quale meno sono sempre stati visti con l'occhio dello spettatore cinematografico più accorto. Le sue critiche erano tutte derivate dalla sua esperienza di scrittore ma anche di uomo vissuto. I suoi apporti critici a film come Diario di un curato di campagna, Morte di un commesso viaggiatore, Rashômon, Umberto D., Un uomo tranquillo, tra gli altri, letti con pieno coinvolgimento emotivo e con spirito libero. Le sue esperienze basilari di vita nella Grande Guerra e nella Germania di Weimar confluite dapprima nelle opere letterarie, le ritroviamo nelle recensioni de I dannati (Decision Before Dawn) e in Salerno ora X, schifoso titolo per l’edizione italiana di A Walk in the Sun e quando parla della nascita del mito di Marlene Dietrich in L’angelo azzurro. Negli scritti sul cinema un Alvaro poco ossequioso col potere specie quello ecclesiastico, ad onta di un fratello prete che probabilmente lo capì poco, lui a dover fare i conti con le città in espansione, don Massimo a Caraffa del Bianco dove ancora tutto era legato ai cicli della terra. Leggendo lo scritto sul capolavoro di Robert Bresson -  Diario di un curato di campagna - si intuisce la sua profonda conoscenza del mondo dei preti, sulla loro vita e missione. E qui voglio ricordare che don Massimo fu compagno in seminario di Ernesto Gliozzi il giovane e aiuto di Ernesto Gliozzi il vecchio, parroco in Casignana. Egli, per finire, fu uno dei pochi ad intuire la portata estetica e morale di un cineasta come Alessandro Blasetti - “l’amore delle idee generali, la prima dote che colpisce accostandolo; anche in chi come me, gli ha parlato per qualche istante una volta appena(1) - e a cui il cinema italico deve molto. Alvaro intuì l'importanza e i pregi di 1860 – “mostra quali risultati si possano ottenere in Italia sia pure con una certa economia di mezzi (2) - ben prima di Martin Scorsese.

(1 ) Su "Il Mondo", 15 novembre 1952
(2 ) Su "Nuova Antologia" 16 maggio 1934


Forse dopo Corrado Alvaro le critiche più originali le ritroviamo proprio in Enzo Ungari (1948 - 1985)

domenica 24 maggio 2020

La poesia di Limelight

Limelight si svolge in gran parte attraverso una vicenda affidata alla finzione teatrale. I numeri di varietà che vi sono inseriti, il sognato incontro di primavera con quel piumino da spolverare che diventa un mazzo di fiori; il numero del domatore di pulci; la canzone della sardina; il duetto finale con Buster Keaton, non sono tanto ritorni a motivi cari a Chaplin per fare spettacolo, quanto modi di proiettare la vicenda reale in una simbologia evidente, la fortuna e la sfortuna delle illusioni che offre il teatro. Vien fatto di notare che in passato, in molte scene comiche di questo genere, la truccatura di Chaplin era piuttosto amabile, la maschera cara an- che ai bambini. In Limelight, la truccatura non nasconde la faccia reale dell'uomo che lotta, trafelata e travagliata dalle competizioni con la vita, disperata, vendicativa. E un Chaplin che strappa il velo delle illusioni e mostra il viso dell'uomo sofferente che lotta per adempiersi. La poesia di quella finzione che è il teatro, cui questo film è il maggiore omaggio che fino ad ora abbia dato il cinema, è una delle doti più attraenti di Limelight. Il retroscena, la pedana del palcoscenico, la ribalta, sono in questo film paesaggi veduti con l'occhio di chi ne conosce le ore e i momenti come d'un paesaggio natale. E il paese di Chaplin. E la poesia che si leva dalla danza piena di trepidazione di Teresa, sulla pedana lucida come l'asfalto, mentre il suo creatore e amico e innamorato e padre trema dietro le scene, è il canto d'una vita che comincia, e che sotto il giudizio degli uomini, accigliato e infine vinto, sente di essere entrata
 come una forza nuova nel mondo, a prendere il posto di chi cade nella lotta. La conquista di niente altro che del diritto alla vita.
CORRADO ALVARO « Il Mondo», 3 gennaio 1953

mercoledì 20 maggio 2020

Corrado Alvaro: Il carattere di Charlie Chaplin


È la prima volta in Limelight (Luci della ribalta) che in un film di Charles Chaplin il protagonista muore. Ha successo finalmente ma muore. Negli altri, correva da insuccesso a insuccesso, la speranza chiamava la vita ed era la stessa vita. Sul valore della vita, l'eroe di Chaplin non aveva neppure il tempo di riflettere, era giovane, prendeva quello che poteva. Erano tempi di miseria ma il mondo era ricco. In quasi tutti i film di Chaplin è l'idea di una immensa ricchezza che si spreca; soltanto che essa non tocca al protagonista se non per caso o errore. Del resto, egli non fa conto di che cosa sia la ricchezza, non la valuta, non la invidia, non la desidera neppure; è un concetto che non gli entra nella mente; essa è lontana da lui come è lontana la luce del sole che lo illumina e lo scalda; ne profitta ma non ne misura la forza e tanto meno il mistero.
In genere, nei film di Chaplin non c'è rivolta né critica sociale; le si trova in Monsieur Verdoux, un film velleitario del falso o ingenuo intellettualismo degli istintivi, ma non 'nel resto. L'eroe di Chaplin accetta la società quale è, e anzi cerca di inserirvisi. Soltanto che è maldestro, buffo, impresentabile. C'è una differenza di razza tra lui e il detentore della ricchezza e della fortuna, in genere tardo se non stupido, in cui l’educazione è una forma di debolezza; e nei momenti in cui è generoso, pazzo o distratto o ubriaco. L'eroe di Chaplin è un errante e un vagabondo che non riesce, con tutta la sua buona volontà, a inserirsi in un sistema. A modo suo, sogna sempre la fortuna. La vita è una selva di persone che egli capisce, sì, con le loro debolezze e magagne, con una fondamentale inconsistenza, solidi per complicità, ma cui egli non riesce ad adeguarsi. C’è molto disprezzo nel modo con cui 'l'eroe di Chaplin vede la vita. Egli può disprezzare anche se stesso per il suo stato sociale ma non per le sue possibilità. Si disprezza nella sua presenza contingente ma non per quello che potrebbe essere. Gli altri li disprezza per quello che sono, nel loro carattere immutabile e nel loro atteggiamento fisso. Se mai, le maschere sarebbero loro, i regolari, non lui, l’irregolare. Essi sono la società, e questa società bisogna vincerla, adeguarvisi sia pure ingannandola più o meno ingenuamente. I potenti, in Chaplin, sono in genere anche fisicamente schiaccianti, grossi animali sopravvissuti alla preistoria dell'uomo: sono i violenti e i malvagi e gli avari e gli ingenerosi al confronto di un prodotto più debole ma più interessante della civiltà: l'uomo dotato di intelligenza e di umanità, starei per dire l’intellettuale. E Ulisse contro Polifemo, Davide contro Golia. Del tipo debole e scaltro, Chaplin ci presenta spesso un altro lato del carattere: l’incapacità di reggere a una fortuna grande o piccola che sia, il fatto di tradirsi diventando più goffo e più inopportuno; è un nuovo fallimento, e si ricomincia daccapo.
Corrado Alvaro su:« Il Mondo», 3 gennaio 1953

In apertura - 1944: Invecchiato, dignitoso, in apparenza impenetrabile, Charlie Chaplin si reca al processo intentato da Joan Berry per il riconoscimento di paternità di una figlia . Attorno a lui non è più la folla entusiasta che lo idoleggia da trent'anni. Egli è solo.

mercoledì 13 maggio 2020

Corrado Alvaro spettatore cinematografico


NOTA PER FINE DI STAGIONE

Intorno al carattere della nuova cinematografia italiana si sono avute le dichiarazioni al Senato di Galeazzo Ciano, a quei giorni ministro per la Stampa e la Propaganda.
Il cinematografo oggi è lo strumento di divulgazione, se non più duraturo, di efficacia più immediata. Se ne servono tutti i paesi per far propaganda alla loro storia, ai loro classici, ai loro costumi, alle loro idee.