I REGISTI (senza peli sulla lingua)
MARIO
MATTOLI
DI EUGENIO
GIOVANNNETTI
Nelle Marche, da cui sono venuto anch'Io, ho conosciuto dei
Màttoli. Pare che il nostro Mario, accennandosi come Mattòli, voglia nettarsi
da un sospetto di mattia ed avvicinarsi ai gravi mattoni.
Tal sia di lui! Un po' di grave gli conviene certo oggi, a
compensato la levità della prima giovinezza'. Ha diretto allora undici compagnie teatrali e ha fatto gran
chiasso con gli spettacoli Za Bum. Non mi pare un gran titolo per la carriera d'un regista. E' diventato
infatti qualcuno a mano a mano che s'è liberato da cotesto milanesismo
grossolano ed improvvisatore.
Ed era entrato anche nel cinema per la via, meno artistica:
per il portone dei soldi, come produttore. Ha' giudizio, il mio marchigiano. Laureato in giurisprudenza, ha
preferito per tempo ad un gramo Azzeccagarbugli un maneggione chiassoso. Ma, anche per gli artisti,
c'è una sola prudenza: la concentrazione; un solo male: la dissipazione. Ed il nostro Mattoli deve scontare oggi
la sue brutalità di gioventù.
Noi marchegiani nasciamo, del resto, con la pelle dura e ci
sgrossiamo a poco a poco, con lentezza ultralaboriosa. Il nostro Mario
comincia, ora, come regista, a dare un po’ nel fino, dopo ott'anni ormai di professione.
Tranne qualche escursione garbata verso un cinema comico-sentimentale, alla
Camerini. (L’uomo che sorride), o verso
un cinema dal costume brillante (Amo te
sola), ha continuato per sei lunghi anni più o meno a zabumeggiare. E
quando il subalpino dagli occhi di bue, Macario, ha voluto brillare nei film. è
andato per istinto verso il regista zabumeggiante.
Ma Mattoli, l’ho già detto, è il marchcgiano che s'innalza e
si raffina nella dura fatica. Non è l’anfibio cafone e stazionario: non è quel
principe marchigiano cui, un giorno, al Circolo della Caccia, un gentiluomo
romano diceva: «tu
vai a Londra e fai il principe romano: tu torni a Roma e fai il lord inglese;
ma più mondo giri e più marchigian ti trovo».
Mario Mattolì non è, voglio dire, l'uomo di vetro, che, se
l’urti con un gomito, ti cade addosso col fracasso d’una vetrina. E', come tutti gli artisti che si ritrovano e
si elevano faticosamente, duro quanto agile. Mi propongo d’esaminare con franchezza, quelli che mi paiono
ancora i suoi gravi difetti come artista, ma intanto sono lieto di poter dare
una gomitata, cordiale ad un uomo della mia terra, sicuro che non si frangerà.
Mario Mattoli non ha avuto, sino a ieri, una carriera
facile. Ha sfacchinato intorno a piccoli film, che non avevano spiraglio alcuno
per un regista di talento; quando non ha dovuto addirittura tagliare film sulla misura di Macario. In sostanza, le buone, le grandi
occasioni, il Mattoli le ha avute soltanto in questi ultimissimi anni (1940-41)
con due cose che l`hanno messo fortemente in vista. Su questi due film, Luce nelle tenebre e Ore nove, lezione di chimica, lo
giudicheremo.
Quì, per la prima volta, il regista racconta un linguaggio
personale, fluente e scintillante. C’è ancora, qua e là, del Camerini, ma non è
che una reminiscenza. L'uomo ha, senza dubbio, imparato a parlare cinema ed
intende dire cose proprie, in maniera propria, con un proprio accento.
Solo un difetto s'avverte, che vien dalla vecchia, abitudine
d'improvvisare e superfìcializzare. Il narratore scivola brillante sulla materia e non l`approfondisce e non
la domina. Pattina soltanto, arabescando appena la lucida pianura del ghiaccio.
Che cosa veramente sia sotto il gelido specchio, lui non sa con precisione e,
talvolta, non sospetta neppure.
Le sequenze prettamente cronistiche e descrittive, quelle
cioè in cui non si tratti che di fiorire in superficie, sono quasi sempre
ottime. Vedete, in Luce nelle tenebre, le due sequenze iniziali: la corsa della
ragazza per i negozi e la visita dell'ingegnere in casa del clinico. Niente di più
arioso, di più vero, di più fine. Il narratore sa veramente che cosa sieno
cinema e ritmo. Anche l'arrivo delle due sorelle alla miniera, e la visita alle
gallerie, hanno il linguaggio della più fresca e vivida realtà.
ln Ore nove, lezione
di chimica c'è qualcosa di più che garbo descrittivo: c` è il tono
azzeccato, il tono ambientale nelle sue infinite sfumature. Bisogna chiudere un
occhio, naturalmente, e talvolta due, sulla goffaggine manierata di qualche
figura (quella del papà milionario, per esempio, nel suo modo d'accomodar le
cose familionarmente, come avrebbe
già detto ai suoi tempi Arrigo Heine). Ma, nell’insieme, il tessuto sociale è
ben sentito, tanto nelle movenze caratteristiche quanto nella discorsiva
finezza.
Quelli di cui il Mattioli non s`accorge mai sono i trapassi
disastrosi di tono nella sua materia: i crepacci subitanei della sua lucida
superficie. Lo sceneggiatore può tendergli qualsiasi tranello: avvezzo a
brillare sulla sua nitida pianura, il regista andrà dritto verso l’insidia e
precipiterà, sicuro, sicurissimo di pattinare ancora sul più solido ghiaccio.
Non ho mai visto una tale allucinatoria sicurezza.
E' chiaro che il nostro Mattoli dovrà avvezzarsi sempre più
a scrutare lungamente o profondamente la sceneggiatura, prima d'affidarsi a lei
e mettersi a pattinare. Bisogna. che avverta tutte le insidie e le elimini in tempo,
prima di lanciarsi. La sceneggiatura è oggi, per lui, troppo foglio musicale,
troppo composizione intangibile. Ci rimetta le mani lui e ricomponga
arditamente sino all'ultimo minuto, e dia finalmente alla sua materia
quell’omogeneità, quella coerenza, quella solidità, che, sino ad oggi, le sono
mancate.
Il giorno in cui disporrà d’una materia perfetta, senza crepacci
né buche, il Mattoli farà un’opera' d'arte, pulita come un gioiello. Per essere
un perfetto artista, il nostro Mattolì deve fidarsi meno di chi lo circonda: deve affrontar direttamente la sua materia e guardarci ben
dentro da solo: deve fare insomma come quel contadino marchigiano che quando, in agonia, il prete
cominciò a dirgli: « non
vorreste, figlio mio, regolare un po' il vostro conto col ministro di Dio?», raccolse quel po' di
fiato che gli restava e rispose: «no: vojo fa' Ii conti direttamente col padrò».
Se gli ultimi due film del Mattoli avevano debolezze, eran
debolezze assai più di costituzione, di sceneggiatura cioè, che di stile. Il
regista aveva lasciato fare troppo ai ministri che, come avvertiva il
Pascarella, non sono mai da prendere troppo alla lettera, «perché te lassano contento e cojonato».
Il lento ma sicurissimo maturare di quest’artista va seguito
con attenzione e simpatia. Il Mattoli è
un osservatore realistico, pieno di forza e di finezza, quand’è in vena. In Luce nelle tenebre, ho ammirato come
una piccola, gustosissima acquaforte, il suo appuntamento galante al Caffé
Greco. C’era una grazia amara ed epigrammatica ad un tempo, che non mi sarei
mai aspettata da un «figliuol
prodigo» così zabumeggiante e così poco fatto per diventare un impressionista
incisivo, un Toulouse-Lautrec. Voglio illudermi i che anche questa gomitata di paesano gli farà bene e
lo farà sempre più svelto e bravo. In ogni modo, sono felicissimo d’avergliela
data. Io non sono, e neppure lui, un licienciado
Vidriera che tema di cadere in frantumi appena qualcuno lo tocchi.
Sapete chi era questo Vetriera? Un personaggio delle
cervantesiane «novelle
esemplari», che aveva la fissazione d’esser tutto di vetro e di dover quindi
frantumarsi al menomo urto per via. Guai a toccarlo: dava in ismanie ed urla di
terrore. Quanta gente, eh, quanti Vetriera passeggiano oggi per via, che non si
devono toccare neanche con un dito! E’ forse il tempo di cominciare a capire
che gli uomini che hanno un cuore nel petto ed una coscienza pulita, non hanno
paura d’un urtone: e, se occorre, ve lo restituiscono allegramente.
Eugenio
Giovannetti
Opere di Mario Mattoli : Tempo
massimo (1934) - Amo te sola, Musica in piazza, Sette giorni all’altro mondo (1935) – La damigella di Bard, L’uomo
che sorride, Questi ragazzi
(1936) – Gli ultimi giorni di Pompeo,
Felicita Colombo, (1937) – Nonna Felicita, L’ha fatto una signora, La
dama bianca, Ai vostri ordini signora (1938) – Imputato alzatevi, Mille
chilometri al minuto, Lo vedi come
sei, Eravamo sette vedove (1939)
– Non me lo dire, Il pirata sono io, Abbandono, Luce nelle tenebre
(1940) – Ore nove, lezione di chimica
(1941) – In lavoro: Viglio vivere così.
film SETTIMANALE DI
CINEMATOGRAFO TEATRA E RADIO ANNO V - N. 3
17 GENNAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Soltanto un bacio diretto da
Giorgio C. Simonelli e interpretato da Valentina Cortese, Carlo Campanini,
Otello Toso, Lauro Gazzolo (Prod. Aquila Film).