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mercoledì 8 marzo 2017

Genesi di un narratore

C'è tutto un quadro di intelligencija russa, soprattutto letteraria, che coltiva da sempre questa ragioni dello spirito e della vita. E' impossibile prescindere da essa se si vuol intendere a fondo il messaggio poetico di Šukšin. Il catalogo che ora ne diamo. sommario e incompleto, v’è appena una prima indicazione di ricerca per chi voglia approfondire i nessi di questo salutare e fecondo rapporto tra una certa tradizione letteraria russa e Šukšin; e tra Šukšin scrittore e Šukšin autore cinematografico.
Il momento nodale della sua vocazione di autore lo trova al VGIK, alla scuola di Michail Romm, « autentico uomo di cultura » così lo definisce Šukšin, maestro di vita oltre che d`arte: « La sua voce sorda, paziente, a volte un po' rauca ›› è la memoria che l'allievo ha lasciato del maestro al momento della sua scomparsa [in Le film soviétique ››, 1975. n. 9. p. 31)  « di un uomo buono e stanco di ripetere agli altri le verità più elementari. Stanco, ma che non smette di ripeterle. Due di queste verità - la necessità della bontà e del sapere - erano per lui il tema principale dell'arte.  «Era molto paziente. Quando sono stato suo allievo non l'ho mai temuto, non ho mai avuto il rimorso di rubargli il suo tempo. Era molto buono con me e pensavo che ciò fosse naturale. Poi, quando ho cominciato a capire, ero stupefatto dalla sua pazienza. E mi è molto dispiaciuto, per esempio, di avergli dato da leggere le mie brutte novelle. « Ci insegnava a lavorare. A lavorare molto. Tutta la vita. Era da questo che cominciava il suo insegnamento. Ci ha raccontato quanto lavorava, e con quali difficoltà, LevTolstòj. E per cinque anni ci ha ripetuto: "Ragazzi, bisogna lavorare" E si è ficcata in me questa idea che bisogna lavorare, lavorare e ancora lavorare per arrivare forse a qualcosa. “Bisogna leggere", “bisogna riflettere": erano anche questi inviti a lavorare. “Provare ancora": sempre la stessa cosa, lavorare e lavorare. « Anche lui ha lavorato fino all'ultimo giorno. E' cosí che vivono gli
artisti, ora lo so perfettamente. Soprattutto quando ripenso a tutta la sua vita. E so con altrettanta chiarezza che il tema principale dell'arte è la necessità della bontà e del sapere ››.
Il marchio di Romm nella vita di Šukšin è netto e preciso. Dal maestro non solo apprende un metodo di lavoro, una proposta estetica e poetica [l'arte come epifania «della bontà e della sapienza), ma ottiene l'accertamento della propria identità umana. Tre anni appena dopo aver scritto queste parole Šukšin morirà. E solo la morte gli ingiungerà di « smettere di ripetere ›› alla gente le sue « verità elementari ›› con un potere di convinzione che la malattia ha reso più caparbio e persuasivo. La sua ostinazione, alla fine - per quanto è vero che ogni autore è postumo di se stesso - la spunta perfino, almeno in parte, sui burocrati che non han saputo capire il valore e la portata della sua testimonianza di anticonformismo.
Da Romm dunque, al quale ha dato in visione i suoi racconti, Šukšin riceve consigli ed esortazioni a insistere in campo letterario. A trent'anni. le sue prime cartelle gli sono accettate da « NovyiMir ››, la famosa rivista diretta da .Aleksandr TrifònovicTvardòvskij, che s'era rivelato grande poeta nel 1930, lui di estrazione proletaria, proprio con una raccolta di liriche sulla trasformazione della vita della campagna, «La via al socialismo ››. Quasi sempre prima di uscire in volume i racconti di Šukšin compariranno su questa rivista o sull'altra, « Molodaia 'Gvardija ››. Nel 1963, con il titolo « Sel'skieìiteli » (t.l. Abitanti di paese), i suoi primi racconti son raccolti  in volume. 
Due anni piú tardi darà alle stampe il suo primo romanzo, « Ljub viny » [t.l.: il due ›Ljubavin], che sarà ridotto per lo schermo nel 1972 col titolo La fine dei Liubavin. Nel 1970 esce una seconda raccolta di novelle, «Tam, vdalì ›› (t.l.: Là, lontano). Passa un altro biennio e compare il suo terzo volume di racconti, intitolati significativamente « Zemljaki ›› [t.l.: Compaesani, che è stato ora trascritto per lo schermo dagli amici di Šukšin.
A questo punto l'attività di Šukšin si intensifica in maniera straordinaria. Testimonia Gerasimov che Šukšin «possedeva un'inconsueta, inesauribile avidità di lavoro. ll ruolo era difficile, esigeva una continua presenza. Eppure in ogni minuto libero dalle riprese, egli scriveva. Scriveva sui pezzetti di carta che gli capitavano sottomano se non trovava nella tasca il quaderno di appunti. Scriveva velocemente, temendo che il pensiero gli scivolasse via, gli sfuggisse, si polverizzasse. Ed ecco che l'idea nasceva, trovava forma verbale, assumeva una precisa intonazione. Soltanto allora era soddisfatto: ma per questo bisognava fissarla velocemente. Sebbene Šukšin possedesse una memoria prodigiosa, tuttavia non se ne fidava, sostenendo, e giustamente, che la letteratura «è una forma d'arte in cui formulare un pensiero appena un po' approssimativo è in sostanza capovolgere le leggi generali, che si basano sulla scelta puntuale e sul legame preciso delle parole, in nome della precisione dell'immagine ›› « llskusstvo kino ››, 1975, 1, cit., p. 148). Continua dunque a scrivere per l'editoria e per il cinema interpreta film, ne prepara e gira i suoi. Vedono la luce il romanzo cinematografico « Ja prišel dat' vam volju ›› [t.l.: «Sono venuto a darvi la libertà), nel 1971; e nel '73 la quarta silloge di novelle, «Charaktery ›› [t.l.: l caratteri) e il racconto cinematografico «Kalina krasnaja › [t.l.:Il viburno rosso) che diventerà film nel 1974.
Nel '74 chiude con un'altra coppia di volumi di racconti: « Besedi prjasnoj lune ›› [t.l.: Colloqui al chiar di luna] e « Rasskazy ›› [t.l.: Racconti). Già le intestazioni della produzione letteraria di Šukšin - schiette, quasi ritrose nella loro semplicità -- sono indicative dell’orientamento di fondo della sua poetica. Non è solo la salubrità dell`aria, la genuinità della natura, la franchezza e la saggia bonomia della gente che abita la terra ad avvisare l'alterità che William Cowper, il pre-romantico inglese, avvertí profondamente in mezzo ai suoi melanconici terrori sintetizzandola nell'apoftemma “Dío fece la campagna e l'uomo la città".
Per Šukšin la città è la residenza della lucida razionalità della programmazione, della geometria e della standardizzazione. La campagna è il luogo primordiale del buon senso, del sentimento, dei
moti teneri e bruschi del cuore; è il luogo della spontaneità e insieme della fedeltà ad un archetipo sociale che fortifica e rinfranca il carattere dell'uomo e lo scampa dalle seduzioni di un mondo illustrato ma volubile, facile ma subdolo.
E' questa la nota dominante dei suoi racconti [soprattutto in « Là lontano ››] e di tutti i suoi film, in particolare dell'inedito da noi Peöki-lavoöki ›(t.l.: Stufe-panchine, 1973].
Non che Šukšin si lasci imbecherare da quelle che Sinisgalli chiamerebbe le moine della natura. Šukšin sente la campagna virilmente come termine di riferimento etico, come sede della pulizia, non solo ecologica ed atmosferica, ma fisica, psichica e morale.
Pensiamo ad una delle sequenze conclusive di Vaš syn y brat. Il padre e i due figli sono sulla riva del fiume Katun, antico spettacolo dell'acqua diversa e impassibile, immagine - per ricordare Melville -dell'inafferrabile fantasma della vita. Il fiume giudica il vecchio, la vita sua che declina. E il vecchio giudica i due figli: il piú  giovane, Vassia, che è rimasto fedele alla terra e gli lavora la campagna, e il maggiore, lgnati, che ha scelto la città e s'è messo bene con la sua palestra di ginnastica per adulti. ll vecchio, quotando la forza fisica dei due figli, vuole che la misurino nella lotta, come facevano quand'erano ragazzi. Vassia prevarrà e darà conferma al padre: il vigore fisico speso in città è un vigore sprecato. Ma Vassia, il fedele, il buono, il timido Vassia si schermisce: è piú possente, è evidente, ma non si fida fino in fondo della sua forza, soffre d'inferiorità di fronte alla vigoria « razionalizzata » del fratello. il confronto non ha luogo. Il padre è deluso, Vassia rimpiangerà l'occasione perduta.
Ma la sua “superiorità” non viene scalfita dalla prova mancata. Proprio perché non c’è bisogno di prova. Chi fatica, chi soffre, quello è superiore: Antòn Pàvloviöc Cèchov registra in questa fase un decreto esistenziale che nessuno nega. E la terra non accorda sconti alla fatica. Dà e riprende a misura di come e quanto è servita.
E' il motivo secolare della iustissima tellus: mentre chiede, rende a misura, imparzialmente, forza, sapienza, bontà.

Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, lugio/agosto 1976

domenica 12 febbraio 2017

Racconto letterario e racconto iconico


«Per šukšin letteratura e cinema erano in sostanza un unico processo. E proprio in questa unità veniva alla luce, nella sua forza dirompente, il suo talento››.
La testimonianza di Sergej Gerasimov («lskusstvo kino», 1975, 1, p. 146-149, passim) sancisce la triplice modulazione espressiva della Erlebnis dello scrittore siberiano: interpretazione scenica, letteratura, cinema d'autore.
Un’interpretazione scenica è però accidentale rispetto al suo ruolo di autore, sulla pagina e sullo schermo. Accidentale nel senso di mediativa: la letteratura - testimonia ancora Gerasimov - è stata per lui il tramite più prossimo e immediato per spiegarsi col proprio lettore sugli avvenimenti che turbavano il suo animo: ed
ecco perché le sue pagine si distinguono per l`inconsueta leggerezza e libertà, sia nella scelta del tema e del materiale, sia nella forma dell'espressione artistica ››. E sono sceneggiature, racconti e romanzi (verbali e iconici), quelli di šukšin, che mancano totalmente di letterarietà, nel senso sveviano del termine: inutile e dannoso orpello, raffinata tautologia.
Essi sono scanditi in una lingua quella paesana arcaica, nella sua regione del'l'Altaj - cosi diversa da quella standardizzata del cittadino medio che vive in città: una lingua «bella, flessibile a cantilena », come lui la chiamava (intervista con C. Benedetti in « Nuova 'Generazione ››, n. 179, 28.9.1975, passim) e serrati in una sintassi essenzialmente paratattica. Hanno una struttura piana, elementare, quasi salmodica, cioè rincalzante, mai ellittica. Una struttura che da un lato ripropone i moduli della cultura contadina, lineare e continuativa, fatta di esperienze sedimentate nei secoli e prolungata e accresciuta di generazione in generazione con metodica chiarezza; e che dall'altro espone le condensazioni dell'Erlebnis, cioè la somma del vissuto di Vasilij Makàroviö: e non solo il vissuto “storico”,l'agglutinamento già sciolto delle sperimentazioni culturali, istituzionali, immaginative, oniriche, sentimentali; ma tutto quanto alla fine converge, attraverso il filtro della sensibilità, nella coscienza e che diventa _-per usare parole di šukšin -«forza del cuore » (C. Benedetti, int. cit.)
E la sensibilità, instimolata dall'ispirazione, torna ad attivare le fondazioni della coscienza e le « risolutive » forze del cuore nell'espressione artistica. In šukšin avviene con maturità e interdipendenza di manifestazioni - il racconto verbale e iconico e la mediazione drammaturgica - e con una piana saggezza che possiamo definire esiodea.
Di Esiodo šukšin ha la stessa forza di convinzione. La convinzione profonda di chi si sente portatore e custode d'una saggezza antica e insieme di una fede nuova che esige però mediazioni prudenti.
Per Esiodo il termine di fede fu la dike democratica che sottentrava alla società omerica, aristocratica, feudale e guerriera; per šukšin è la metanoia socialista che ha sgominato la società aristocratica feudale e guerrafondaia degli zar: e di questo fa argomento di discorso, e infine di poesia.
Come il sistema teologico-morale che Esiodo annuncia «è agganciato alla dike -personificazione numinosa del costume che fonda un ordinamento sociale come necessità, e insieme personificazione giustificatrice della vittoria di Zeus, che è il nume della serenità pacificatrice, tutore delle leggi tradizionali, della liberta politica e delle norme morali - così il sistema etico di šukšin verte sulla riconferma del valore decisamente storico e storicamente decisivo del socialismo nella terra russa; e sulla necessità di comporre e armonizzare, nel quadro di cambiamento di mentalità che ogni rivoluzione comporta, nuove forme di vita associata in cui la saggezza secolare degli uomini della terra «[nei primi anni della rivoluzione ancora l`ottanta per cento dei russi eran contadini) non sia travolta e guastata dalle irrequietudini e dagli scompensi che seguono all'inurbamento e al brusco aggiornamento industriale e tecnologico.
Ma non c’è antagonismo - šukšin ha ripetutamente insistito su questo anche nella intervista pubblicata postuma da Benedetti, proprio per rintuzzare quei critici che lo censuravano con queste motivazioni [in: «Nuova generazione ››, n. 179, cit., passim) - tra città e campagna. E' una semplificazione di comodo, dice Vasilij Makàrovic. Una riduzione che non regge.
« Quando i critici mi chiamano “scrittore contadino" non hanno ragione perché con una etichetta del genere rendono più stretto del reale il senso e l'importanza di questo fenomeno. Comunque a me piacciono quei cosiddetti "scrittori contadini" perché sono persone oneste. So bene che se arrivano in alto, ad occupare posti di scrittore o letterato, è perché hanno talento. Cioè la loro promozione non avviene a caso. Anzi, mi sembra che si possa parlare di un vero e proprio corso obbligatorio. L'arrivare, nel campo della letteratura, è una conclusione logica e necessaria. Forse, per questo, sono scrittori più naturali e piacciono al nostro lettore di oggi. Certo, ora, io non voglio fare dei confronti. Non sostengo intatti che gli scrittori "cittadini" non sono in grado di creare veri valori letterari. E del resto non voglio nemmeno usare questo termine di “scrittori cittadini" che, come quello di “scrittori contadini" è troppo stretto, offensivo ››.
Epperò -- fatto salvo questo "distingue" - è presente indubbiamente in šukšin, nella sua opera letteraria come in quella cinematografica, una tenace e appassionata “religione”. La religione tutta esiodea della terra che nasce dall'amore per essa e che la madre terra nutre di generazione in generazione a misura del sudore ch'essa riceve.La fertilità della terra insemina questa religione - religione intesa nel senso di una struttura solidale di credenze e di valori vissuti che hanno il potere di religare una certa comunità umana - la quale nutre, accanto alla custodia di tradizioni vetuste, una profonda esigenza di giustizia, e l'amore al lavoro, e la costanza della fatica; ed anche quel sobrio e burbero portamento, che questa gente si reca addosso e che Vasilij Maikàrovië allega alla quieta faccia dolorosa dei suoi ultimi anni, quando già il male mortale lo insidiava e quando una tranquilla inquietudine gli trascriveva sul viso la domanda più volte ripetuta: «perché vivere se non si sa quando si muore? ”
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

mercoledì 11 gennaio 2017

INTRODUZIONE ALLO STUDIO DI VASILIJ SUKSIN

La scoperta di Šukšin è stata uno degli episodi eminenti della Biennale cinema '76. Di più: si può dire senza enfasi che s'è trattato d'una rivelazione. Ora sappiamo che accanto ad Andrèj Tarkòvsikij il cinema sovietico può scrivere oggi a referto nella storia del « cinema che resta ›› anche il nome di Vasilij Makàrovic Šukšin.
Quarantacinque anni corrono tra l'alfa e l'omega della sua esistenza: 25 luglio-1929, villaggio di Srostki nel territorio dell'Altaj nella repubblica russa, sezione meridionale della Siberia occidentale; ottobre 1974, villaggio di Kletskaja, provincia di Volgograd nella repubblica russa, per un attacco d'ulcera perforante, male di cui soffriva da tempo: erano in corso le riprese di Oni sraía/is' za rodinu {t.l. Hanno combattuto per la patria) di Sergej Bondarëuik, dall'omonimo romanzo di «Michail šòlochov. E' sepolto a Mosca, dove viveva con la moglie, l'attrice Lidiija Niikolaévna Fedosséva e le sue due bambine.
La fanciullezza l'ha vissuta in campagna. La grande guerra nazionale contro il nazismo lo costringe ad interrompere gli studi. A quattordici anni va a lavorare. Nei kolchozy fa il bracciante, il muratore, lo scaricatore, il fabbro. Quando è il momento, presta servizio militare in marina. Poi fa il direttore della scuola serale per la gioventù operaia nel villaggio natio: il legame con la terra è ininterrotto, appassionato. Nel '54, a venticinque anni, tenta |'avventura a Mosca. Vorrebbe studiare all'Istituto di letteratura. Gli si rifiutano gli esami di ammissione, perché non ha pubblicato una riga.
Tenta la sorte all'Istituto di cinematografia. Il VGlK è l'“accademia" cinematografica più antica del mondo: ha fortuna, è ammesso ai corsi di regia nella classe di Michail ll'iö Romm, l'autore di Pyška [Boule de suif] e di Deviat' dnei odnogo goda (t.l.: Nove giorni in un anno).
Esce diplomato a trentun anni, nel 1960. Comincia a lavorare per il cinema come attore e come sceneggiatore. Intanto si afferma anche come scrittore con racconti e romanzi che si ricollegano alla grande tradizione della letteratura «contadina››.
Interpreta un film dopo l'altro: Dva Fëdora {t.l.: I due Fiodor] di Marlen Chuciev, 1959; Zolotoi ešelon (t.l.: Il convoglio d'oro) di l|'ja Gurin, 1959; Prostaia istoriia [t.l.: Una storia semplice) di Jurij P. Egorov, 1960; Alénka di Boris V. Barnet, 1962; Kogdà derev'ia byli bol'šimi (t.l.: Quando gli alberi erano grandi] di Lev. A. Kulidìanov,1962; tra gli altri, Miška, Serëga I ia [t.l.: Miska, Serega ed io] di Georgij S. Pobedonoscev, 1962; Kommandirovka [t.l.: Missione di lavoro) di Jurij P. Egorov, 1963; My, dvoe muãöin [t.l.: Noi, due uomini) di Jurij Lysenko, 1963; Zurnalist [t.l.: ll giornalista] di Sergej A. Gerasimov, 1967; Muìskoi razgovor [t.l.:Discorso di uomini] di Igor' šatrov, 1969; U ozeru (t.l.: Sul lago) di Sergièj A. Gerasimov, 1970; Oni sraìalis za rodinu {t.l.: Hanno combattuto per la patria) di Sergej -Bondaröuk, 1974.
Nel 1964 incontra sul set di Com'è il mare?, Lìdija Fedoséevna, allieva di Gerasimov al VGIK e debuttante già nel 1969 in Compagne di Vasilij Ordynski. Si sposano. Per otto anni Lìdija rinuncia allo schermo per badare alle bambine, salvo una breve comparsa in Bratka, primo episodio di Strana gente. Vi ritorna con Peški Iavoãki (1972), su insistenza del marito. E' anche la protagonista femminile di Kalina krasnaia (1974).
La morte impedisce la realizzazione di un nuovo film che Šukšin preparava sul suo romanzo di tre anni avanti, « Sono venuto a darvi la libertà ››, incentrato nella figura di Stepàn Razin, il cosacco che sotto il zar Alessio Romanov (1645-1676] coinvolse i contadini in una jacquerie sul Volga, una rivolta che scosse la sicurezza del potere moscovita (1670-71). Domata la rivolta, Razin fu giustiziato entrando così nella leggenda contadina come campione dell'affrancamento del servi della gleba e come anticipatore della rivoluzione sociale. Sarebbe stato il suo sesto film da regista in dieci anni, dopo Zivêt takòi pàren '(1964), Vaš syn ibrat (1966) e Strannye I/'udi (1969).

Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976




lunedì 19 dicembre 2016

Живет такой парень, Così vive un uomo,1964

La poesia filmica: «Così vive un uomo»

Sulla strada per Baklan un camion diretto verso un kolchoz accoglie un automobilista in panne; è il presidente del kolchoz del villaggio List-via/nka, Prokhòrov.
L'autista del camion, «meccanico di seconda categoria » Paška Ergòrovic Kolokòlnìkov, ventisettenne, scapolo,si lascia convincere a mutare destinazione al suo viaggio e a seguire il suo passeggero nel villaggio di Li'stvianka. Il suo camion servirà per trasportare il legname.
Nel corso di un ballo nel kolchoz Paška incontra la bibliotecaria, Nastia. Balla con lei e suscita la brusche gelosie dei vecchi compagni della ragazza.
Nel corso di una visita in biblioteca, Paška fa la conoscenza dell`innamorato di Nastia, l'ingegnere Zena: i tre fanno amicizia e si recano insieme ad una sfilata di modelli autunno-inverno prêt-à-porter, che si svolge la sera in una sala del kolchoz.
Dopo un'incursionie notturna in casa di Nastia, Paška si rende conto che la ragazza gli preferisce l'ingegnere. Rivolge allora le sue attenzioni in altre direzioni. Cerca di agganciare Ekaterìna, una donna divorziata per colpa del marito che beve troppo. La donna lo resipinge, rimproverandogli la sua fantasiosità, così prossima alla scapataggine.
Paška decide di presentare un suo maturo compagno, 'zio' Konrad, a 'zia' Anussia, con l’intenzione di fargliela sposare. Dopo una gustosa schermaglia, gli riesce di «mettere d’accordo 'zio' Konrad Stepànovic e Annussia.
Paška si reca poi al deposito di carburante per caricare dei bidoni di benzina.
Mentre si trova al bar, il suo camion già carico prende fuoco. Il giovane riesce a scostarlo dalle altre autocisterne e a gettarlo nel fiume prima che esplode.
ll deposito è salvo, lui 'si ritrova all’ospedale con una frattura al femore.
E' qui che gli capita di raccontare agli altri malati le sue immaginarie avventure sulla luna. Da quei momento viene considerato un eroe. Riceve la visita di un'inviata di -« Novyi Zurnal » (La nuova rivista), che lo intervista. Nel dialogo col maestro malato e negli ultimi due sogni, Paška si chiede che cosa sia la felicità. Gli si risponde: “E' ridere, piangere, perdonare di cuore”. Paška conclude che mette ben conto continuare a vivere.

ll primo film di Šukšin, ricavato, come gli altri, da racconti da lui scritti e pubblicati, ebbe subito una consacrazione. Quella autorevole di Venezia, anche se nel 'ghetto' della mostra del film per ragazzi. Relegazione incomprensibile se non fosse per quell'aria di novelletta “edificante” e buffonesca che il film si tira dietro e che gli valse in patria clamorosi biasimi dalla critica ufficiale, ma anche il primo premio per la "miglior commedia dell'anno" al festival nazionale di Leningrado.
Pensato e costruito come opera drammatica da Šukšin, Zivët takòj' pàren' fu preso per un film brillante, se non addirittura "comico".
E si ebbe reprimende spocchiose e balorde: «E' inammissibile che si glorifichi l'incoltura del protagonista in una società in cui tutti studiano; che si predichi il buonsenso in un tempo di grandi rivoluzioni sociali; che si pretenda di trovare il senso della vita nelle semplici gioie della natura ›› (Lev Anninakij, “Le film soviétique”, 1972, 9, p.35).
 Šukšin non se la prese. Poteva avallare la classificazione del film tra le commedie buffe. Non si rendeva conto di come e perché fossero scattati questi meccanismi di fraintendimento. Con una scontrosità e un amor proprio tutto contadino risolse semplicemente di attenuare quel suo modo naif di articolare il proprio mondo narrativo, nel quale la natura non è già decorazione di sfondo o elemento esornativo ma è l'ordito stesso della narrazione; mentre i personaggi ne sono la trama.
La natura, nei film di Šukšin, fa corpo con la gente; si anima per essa e con essa. Essa è la situazione del personaggio: così come il personaggio è la persuasione della situazione. La vita è totalizzante, fantasiosa e buona, anche quando si fa esattiva: «dobbiamo pagare per tutto nella nostra vita» è il leit-motiv di Kalina krasnaia, ultimo film di Šukšin, che offre anzi la più efficace drammatizzazione di questo tema. Drammatizzazione che viene confermata da quel tono di tenerezza estrema che inarca il film e dalla forza di convinzione assoluta che il discorso dell'autore ti lascia addosso: come ogni discorso pensoso di chi, sa di dover abbandonare per sempre la realtà delle cose care.
Zivët takòi paren' ebbe, a Venezia una motivazione d'onore piuttosto azzeccata: « Il film russo offre al bisogno di identificazione dell'adolescente la figura di un giovane che, pur caratterizzandosi in atteggiamenti tipici della sua età, non si chiude in schematismi, anzi si afferma in una ricca le complessa umanità”. Questo paradimma vale però non meno (diremmo: primamente) per il mondo adulto. Il film è parabola d'una ricerca d'identità.
L'Erlebnis di Šukšin affiora qui imperiosa: il vagare di Paška di luogo in luogo alla ricerca di se stesso e di una stabilità esistenziale - le sue allegre scapataggini, quel suo festoso cicalare, quegli ininterrotti approcci di colloquio sono indice d’insicurezza -, quel suo andare in caccia della donna ideale che sostanzi e confermi
la sua consistenza di uomo, divengono materia trasfigurata di poesia. Ed erano (sono) l'esperienza del Šukšin giovanetto che lavorava nei kolchozy, che vi si provava in molti mestieri, che cercava attraverso questa esperienza di colmare il gap di cultura con gli scolarizzati, lui che aveva dovuto lasciar la scuola a quattordici anni. L'irrequieto ed estroso viaggiare di Paška sul suo autocarro da una parte tradisce il suo bisogno di far presto, di recuperare il tempo perduto: non è dunque una fuga, la sua, ma una ricerca; non è un abbandonar se stesso, è un perquisire, un inseguire se stesso. E insieme è l'occasione per fare un inventario del mondo che lo circonda, per ispessire i rapporti tra fantasia e realtà, per capire il proprio ruolo in una società che cambia.
E' la furbizia contadina a farla da protagonista. Questo misto di buon senso, di cauta avventatezza, di fiuto delle occasioni possibili, di pazienza dell'attesa, di impulsiva capacità di reazione alle provocazioni delle circostanze è istinto vitale, è sobrio amore alle effervescenze della realtà, è elogio di un mondo asseverato, quello contadino. E' ripugnanza fisica verso la stupidità che nutre invece certi sciocchi intellettualizzati. Il confronto finale fra la giornalista e Paška, all'ospedale, sulle ragioni che l'hanno spinto all'atto “eroico"è emblematico. «L'ho fatto - dice |Paška - perché son stupido ›› A domanda idiota, una risposta che dice il nome di uno dei peccati mortali dei mass-media, banalità, ovvietà, stupidità.
E' stato giusto rimarcare (Lev Anninskij, cit., p. 34] che la finta stupidità di Paška è l'impulsiva difesa dell'uomo nelle situazioni singolari, eccezionali. Paška si schernisce per l'impresa: che è eccezionale solo secondo i cliché di comportamento d`una società che ha formalizzato al massimo i suoi rapporti interni e che inventa i suoi "eroi" solo quando li sorprende in una situazione “abnorme”, rispetto al mansueto quadro convenzionato delle sue sicurtà. L'ironia di Paška è la più spontanea manifestazione di quel pudore “contadino” che pervade tutto il film e che esplode in quella deliziosa 'novella' che è il “tentativo a buon fine” che 'Paška fa ,di combinare un'unione tra il maturo “zio' Konrad e la pacioccona 'zia' Anissia.
Konrad è un'ipotesi di Paška adulto: un vagabondo disposto ormai a barattare la sua pesante libertà con il caldo di una casa, con del buon cibo, sicuro, ben cotto e saporito.
La scena è un capolavoro di finezza psicologica nel pieno rispetto dell'id-entità goffa e scontrosa dei due personaggi. Paška è il folletto che saltella a infiorare un dialogo di reticenze e d'intese che si fa subito sicuro, spedito e godibile dopo il primo, sospeso approccio.
E l'interprete, Leonid Kuràvlëv, che sembra rivoltato nella parte sarà presente anche nel primo episodio di Vaš syn i brat; e dichiarerà di non essersi mai potuto esprimere con altrettanta felicità e facilità che con Šukšin (Lev Anninskij, cit., p. 33)- anima questo ben azzeccato ruolo di king's fool - ove il sistema collettivistico sta per il re - di stravagante ed eccentrico antieroe, quasi a sermoneggiare sottovoce (in un pianissimo che si deve estinguere quasi inavvertito) sulla destinazione di ogni inquieto cercare e di ogni burlesca ripulsa. E la destinazione è la casa di campagna. Essa le luogo della pace, la sede della stabilità. La casa fa corpo con la terra. E la terra non tè infedele.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976



giovedì 1 dicembre 2016

в конце mужик, в конце кино - La fine del mužik, la fine del cinema




A PARTIRE dalla metà degli anni sessanta del secolo della bomba atomica quanti frequentavano i Cineforum o i Circoli del Cinema cominciarono ad interessarsi di Andreij Tarkovskij. A ripensarci, e nulla togliendo alla poesia di Tarkovskij, ci si accorge, ora, che era un autore facile ed adattabile all’occidente meccanizzato fruitore di mode effimere. Alla sua fama Andreij Tarkovskij diede un contributo non indifferente con opere di vario genere. Il continuo viaggiare per motivi di dissenso ideologico con il potere centrale dell’URSS lo rese famoso nei salotti di tutta Europa. Per fortuna l’Andreij non perse la sua anima russa. Egli divenne preda, così, degli uffici stampa che cercavano di contrapporlo con chi la Russia non l’abbandonò mai. E in quel tempo il cinema russo era vivo e vegeto come dimostrano ancora oggi le opere di Elem Klimov, Marlen Hutsiev, Serghei Bondarchuk per citare che pochi. Quel cinema era in fermento anche per l’opera letteraria, cinematografica, e alla presenza scenica, di Васи́лий Мака́рович Шукши́н, Vasily Makarovic Shukshin. La Russia, anzi le Russie, di quel tempo erano ancora legate alla terra ed a un drammatico passato recente come la Seconda Guerra Mondiale. Da questo traeva origine l’arte di Vasily Makarovic. E meglio ancora dall’urbanizzazione inarrestabile dei mужик, mužik, che andava perdendo, per questo, la sua identità come il senso di appartenenza alla terra ed alle stagioni che, per ricordarlo, in quelle regioni sono corte per via dell’innevamento che occupa buona parte dell’anno.
L’opera di Vasily Shukshin è caratterizzata dal breve tempo della sua esistenza terrena essendo scomparso, a soli quaranta cinque anni, mentre ancora era nell’alba della sua maturità artistica. È successo però che, da quel momento, la sua influenza non si è arrestata. I suoi lavori letterari, per lo più racconti, hanno continuato ad essere trasposti sullo schermo, a volte con la presenza della moglie Ли́дия Никола́евна Федосе́ева-Шукшина́ Lidiya Fedoseeva-Shukshin, fino ai giorni nostri.
Se vi è una perdita nell’opera di Shukshin va trovata solo – l’ho dedotto solo in questi giorni visionando varie trasposizioni cinematografiche più recenti - nella natura del supporto da cui traggono origine le immagini. La pellicola era il vero, naturale appoggio biologico per una trasposizione corretta del pensiero di Vasily Makarovic, essendo il supporto digitale dei giorni nostri alquanto privo di anima.

Breve filmografia di Vasily Shukshin:

come regista
 Из Лебяжьего сообщают, Dal rapporto Lebiazhie, 1960,film di laurea
Живет такой парень, Così vive un uomo,1964
Ваш сын и брат, Vostro figlio e fratello, 1965
Странные люди, Strana gente, 1969
Печки-лавочки, Il viaggio di Ivan Serghevic, 1972
Калина красная, Il viburno rosso, 1974

principali trasposizioni letterarie
Пришёл солдат с фронта, Tornano i soldati dal fronte,1971
Конец Любавиных, La fine di Lyubavin, 1971
Земляки, Connazionali, 1974
Позови меня в даль светлую, Chiamami da lontano,1977
Праздники детства, Vacanze d’infanzia,1981
Крепкий мужик, Uomo forte, 1991
Охота жить, Caccia libera, 2014




domenica 13 novembre 2016

Letteratura come Cinema come Letteratura


Васи́лий Мака́рович Шукши́н
Vasily Makarovich Shukshin
25 luglio 1929 – 2 ottobre 1974
Fu tra gli artisti di maggior talento che lottarono per descrivere il presente. Ebbe il coraggio e la forza di mostrare sullo schermo il vero muzhik sovietico e il suo mondo, e non la sua consueta falsa immaginazione. Gli spettatori sovietici gli furono riconoscenti per questi frammenti di vita vera, e Vostro figlio e fratello (1966), come pure il suo episodio inserito nel film Strana Gente (1971) divennero dei grandi successi. Scrittore, attore oltre che regista, Shukshin si lasciava solitamente coinvolgere da ogni aspetto dei film che dirigeva. Ottenne il suo più grande successo con Il Viburno Rosso (1973), il racconto veramente inconsueto di un ex carcerato e dei bassifondi sovietici da cui emanava la sensazione che la vita urbana moderna è una fonte corruttrice di malvagità e che è possibile ritrovare una sana moralità soltanto ritornando alle proprie radici nella campagna eticamente pura. In ogni caso, il meglio del suo genio fu espresso nel campo della letteratura, cosa che ebbe ovviamente a influenzare anche la sua concezione di cinema.

Mira e Antonin J. Liehm in Il cinema nell’Europa dell’Est 1960 – 1977, La Biennale di Venezia/Marsilio Editori, 1977

mercoledì 18 novembre 2015

Sperduti nel buio del fotogramma



Come tutte le cinematografie anche il cinema in Giappone ha guardato, dagli inizi, al mito, alla tradizione e alla letteratura del passato. A partire da Teinosuke Kinugasa fa di più, esplora il fondo tenebroso della mente. Con A page of madness (Kurutta ippeiji, 1926) e Crossroads  (Jūjirō, 1928), riportiamo i titoli in inglese perché più facile il loro reperimento, non è altro che uno sprofondare nelle zone nere del cervello ma anche della fotografia. La trama serve da base per poter sperimentare all’infinito con la grammatica del cinema. Il resto in Giappone lo facevano i Benshi (弁士) che, in sala,  durante la proiezione, conducevano gli spettatori alla visione dei film . Agli spettatori di oggi che li guardano senza didascalie, o se vi compaiono sono negli ideogrammi originali, è lasciata la libertà di immergersi a loro piacimento nel caos delle immagini carpendo un’esile canovaccio per collegare il tutto. Gli studenti di cinema,  per parte loro, scorgono delle influenze di volta in volta francesi, tedesche e russe. Secondo noi solo per il motivo di aver assistito prima ai capolavori venuti fuori da quei paesi. Questa tesi la si può rovesciare a favore del cinema  “ made in Japan “.

mercoledì 28 ottobre 2015

Who is the little guy?



 Continuando il discorso intrapreso sul passaggio dal cinema muto a quello sonoro ecco due film più che rappresentativi dell’epoca d’oro hollywoodiana, prodotti nello stesso anno, 1928, l’uno per la ditta MGM, l’altro per quella Zukor/Lasky. Il film di Joseph Von Sternberg e quello di King Vidor ci offrono l’occasione di vedere con gli occhi, stando alle spalle degli operatori alla macchina, cosa accadeva durante la realizzazione di un film, sia esso drammatico, quello di Von Sternberg, sia esso comico, quello di Vidor. I due suscitano profonde emozioni al limite del pianto che si trasforma in rimpianto: il fremito finale di Emil Jannings in The Last Command (Crepuscolo di gloria), la richiesta dell’autografo da parte di Charlie Chaplin alla protagonista di Show People (Maschere di celluloide) Marion Davies. Nelle due opere citate Joseph Von Sternberg si fa rappresentare in scena da William Powell, King Vidor appare “ live “.


 

lunedì 19 ottobre 2015

Dr Paul Fejos

Per rendersi conto a che punto fosse arrivato il cinema muto prima dell’avvento sonoro, basta assistere alla visione di due film realizzati da Pal, Fejos sul finire degli anni 20 del secolo passato. Nei loro confronti Nanni Moretti si rivela un ciarlatano, Martin Scorsese un razziatore di idee altrui e Wim Wenders un pallone aerostatico. In Lonesome ( Primo amore) del 1928 e The last performance del 1927  Pal Fejos porta le tecniche di ripresa e montaggio e con esse del linguaggio filmico ad una svolta che ancora oggi sbalordisce. Di più, queste possono essere considerate come opere di un regista cinéphile, prima di Godard, amante dell’espressionismo tedesco o del cinema americano anche per come conduce gli attori davanti l’obiettivo: in Lonesome americani, in Last Performance Conrad Veidt . Poco soddisfatto dell’America Pal Fejos rientrò in Europa e ancora più insoddisfatto del cinema si dedicò con successo all’antropologia lasciando a noi la sua fama di mago dello sguardo.


domenica 14 dicembre 2014

mercoledì 22 ottobre 2014

Prossimamente

Non solo occhi, non solo orecchie

 

mercoledì 2 ottobre 2013

Lupi ed uomini


La Lux Film torinese, casa di produzione “illuminata” e antifascista nei primi anni quaranta (come si è spesso notato), sostiene senza sorprese la causa israeliana: di fatto la cultura ebraica costituisce la punta avanzata di quel modernismo laico-massonico entro i cui confini agisce con coerenza la cinematografia capitanata da Gualino e Gatti e perfettamente inserita nell’universo ideale prevalente da decenni nella metropoli dei Savoia e degli Agnelli.
Ancora il binomio Lux-Duilio Coletti, per il tramite del produttore Dino De Laurentis, mette in cantiere un nuovo “attacco alla tradizione” con la pellicola Il lupo della Sila (dicembre 1949; 95 min.), ambientato tra gli aspri paesaggi della Calabria rurale. Come già in numerose altre pellicola finanziate dalla ditta piemontese (si pensi ad esempio al simile Notte di tempesta di Franciolini, 1945; vedi) l’astuto meccanismo consiste nel calare una vicenda fumettistica, degna di un romanzo d’appendice, all’interno di una cornice dal sapore documentaristico e perfino “neorealistico” (riprese in esterni che valorizzano in modo abile il paesaggio calabrese, utilizzazione della popolazione locale, una magnifica fotografia in un denso e contrastato bianco e nero). Al centro viene collocata una figura mostruosa che finisce con il divenire emblematica di quel luogo e di quella cultura che si vogliono dipingere con accenti “arcaico-medievali”, pieni di disprezzo. Così Rocco Barra (Amedeo Nazzari), il più stimato proprietario locale, è un fanatico, disumano e autoritario difensore dell’onore familiare: dapprima impedisce alla sorella (Luisa Rossi) di scagionare il proprio amante (Vittorio Gassman) ingiustamente accusato di omicidio, decretandone in definitiva la morte; anni dopo invece, follemente inamorato di una giovane, prosperosa lavorante (Silvana Mangano), decide di sposarla senonché, quando il figlio Salvatore (Jacques Sernas), a cui sembra sinceramente affezionato, gliela porta via, lo insegue e immediatamente, saltando ogni doveroso chiarimento verbale, cerca di ucciderlo a fucilate. Insomma una vera e propria bestia infernale, animata da un feroce egoismo dettato da un’interpretazione estremistica e artificiosa delle tradizioni familiari del meridione d’Italia.
Si noti, per finire, che l’unica figura totalmente positiva è quella di Salvatore, un presunto calabrese interpretato da un attore francese (privo del minimo tratto somatico meridionale), il quale ha abbandonato la propria terra e le proprie convenzioni per vivere e studiare in una imprecisata, lontana e popolosa città: ovvero un perfetto e astratto modello di meridionale assimilato alla cultura laico-modernista.
Il film di Coletti, basato su questo sciocco soggetto inventato da Steno e Monicelli (e da loro sceneggiato con altri), è dunque soprattutto una caricatura indecente del costume del sud ad opera dei noti settori laici della Torino “illuminista”, settori assorbiti dalla propria guerra di modernizzazione di un’Italia rurale (fin dai tempi delle guerre d’indipendenza, della repubblica romana e dei Mille garibaldini) considerata oscurantista e inutile. In questa “guerra di religione” ogni mezzo è valido e ogni risorsa viene mobilitata: la bellezza provocante di Silvana Mangano (subito spogliata nella prima sequenza), l’autorità attoriale di Nazzari, la accattivante, veloce struttura narrativa (un Coletti finalmente in forma) animata da un montaggio serrato e da eventi spettacolari che si susseguono in modo trascinante (sebbene totalmente inverosimile) e infine una indubbia capacità di fotografare in modo perfino poetico la natura montagnosa e solcata di torrenti della Sila. Il pubblico resta giustamente soggiogato dal lavoro e ne sancisce un imprevisto, largo successo. Il centro cattolico al contrario, meno sensibile a queste qualità linguistiche e più attento alla visione ideale che la pellicola reca con sé, bolla con il solito “escluso” il prodotto Lux.

L’originale è qui:

Uomini lupi


« Queste immense distese di foreste, di rupi, di laghi, hanno un nome pieno di fascino, la Sila, cuore della Calabria. Gli uomini che vi nascono e vivono sono di una razza generosa e forte. In essi il cuore resta fanciullo, le passioni sono violente e schiette. Il destino segue il corso delle stagioni, del sole, delle tempeste. Nella solitudine e nel silenzio della Sila si perde il confine tra realtà e leggenda. Così avviene in questa storia d'amore e di sangue che fu tragicamente vera ed è già come un sogno ».

Con Il lupo della Sila prende avvio una trilogia che da posto anche a Il brigante Musolino e Rivalità in Aspromonte.
Sono opere messe in lavorazione con uno scopo preciso: fare di Silvana Mangano una diva a seguito dell’inaspettato successo riscosso con Riso amaro. Con la Mangano appaiono anche Amedeo Nazzari, ancora molto ricercato ed un fresco Vittorio Gassman sempre col preciso intendo di voler combinare guai.
Regista del lupo è Duilio Coletti uno che a sentire Alberto Sordi “ addirittura si metteva seduto dando le spalle alla macchina da presa e lasciava fare tutto agli aiuti “.
Quello che ancora oggi si apprezza di questo cupo dramma montanaro – dove un’avvenente ragazza, per vendicare la madre ed il fratello, si concede ad un proprietario terriero ed al di lui figlio ereditario, scatenando gelosia e rancore con il rituale scontro finale – oltre le immagini di una Sila incontaminata, catturata con il gusto fotografico dell’epoca da Aldo Tonti su pellicola Ferrania, è un passaggio di circa quattro minuti, riportato in allegato video, posto come intro delle vicende di lotta tra i due maschi protagonisti, di festosa vita paesana calabrese, anche questo sapientemente impresso dall’occhio dell’operatore alla macchina.
E’ un giorno di fiera che, come ancora si usa oggi nelle province dell’ex Regno delle Due Sicilie, precedono il dì della festa patronale. Si offre e si compra mercanzia di tutti i generi: animali d’allevamento come da cortile, utensili per il lavoro dei campi come della casa, e ancora prodotti della campagna e dolciumi accanto ad orchestrine, saltimbanco e cantastorie.
Per bocca di uno di questi ultimi, Rosaria scoprirà che il fratello che vuole vendicare.

mercoledì 18 settembre 2013

Filmografia ( parziale ) di Corrado Alvaro

Corrado Alvaro
San Luca ( RC ), 1895 - Roma, 1956
·  Casta diva   [1935] Sceneggiatura (dialoghi italiani)
·  UNA DONNA TRA DUE MONDI   [1936] Attori, Sceneggiatura
·  TERRA DI NESSUNO   [1939] Sceneggiatura
·  Fari nella nebbia   [1941] Sceneggiatura
·  SOLITUDINE   [1941] Soggetto, Sceneggiatura
·  Noi vivi   [1942] Sceneggiatura
·  FEBBRE   [1943] Soggetto, Sceneggiatura
·  LA CARNE E L'ANIMA   [1943] Sceneggiatura
·  RESURREZIONE   [1943] Sceneggiatura
·  Carmela   [1944] Sceneggiatura (adattamento e dialoghi)
·  PATTO COL DIAVOLO   [1948] Soggetto, Sceneggiatura
·  Riso amaro   [1948] Sceneggiatura
·  Donne senza nome   [1949] Sceneggiatura

mercoledì 11 settembre 2013

Il cinema non si addice a Luigi Chiarini

Isa Miranda, backstage di Patto col diavolo

Così quest’anno a Venezia, Patto col diavolo di Luigi Chiarini, cupo melodramma d’amore campagnolo, cercava visibilmente di trovare in una storia di conflitto fra pastori e boscaioli un alibi secondo il gusto del momento.
André Bazin in Che cos’è il cinema?, Garzanti ed., trad. Adriano Aprà

Ricomparve anche Chiarini. Scrissi per lui Patto col diavolo, con Amidei. Brutto. Brutto. Corrado Alvaro, autore del soggetto, quando lo vide in proiezione disse “ bene le pecore! “  Un film noioso, brutto, Chiarini aveva questo sogno della regia. Aveva già fatto Via delle cinque lune, che non era neanche malvagio. Volle fare questa cosa noiosissima e se l’era molto lavorata, con Amidei. La Miranda era una donna molto simpatica, che allora si metteva da per tutto come il prezzemolo. Ma era già un po’ scaduta come diva.
Suso Cecchi D’Amico
L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935 – 1959 a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli

lunedì 9 settembre 2013

Il paese, i paesani e Corrado Alvaro



Il mio paese è cinema a sua stessa insaputa. Ora che li ho visti, i miei compaesani, davanti alla macchina da presa, mi sono accorto che sempre, quando si muovono, quando si fermano, quando si raccolgono in gruppi o dai gruppi si separano, fanno 'inquadratura', anche se non sanno cosa essa sia. Tutto questo non è artificio loro né visione artificiosa in me che lo noto, ma deriva dalla naturale armonia di movimento e di atteggiamento di questa gente che ha alle spalle i greci antichi e gli arabi, cioè dei popoli armoniosi e ben proporzionati in ogni esteriore manifestazione di vita secondo una consimile proporzione morale che li regge ». Corrado Alvaro
"Sparlavano di me per mettermi in cattiva luce presso i miei compaesani"Dicevano che invece di scrivere libri avrei fatto meglio ad arruffianarmi con qualche ministro per riparare le strade di San Luca o sollecitare le pensioni sociali della povera gente. Mi hanno sobillato il paese intero, non ci posso mettere piede. Quando sento nostalgia, vado da mio fratello prete a Casignana, (*) un villaggio dirimpetto al mio. Da lì sto delle ore a contemplare San Luca. Laggiù, nel cimitero a ridosso della valle, riposano mio padre e mia madre". Corrado Alvaro
Corrado Alvaro, Quasi una vita, Bompiani ed.

(*) P. S. Massimo Alvaro fratello dello scrittore Corrado fu  compagno di studi al seminario di Gerace dello zio Ernesto Gliozzi jr. Subito dopo l’ordinazione aiutò lo zio Ernesto Gliozzi sen nella conduzione della parrocchia di Casignana ed alla morte dello zio, nel 1948, fu nominato parroco della stessa.