giovedì 30 gennaio 2020

CINE ma POPolare



AL PUBBLICO POPOLARE
PIACCIONO I MELODRAMMI

Nella produzione qualitativamente "minore'', quali elementi si
riscontrano conformi alla psicologia popolare che fanno di tanti
film artisticamente negativi degli ottimi successi di cassetta?

Leggendo i primi due servizi della interessante inchiesta promossa da " Cinema" sui film di categoria B, ci è sembrato opportuno intervenire ampliando il discorso a tutta la produzione qualitativamente minore, ai film cioè non impegnati sul piano artistico o, quanto meno, culturale. Accogliendo la classificazione "economica" proposta da Redi e Rinaudo, rientrano nella categoria B quei film prodotti con pochi mezzi da piccole società e distribuiti sul mercato senza l'ausilio del lancio pubblicitario: "sono film fatti in casa'', ignorati dalla critica ufficiale dei quotidiani e dei periodici, con registi ed attori sconosciuti o mal noti al pubblico delle prime visioni e, talora, anche a quello delle seconde. La sorte commerciale di questi film è affidata alle sale periferiche delle grandi città e, soprattutto, alle semplici platee dei mille e mille villaggi d'Italia. Appartengono al gruppo film come questi: Amore è smarrimento, prodotto dalla Filmosa, diretto da Filippo W. Ratti e interpretato da Flora Lilla, Piero Palermini e Manuel Roero; François il contrabbandiere, prodotto dalla Marte Film, diretto da Gianfranco Parolini e interpretato da Doris Duranti, Vira Silenti, Roberto Mauri, Luigi Tosi e Peter Trent; Cuore forestiero, prodotto dalla De Paolis Film diretto da Armando Fizzarotti e interpretato da Maria Piazzai, Piero Lulli e Aldo Nicodemi. Quest' ultimo film è da ascriversi al compatto e caratteristico sotto - gruppo delle produzioni ambientate a Napoli ed ispirate per lo più a motivi celebri del canzoniere partenopeo. Ricordiamo, fra gli altri, Vedi Napoli e poi muori; Rosalba, fanciulla di Pompei; Solo per te, Lucia; Munasterio 'e Santa Chiara; Monaca Santa; Luna rossa; Pentimento e il recente Città canora con Maria Fiore, film che, a tutt'oggi, ha incassato oltre trecento milioni. I film della serie "napoletana" vengono distribuiti, di regola, solo nell'Italia centromeridionale ed esclusivamente nelle sale di periferia e nei centri minori della provincia. Tuttavia, tenuto conto del basso costo di produzione (25-30 milioni), il rendimento di questi film è, nella media, soddisfacente; anzi, talvolta, straordinario: si pensi ai 300 milioni di Vedi Napoli e poi muori (programmato nel 1952) contro i 250 di Ladri di biciclette, apparso negli ultimi mesi del '48! Questa, la realtà delle cifre pubblicate dalla Società degli Autori e riferite da "Cinespettacolo".


(continua)
CARLO SANNITA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie  Anno VII 1954 10 Novembre

mercoledì 29 gennaio 2020

Un leone a Culver City - Buster "Saltarello" Keaton


Buster Keaton l'uomo che non ride mai

Grande fortuna ebbe in quegli anni la ·produzione comica: siamo nell'epoca d'oro della comedy", la quale anzi, proprio in quel periodo cessa gradualmente di essere un semplice complemento di programma (con le "comiche" in due bobine) per divenire l'attrazione principale dello spettacolo. Accanto a Chaplin, Harold Lloyd e Harry Langdon, tutti passati definitivamente al lungometraggi si colloca ora la figura di un nuovo comico, proveniente dal teatro di rivista: Buster Keaton, scoperto da Joseph M. Schenck (fratelli di Nicholas), il quale, dopo averlo fatto debuttare in The Butcher Boy (1917), lo aveva lanciato in una lunga serie di "two reels". I film di Keaton, che con la sua impassibile maschera aveva immediatamente conquistato il pubblico, vennero da un certo momento prodotti e in qualche caso diretti da lui stesso, sotto l'egida naturalmente di Joseph M. Schenck e della M.G.M. che li distribuiva. Uno dei suoi primi film di metraggio normale (sei bobine) fu Seven Chances (Sette probabilità, 1925), che Keaton stesso aveva tratto da una commedia di Roy Cooper Megrue, presentata sulle scene da David Belasco . La carriera dell'attore (che in Italia venne soprannominato "Saltarello") si arrestava praticamente pochi anni dopo l'avvento del sonoro: e i film parlati cui prese parte - sempre alla M.G.M. - non riuscirono a raggiungere il mordente della sua migliore produzione muta. Dopo aver lavorato anche in Francia e al Messico, e dopo aver diretto o prodotto film di cortometraggio per la Metro ed altre case, da vari anni egli si limita ad apparire - col suo volto stanco, ma sempre impassibile - in qualche film, da Hollywood Cavalcade a Sunset Boulevard, e più recentemente ha persino preso parte ad un film in Italia. (Continua)
Fausto Montesanti
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 
In apertuta Buster Keaton in Seven Chances (Le sette probabilità) del 1925, di James Shannon

lunedì 27 gennaio 2020

Né sere né giorni di festa saranno per me liberi e beatamente vuoti.


Dopo circa cento, centocinquanta settimane in cui regolarmente ho scritto ogni settimana un «pezzo» su un libro, prendo congedo dal mio lettore, per un periodo di sosta. Per alcuni mesi sarò occupato a fare un film. È vero che mentre ero occupato a girare, a montare e a doppiare Il fiore delle mille e una notte, ho continuato puntualmente a scrivere le mie recensioni. Ma ciò si spiega prima di tutto col fatto che avevo da poco tempo iniziato questo lavoro, e c’era dunque in me uno slancio che non poteva brutalmente essere interrotto. Inoltre il film che stavo facendo, anche se terribilmente faticoso e avventuroso, era molto gradevole, e mi lasciava dunque, la sera, quasi sempre, in un’ottima disposizione di spirito. Infine ero lontano dall’Italia, in luoghi dove, appunto, la sera, o nei giorni di festa, leggere e scrivere era l'unica possibile occupazione. Ora invece mi accingo a girare quando è già il terzo anno del mio lavoro di critico militante: e mi accingo a girare un film estremamente sgradevole (De Sade e la Repubblica Sociale mescolati insieme) che certamente la sera mi lascerà sfinito e magari nauseato di lavoro; e lo girerò, oltre tutto, nel cuore dell’Italia, tra Salò e Marzabotto: né sere né giorni di festa saranno per me liberi e beatamente vuoti.
Pier Paolo Pasolini, Settimanale «Tempo» 24 gennaio 1975

domenica 26 gennaio 2020

Emilio "el Indio" Fernandez - Leitmotiv



Questa disorganizzazione narrativa, questa gratuità dell'analisi filmica si ripercuotono su tutta l’impostazione del linguaggio di Fernandez, determinando incertezze stilistiche ed ingenuità sintattiche. Il montaggio di Fernandez è generalmente sconclusionato manca di una base cronologica. Si veda per esempio in Enamorada, la sequenza, potenzialmente stupenda, del coro dei fanciulli nella chiesa. Fernandez escogita lente carrellate sulle volte floreali della chiesa, con accompagnamento del coro: sarebbe bellissimo se alcuni inserti di attacco, non distruggessero, con la loro gratuita brevità, il ritmo della sequenza.  In genere il montaggio di Fernandez tende alle clausole lunghe, ad un ritmo lento, eccessivamente analitico, in linea col ritmo sfilacciato dell'impostazione, narrativa. Donde quel senso di lentezza sciropposa, di freddezza che è caratteristico di tanti film di Fernandez e che è stato unanimemente segnalato dalla critica. In questo ritmo lento si inseriscono poi, oltre a rigonfi dialogici, anche certe preziosità figurative, certe ricerche fotografiche talvolta fini a se stesse f che raggelano ulteriormente il tono del racconto. Questo calligrafismo fotografico (la cui responsabilità è indubbiamente condivisa per buona parte da Figueroa) è forse una delle caratteristiche più appariscenti del cinema di Fernandez e su di esso la critica si particolarmente accanita, traendone tuttavia deduzioni talvolta inesatte. Si è creduto infatti da parte di alcuni che la povertà ritmica di Fernandez e la sua debolezza narrativa derivino appunto da ricerche figurative, mentre secondo noi queste ricerche non rappresentano che il momento culminante e conseguente di una particolare ispirazione, di un particolare abito narrativo, effetto e non causa.
La fotografia di Figueroa è infatti, nel suo complesso e coi suoi limiti, sostanzialmente coerente all'assunto lirico e al temperamento elegiaco di Fernandez. E' una fotografia dolce, languida a volte, che usa volentieri del filtro, ricca di toni sfumati e sfrangiati, una fotografia edonistica che si adegua naturalmente ad un ritmo rilassato di racconto e di montaggio. A nostro avviso Figueroa è però un fenomeno più modesto di quanto generalmente si crede. La sua fotografia deriva da quello standard fotografico che gli americani e francesi hanno derivato, in moneta speciale, dall`espressionismo tedesco e che tende ad effetti chiaroscurali in funzione psicologica. Su questo standard Figueroa innesta poi, conformemente al suo temperamento romantico, ricerche cromatiche, ricorrendo specialmente ad effetti di filtro e di flou; ma sostanzialmente la sua fotografia non differisce molto, come impostazione, da quella d'un Gregg Toland o, se vogliamo, d'uno Schüítan. E ne è la prova The Fugitive in cui il plasticismo di John Ford assimila con tutta naturalezza la fotografia di Figueroa, proprio perché questa fotografia costituisce la naturale conclusione di certe ricerche che Ford aveva condotto con operatori americani. Fra Long Voyage Home, fotografia di Gregg Toland, e The Fugitive, fotografia di Figueroa, non c'è che una differenza di grado, non di direzione.
L'esperienza di Figueroa - che è caratterizzata da un'assoluta mancanza di autosuperamento - si svolge quindi nell'ambito di una maniera, sia pure vivificata da un'eccezionale bravura tecnica, ed è ben lontana dall'originalità inventiva, per citare a caso, d'un Maté o d'un Aldo o, con riferimento proprio al Messico, d'un Tissé. D'altronde è proprio la sua bravura tecnica, non sempre superata in poesia, che finisce talvolta per pesare come un artificio ('l'abuso del filtro, per esempio, o del panfocus).
Anche per Figueroa, del resto, può valere quanto si è detto per Fernandez e cioè che il suo temperamento lirico gli concede scarse attitudini di racconto; cosicché certi artifici e certe forzature (per esempio certi sterili effetti di panfocus) derivano non tanto da acribia fotografica, quanto dallo sforzo di adeguarsi ad esigenze narrative che gli rimangono estranee. La fotografia di Figueroa ci sembra insomma perfettamente coerente alla regia di Fernandez e tale da smentire certe insinuazioni della critica circa un preteso influsso negativo, in senso calligrafico, di Figueroa su Fernandez. Al contrario, ci sembra che le loro personalità siano perfettamente affini: ciò spiega il loro affiatamento divenuto ormai proverbiale.
Del resto tutta l’opera di Fernandez appare, dentro i suoi limiti e le sue incoerenze pregiudiziali, improntata ad una sostanziale coerenza di tutti i suoi elementi.
Anche la recitazione è in linea. E' una recitazione, improntata ad un naturalismo lirico, che raggiunge il suo acme in certi atteggiamenti elementari, in espressioni distese di stati d'animo e che scade invece nella retorica più vieta quando tenta schemi convulsi di azione e di psicologia.
Recitazione estremamente discontinua, che passa dalla pura bellezza dei primi piani di Maria Felix in Enamorada alle insopportabili contorsioni di Dolores del Rio in Las abandonadas. A Fernandez va tuttavia riconosciuto il merito di aver saputo plasmare nell'ambiente provinciale messicano, privo di una tradizione e di un insegnamento recitativi, un nucleo di ottimi attori: Pedro Armendariz, Maria Felix, Columba Dominguez, Maria Elena Marquez. Alcuni di essi si impongono oggi anche all'estero: Pedro Arrnendariz lavora a Hollywood e Columba Dominguez a Cinecittà.
Questi, a grandi linee, i motivi tipici del cinema di Emilio Fernandez: esso ci appare come una singolare avventura sbocciata all'intersezione di civiltà contrastanti e nutrita di esigenze diverse. C’è nella
sua opera una ricerca di cultura e di tecnica tesa ad un esito di istinto e viceversa un fondo primitivo che cerca di chiarirsi e di esprimersi in termini di cultura e di eccellenza tecnica. Da quest’antinomia  costitutiva della sua personalità deriva la contaminazione che Fernandez compie fra i dati genuini della sua ispirazione lirica e la metodica corrente del racconto cinematografico.
Esperienza contrastata quindi, quella di Fernandez, che sotto una apparente facilità di canto cela uno sforzo doloroso di chiarificazione e di maturazione. Esperienza sincera, sofferta.
E' a questa sincerità soprattutto che si affidano gli elementi di una conclusione critica su Fernandez. La sua opera nasce dall'esigenza d'un clima assoluto, umano e geografico, e ci porge la suggestione d'un paesaggio mitico, l’immagine d'una evasione di cui, già prima di Fernandez, S. ,M. Eisenstein e André Breton avevano sentito il richiamo. A questo richiamo ha risposto recentemente sia pure con scarsa sincerità John Ford in The Fugitive. Si accinge ora a rispondervi anche Luis Bunuel.
Nel quadro odierno della produzione cinematografica mondiale ciò che Fernandez ci ha dato finora rimane un'affermazione latente di poesia che, per esplicarsi in pieno, attende, da una parte, una più matura coscienza del proprio temperamento e, dall'altra, una condizione produttiva più propizia ad un libero esercizio d'ispirazione.
Franco Venturini in BIANCO E NERO ANNO XII – N. 4 -  APRILE 1951

Nota Bibliografica
Per una bibliografia su Fernandez rimane ancora valida quella indicata per il cinema messicano da Mario Verdone in appendice al suo studio «Aspetti del cinema messicano» in «Bianco e Nero» aprile 1949. Ad essa è solo da aggiungere, ch'io sappia, la recensione di Massimo Mida su La Perla («Bianco e Nero ››, giugno 1949) e la già citata recensione di Glauco Viazzi su Enamorada, («Bianco e Nero , settembre 1949) i cui argomenti sono ripetuti anche in un altro scritto di Viazzi: «Il cinema nell'arte e nella vita messicana»  in «Ferrania» n. 7, 1949.
Tutti questi testi sono del genere da leggersi in treno. L'unico di essi che dia, sia pure sommariamente, un apporto concreto di critica è, al solito, quello di G. C. Castello («Infanzia precoce del cinema messicano» in «Cinema» n. s. n. 2, 10 novembre 1948). Dal punto di vista informativo ë interessante lo scritto di André Camp: « Apergus sur le cinéma mexicain ›› in «La Revue du cinéma» n. 15, luglio 1948. Chi volesse poi documentarsi sul clima culturale messicano in cui si è formato il cinema di Fernandez può consultare utilmente, prendendo però le dovute precauzioni, le corrispondenze dal Messico di André Bréton in «Minotaure», Parigi, annata 1939.

In apertura screenshot da The Fugitive, 1947 di John Ford

giovedì 23 gennaio 2020

cinemApollo MESSANA MCMLIII




                            

   

mercoledì 22 gennaio 2020

We love you Sophia Loren

Oh baby love
I'm in love with sophia loren
I'm in love with bridget bardot
I'm in love with the whole dumb scene
The Psychedelic Furs


Si fanno sempre più insistenti lo voci dl una svolta sentimentale nella vita di Sophia Loren. Un idillio infatti pare sia in atto fra l’attrice e il produttore Carlo Ponti.  Idillio che dovrebbe condurre i due alle nozze non appena il produttore abbia (secondo i “si dice”) ottenuto in Svizzera il divorzio dall’attuale moglie. Intanto la Loren si prepara a ripartire per l'America.
GAZZETTA DEL SUD, Venerdì 26 luglio 1957

martedì 21 gennaio 2020

Un leone a Culver City - Foolish Erich



Stroheim fa cassetta

Per rimediare al malfatto, Stroheim dovette accettare di dirigere The Merry Widow (La vedova allegra, 1925), una riduzione cinematografica della famosa operetta con Mae Murray e John Gilbert: un film di grande mestiere, nel quale tuttavia egli esercitò solo la sua intelligenza e il suo gusto stravagante. A proposito di tale film Stroheim ha dichiarato in un'intervista: Quando vidi come la censura aveva amputato il mio film Greed, in cui avevo messo tutto il mio cuore, abbandonai ogni speranza di poter creare dei film d'arte, e da allora in poi ho lavorato su ordinazione. Il mio film The Merry Widow ha dimostrato che questo genere piace molto al pubblico, ma io son ben lungi dall'esserne orgoglioso e non desidero minimamente essere identificato con le cosiddette attrazioni commerciali ... Quando mi si chiede perché faccio film del genere non mi vergogno affatto di dire la vera ragione: unicamente perché non voglio che la mia famiglia muoia di fame”. Parole amare nelle quali si sintetizza il dramma di un autentico artista: ma i quattro milioni di dollari incassati dal film fecero tirare un sospiro di sollievo ai dirigenti della Metro, che tuttavia si affrettarono a sbarazzarsi ugualmente di Stroheim, la cui prodigalità cominciava a divenire ormai proverbiale. La favola dell'impianto di campane da lui fatto installare alla Universal nella scenografia dell'albergo di Foolish Wives (e che non appariva mai nel film), era nulla in confronto alle camicie di seta cifrate dei soldati di The Merry Widow o ai diecimila dollari fatti spendere unicamente per coniare una serie di medagliette.
Se i film di Stroheim non esercitarono sulla produzione corrente una grande e palese influenza, in compenso certe sue stravaganze furono imitate da registi ansiosi di affermarsi: tipico il caso di Joseph von Sternberg, il quale agli inizi della carriera - e proprio negli studios della Metro - dopo aver fregiato il suo nome (Stern) di un "von" e di un pittoresco "berg" finale, faceva ad esempio il diavolo a quattro se mancava un bottone alla divisa di una comparsa, durante la lavorazione di Escape, (poi ricominciato da Phil Rosen e presentato nel 1926 col titolo The Exquisite Sinner); oppure osava rifiutarsi di far visionare ai dirigenti il materiale di un film con Mae Murray, The Masked Bride (1925) anche questo condotto a termine da un altro regista, Christy Cabanne, che fini anzi per fermarlo). E' l'epoca in cui von Sternberg si fa crescere un paio di baffi smisurati, indossa camicie nere, si copre le spalle con uno scialle rosso; atteggiamenti che riproducono solo esteriormente certe manie di Stroheim, e che agli occhi dell'uomo d'affari - preoccupato solo di problemi pratici e di natura economica - finisce per fare del regista una sorta di fanatico, capace di influire in maniera del tutto negativa sull'esito commerciale del prodotto. (continua)
FAUSTO MONTESANTI

CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

lunedì 20 gennaio 2020

Joseph L. Mankiewicz vs Cecil B. De Mille


 LA LISTA NERA DEI “RIBELLI” DIFESA DA MANKIEWICZ
Il comitato direttivo del Guild forzato a dare le dimissioni.
Esso infatti esigeva dai soci la sottoscrizione di un arbitrario veto.

LA CONTROVERSIA sorta recentemente in seno all’associazione (Guild) dei registi cinematografici, è stata risolta con un personale successo di Joseph L. Mankiewicz, il quale, in qualità di presidente, ha ottenuto un completo accordo fra la maggioranza dei membri. In settembre, mentre Mankiewicz si trovava in Europa, l’associazione aveva decretato, sotto Ia guida di Cecil B. De Mille, un totale ostracismo ai membri che si fossero rifiutati di sottoscrivere una dichiarazione giurata conto il comunismo. Una lista nera dei "ribelli" era già stata approvata dal Consiglio direttivo, e copia delle deliberazioni inviata a Mankiewicz. Ma al suo ritorno a Hollywood, Mankiewicz iniziò la lotta per scalzare l’arbitraria presa di posizione. In violenti e drammatici dibattiti in cui Ceci! B. De Mille commise un grave errore tattico, alienandosi le simpatie degli elementi più conservatori, la tesi di Mankiewicz appoggiata da George Stevens, ha finalmente trionfato. E' stato deciso che nessun regista è obbligato a firmare una dichiarazione del genere suaccennato, a meno che il Governo federale Io esiga esplicitamente; la “lista nera" è stata eliminata, ed il Consiglio direttivo, che aveva provocato tale subbuglio, forzato a dare le dimissioni in massa. Interessante notare che la proposta di De Mille era stata in un primo tempo accettata a grande maggioranza: dopo l’intervento di Mankiewicz ed il favorevole appoggio di Stevens, tale maggioranza ha dato invece il suo pieno voto di fiducia alla seconda tesi.

A Broadway, intanto, mentre dura ancora l'eco dei successi di A Letter to Three Wives e No Way Out, la Fox ha presentato l’ultimo film Mankiewicz dall’indovinato titolo All About Eve (Tutto ciò che riguarda Eva). Il soggetto, scritto dallo stesso regista, presenta in una luce sarcastica, cinica, spesso satura di biliosità, il mondo teatrale di Broadway. L'ambizione di raggiungere l’apice di una ricca carriera di attrice spinge una giovane donna (Anne Baxter) ad avvicinare una strana figura di celebre donna (Bette Devis).



CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO III - 1950 1 DICEMBRE 
Nelle foto Gary Merrill, Bette Davis, Anne Baxter, George Sanders in All About Eve del 1950

domenica 19 gennaio 2020

Mario Mattoli


I REGISTI (senza peli sulla lingua)
MARIO MATTOLI
DI EUGENIO GIOVANNNETTI


Nelle Marche, da cui sono venuto anch'Io, ho conosciuto dei Màttoli. Pare che il nostro Mario, accennandosi come Mattòli, voglia nettarsi da un sospetto di mattia ed avvicinarsi ai gravi mattoni.
Tal sia di lui! Un po' di grave gli conviene certo oggi, a compensato la levità della prima giovinezza'. Ha diretto allora undici compagnie teatrali e ha fatto gran chiasso con gli spettacoli Za Bum. Non mi pare un gran titolo per la carriera d'un regista. E' diventato infatti qualcuno a mano a mano che s'è liberato da cotesto milanesismo grossolano ed improvvisatore.
Ed era entrato anche nel cinema per la via, meno artistica: per il portone dei soldi, come produttore. Ha' giudizio, il mio marchigiano. Laureato in giurisprudenza, ha preferito per tempo ad un gramo Azzeccagarbugli un maneggione chiassoso. Ma, anche per gli artisti, c'è una sola prudenza: la concentrazione; un solo male: la dissipazione. Ed il nostro Mattoli deve scontare oggi la sue brutalità di gioventù.
Noi marchegiani nasciamo, del resto, con la pelle dura e ci sgrossiamo a poco a poco, con lentezza ultralaboriosa. Il nostro Mario comincia, ora, come regista, a dare un po’ nel fino, dopo ott'anni ormai di professione. Tranne qualche escursione garbata verso un cinema comico-sentimentale, alla Camerini. (L’uomo che sorride), o verso un cinema dal costume brillante (Amo te sola), ha continuato per sei lunghi anni più o meno a zabumeggiare. E quando il subalpino dagli occhi di bue, Macario, ha voluto brillare nei film. è andato per istinto verso il regista zabumeggiante.
Ma Mattoli, l’ho già detto, è il marchcgiano che s'innalza e si raffina nella dura fatica. Non è l’anfibio cafone e stazionario: non è quel principe marchigiano cui, un giorno, al Circolo della Caccia, un gentiluomo romano diceva: «tu vai a Londra e fai il principe romano: tu torni a Roma e fai il lord inglese; ma più mondo giri e più marchigian ti trovo».
Mario Mattolì non è, voglio dire, l'uomo di vetro, che, se l’urti con un gomito, ti cade addosso col fracasso d’una vetrina. E', come tutti gli artisti che si ritrovano e si elevano faticosamente, duro quanto agile. Mi propongo d’esaminare con franchezza, quelli che mi paiono ancora i suoi gravi difetti come artista, ma intanto sono lieto di poter dare una gomitata, cordiale ad un uomo della mia terra, sicuro che non si frangerà.
Mario Mattoli non ha avuto, sino a ieri, una carriera facile. Ha sfacchinato intorno a piccoli film, che non avevano spiraglio alcuno per un regista di talento; quando non ha dovuto addirittura tagliare film sulla misura di Macario. In sostanza, le buone, le grandi occasioni, il Mattoli le ha avute soltanto in questi ultimissimi anni (1940-41) con due cose che l`hanno messo fortemente in vista. Su questi due film, Luce nelle tenebre e Ore nove, lezione di chimica, lo giudicheremo.
Quì, per la prima volta, il regista racconta un linguaggio personale, fluente e scintillante. C’è ancora, qua e là, del Camerini, ma non è che una reminiscenza. L'uomo ha, senza dubbio, imparato a parlare cinema ed intende dire cose proprie, in maniera propria, con un proprio accento.
Solo un difetto s'avverte, che vien dalla vecchia, abitudine d'improvvisare e superfìcializzare. Il narratore scivola brillante sulla materia e non l`approfondisce e non la domina. Pattina soltanto, arabescando appena la lucida pianura del ghiaccio. Che cosa veramente sia sotto il gelido specchio, lui non sa con precisione e, talvolta, non sospetta neppure.
Le sequenze prettamente cronistiche e descrittive, quelle cioè in cui non si tratti che di fiorire in superficie, sono quasi sempre ottime. Vedete, in Luce nelle tenebre, le due sequenze iniziali: la corsa della ragazza per i negozi e la visita dell'ingegnere in casa del clinico. Niente di più arioso, di più vero, di più fine. Il narratore sa veramente che cosa sieno cinema e ritmo. Anche l'arrivo delle due sorelle alla miniera, e la visita alle gallerie, hanno il linguaggio della più fresca e vivida realtà.
ln Ore nove, lezione di chimica c'è qualcosa di più che garbo descrittivo: c` è il tono azzeccato, il tono ambientale nelle sue infinite sfumature. Bisogna chiudere un occhio, naturalmente, e talvolta due, sulla goffaggine manierata di qualche figura (quella del papà milionario, per esempio, nel suo modo d'accomodar le cose familionarmente, come avrebbe già detto ai suoi tempi Arrigo Heine). Ma, nell’insieme, il tessuto sociale è ben sentito, tanto nelle movenze caratteristiche quanto nella discorsiva finezza.
Quelli di cui il Mattioli non s`accorge mai sono i trapassi disastrosi di tono nella sua materia: i crepacci subitanei della sua lucida superficie. Lo sceneggiatore può tendergli qualsiasi tranello: avvezzo a brillare sulla sua nitida pianura, il regista andrà dritto verso l’insidia e precipiterà, sicuro, sicurissimo di pattinare ancora sul più solido ghiaccio. Non ho mai visto una tale allucinatoria sicurezza.
E' chiaro che il nostro Mattoli dovrà avvezzarsi sempre più a scrutare lungamente o profondamente la sceneggiatura, prima d'affidarsi a lei e mettersi a pattinare. Bisogna. che avverta tutte le insidie e le elimini in tempo, prima di lanciarsi. La sceneggiatura è oggi, per lui, troppo foglio musicale, troppo composizione intangibile. Ci rimetta le mani lui e ricomponga arditamente sino all'ultimo minuto, e dia finalmente alla sua materia quell’omogeneità, quella coerenza, quella solidità, che, sino ad oggi, le sono mancate.
Il giorno in cui disporrà d’una materia perfetta, senza crepacci né buche, il Mattoli farà un’opera' d'arte, pulita come un gioiello. Per essere un perfetto artista, il nostro Mattolì deve fidarsi meno di chi lo circonda: deve affrontar direttamente la sua materia e guardarci ben dentro da solo: deve fare insomma come quel contadino marchigiano che quando, in agonia, il prete cominciò a dirgli: « non vorreste, figlio mio, regolare un po' il vostro conto col ministro di Dio?», raccolse quel po' di fiato che gli restava e rispose: «no: vojo fa' Ii conti direttamente col padrò».
Se gli ultimi due film del Mattoli avevano debolezze, eran debolezze assai più di costituzione, di sceneggiatura cioè, che di stile. Il regista aveva lasciato fare troppo ai ministri che, come avvertiva il Pascarella, non sono mai da prendere troppo alla lettera, «perché te lassano contento e cojonato».
Il lento ma sicurissimo maturare di quest’artista va seguito con attenzione e simpatia.  Il Mattoli è un osservatore realistico, pieno di forza e di finezza, quand’è in vena. In Luce nelle tenebre, ho ammirato come una piccola, gustosissima acquaforte, il suo appuntamento galante al Caffé Greco. C’era una grazia amara ed epigrammatica ad un tempo, che non mi sarei mai aspettata da un «figliuol prodigo» così zabumeggiante e così poco fatto per diventare un impressionista incisivo, un Toulouse-Lautrec. Voglio illudermi i che anche questa gomitata di paesano gli farà bene e lo farà sempre più svelto e bravo. In ogni modo, sono felicissimo d’avergliela data. Io non sono, e neppure lui, un licienciado Vidriera che tema di cadere in frantumi appena qualcuno lo tocchi.
Sapete chi era questo Vetriera? Un personaggio delle cervantesiane «novelle esemplari», che aveva la fissazione d’esser tutto di vetro e di dover quindi frantumarsi al menomo urto per via. Guai a toccarlo: dava in ismanie ed urla di terrore. Quanta gente, eh, quanti Vetriera passeggiano oggi per via, che non si devono toccare neanche con un dito! E’ forse il tempo di cominciare a capire che gli uomini che hanno un cuore nel petto ed una coscienza pulita, non hanno paura d’un urtone: e, se occorre, ve lo restituiscono allegramente.
Eugenio Giovannetti

Opere di Mario Mattoli : Tempo massimo (1934) - Amo te sola, Musica in piazza, Sette giorni all’altro mondo (1935) – La damigella di Bard, L’uomo che sorride, Questi ragazzi (1936) – Gli ultimi giorni di Pompeo, Felicita Colombo, (1937) – Nonna Felicita, L’ha fatto una signora, La dama bianca, Ai vostri ordini signora (1938) – Imputato alzatevi, Mille chilometri al minuto, Lo vedi come sei, Eravamo sette vedove (1939) – Non me lo dire, Il pirata sono io, Abbandono, Luce nelle tenebre (1940) – Ore nove, lezione di chimica (1941) – In lavoro: Viglio vivere così.  
film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRA E RADIO ANNO V - N. 3  17 GENNAIO 1942 XX



La testata si riferisce al film Soltanto un bacio diretto da Giorgio C. Simonelli e interpretato da Valentina Cortese, Carlo Campanini, Otello Toso, Lauro Gazzolo (Prod. Aquila Film).

giovedì 16 gennaio 2020

Emilio "el Indio" Fernández - Flor silvestre

Un giudizio di valore sull'opera di Fernandez, oggi, non può non tener conto di questo peccato originale, di questa deviazione radicale subita dal suo lavoro. I segni autentici della sua personalità vanno perciò cercati in frammenti della sua opera, in qualche sequenza isolata (ve ne sono di bellissime) in cui egli si abbandona alla sua vena. Ecco allora in Enamorada la scena della serenata, sostenuta quasi per intero dal primo piano di Maria Felix, e nel finale la partenza notturna dell'esercito, i soldati che sfilano al rullo dei tamburi proiettando lunghe ombre sui muri delle case; ecco in Flor silvestre la fuga di Esperancia dalla casa dei banditi e l'esecuzione di Jose Luis; ecco in La perla la lotta a coltello sulla spiaggia; ecco in Maria Caldelaria le scene sul fiume, Maria che porta a vendere i fiori ed è respinta dalla folla, il funerale in barca; ecco in Rio escondido la processione per invocare la pioggia. Sono pagine purissime di cinema in cui Fernandez, momentaneamente liberato da preoccupazioni estranee esprime liberamente il suo mondo.
Egli fallisce invece quando affronta motivi di una drammaticità esteriore, elie rimangono lontani dalla sua sensibilità. Si veda per esempio l'inizio di Enamorada, la battaglia e l'ingresso in città dell'esercito rivoluzionario: tutto rimane oleografico e privo di nervi (quelle granate fumogene!). E si veda ancora in Maria Candelaria la ridicolaggine della cattiveria di Don Damiano e nel finale di La Perla, l'opprimente retorica di quel campo lungo con Pedro Armendariz in piedi sopra la rupe, dopo l’uccisione del rivale. 
Una zona marginale della sua personalità è costituita da certa verve umoristica che affiora qua e là con` accenti intrinsecamente validi (la fotografia del bambino in Las abandonadas, la scommessa dei due gauchos in Flor silvestre, l'oratore e la visita del generale in casa della fanciulla amata in Enamorada, ma che provoca sempre una frattura stilistica nel tono generale del film. Osserva giustamente G.C. Castello (1 a proposito di Enamorada, (in cui questa verve umoristica è forse più scoperta) che il racconto oscilla fra il dramma e il vaudeville. Anche indipendentemente da queste apparizioni umoristiche è però raro che  Fernandez sappia conservare un tono unitario di racconto. (continua)
(1) G. C. Castello: «Infanzia precoce del cinema messicano», in si «Cinema ›› n. s. n. 2, Milano, 10 novembre 1948.

Franco Venturini in BIANCO E NERO ANNO XII – N. 4 -  APRILE 1951

mercoledì 15 gennaio 2020

Solaris ... lies at 25 times a second




Strange. I saw a Russian film in the summer.
One of the shots in it was just like the view from up here.
- Solaris.
- Sorry?
The name of the film. Solaris.
Maybe.
I've forgotten what it was called. Solaris.
The only thing I remember was this image.
- I'm sorry if that's all you remember.
- The whole film was a bit of a mess.
A mess! Solaris is one of the best films.
I've ever seen.
Really? Why?
Film is a lie, 25 times a second ... and because it's all a lie, it's also the truth. 
Truth is a lie.
Every film tells us that.
In films, lies are dressed up as ideas and shown as truths.
That's my idea of utopia - the only one there is.

È curioso, l'estate scorsa ho visto un film russo.
C'era una inquadratura identica alla vista che si ha da qui.
 "Solaris".
- Come dice?
- È il titolo di quel film: "Solaris".
Sì, forse. Ho dimenticato che il titolo è quello.
- Ma ricordo bene quell'inquadratura.
- Come mai?
- È un po' troppo confuso, per i miei gusti.
- Confuso?
"Solaris" è uno dei più bei film che abbia mai visto.
- Cosa c'è di così bello?
- Appare la bugia a 24 fotogrammi al secondo.
E poiché è tutto una sequela di bugie dichiarate, ... ne deriva che ... la bugia diventa verità.
Che la bugia e la verità siano la medesima cosa ... lo dicono tutti gli altri film, ... che però mascherano la bugia e la spacciano come assoluta verità.
In "Solaris", a mio avviso, vi è l'unica possibile utopia.
Rainer Werner Fassbinder, Eddie Constantine, Hark Bohm, Die dritte Generation (La terza generazione), 1979



lunedì 13 gennaio 2020

Los olvidados




UNA TREDICENNE A CITTA' DEL MESSICO
Avvelena il padre per andare al cinema
La ragazza confessa l’atroce delitto
senza manifestare alcun rimorso

Città del Messico, 5 genn.
La polizia messicana ha arrestato una giovanetta di 13 anni che ha confessato - senza manifestare neppure una ombra di rimorso -- di avere avvelenato suo padre il giorno di Natale perché le aveva rifiutato il permesso di andare al cinema.
Ecco il racconto della parricida: rientrato a casa un poco alticcio, Francisco Jasso si vide venire incontro la figlia che gli chiese il permesso di andare al cinema; era la sera di Natale e per quanto la sua povera abitazione offrisse ben poco, egli preferiva avere la figliola con sé. Le disse di no e la fanciulla non insistette.
Ma era furiosa, e meditò subito la vendetta… Si recò da una amica vicina, una quattordicenne figlia di un operaio gioielliere, e le chiese di darle, per uccidere un cane pericoloso, un poco del cianuro di potassio che l’artigiano aveva nel laboratorio. Fiduciosa l'amica le consegnò il pericoloso veleno che l'altra, senza ombra di esitazione, si affrettò, rientrata a casa, a versare nel bicchiere del padre. Appena bevuto, il poveretto fu assalito da atroci convulsioni, invocò aiuto, accorsero i vicini, fu chiamato un medico, ma quando questi giunse era già troppo tardi.
La morte fu attribuita ad un attacco cardiaco, ma la polizia fu poco convinta. Interrogò la ragazza per avere quale chiarimento ed ella cadde in tante contraddizioni che si ritenne opportuno procedere qualche giorno dopo ad un nuovo interrogatorio, durante il quale ella confessò pienamente il suo misfatto. E senza manifestare alcun rimorso.
GAZZETTA DEL SUD, 29 marzo 1955
Nella foto Alma Delia Fuentes e Miguel Inclàn in I figli della violenza (Los Olvidados) 1950 di Luis Bunuel


domenica 12 gennaio 2020

Un leone a Culver City - Il capolavoro



Il caso ''Greed'

Criteri analoghi a quelli che avevano determinato la scrittura di Sjostrom e che provocarono in genere - proprio in quel periodo - l'afflusso ad Hollywood di vari cineasti europei, mossero senza dubbio i dirigenti della Metro-Goldwyn-Mayer ad ingaggiare un regista la cui attività si era svolta, è vero, interamente in America, ma il cui prestigio poteva già paragonarsi a quello dei più grandi nomi d'oltre Oceano: Eric von Stroheim, il quale oltre a possedere un nome esotico (e preceduto persino da un "von", non importa se posticcio) era riuscito a procurare grosse fortune alla Universal con soli tre film e mezzo (l'ultimo infatti, Merry-Go-Round, era stato condotto a termine da Rupert Julian). L'idea, partita probabilmente da Irving Thalberg (che - come si è visto - aveva già collaborato con Stroheim), venne sostenuta - pare - anche da June Mathis, che dai Quattro cavalieri dell'Apocalisse in poi, era divenuta alla Metro una specie di madreterna. Il risultato fu davvero sconcertante per lo stato maggiore della casa: dopo aver girato un numero quasi incalcolabile di chilometri di pellicola Stroheim licenziò infatti candidamente un film che a quanto si dice era lungo qualcosa come quarantadue rulli, e per la cui proiezione occorreva circa una diecina di ore. Venne chiamata in fretta e furia la Mathis, ritenuta evidentemente la maggiore responsabile della faccenda, alle cui forbici sapienti ed implacabili si affidarono le quarantadue bobine, per trarne al massimo una diecina. Coloro che hanno avuto l'invidiabile fortuna di conoscere Greed (era questo il titolo del film, tratto da un romanzo di Frank Norris), anche nella versione rimaneggiata e ridotta, affermano che si tratta di una delle opere più importanti di tutta la storia dell'arte cinematografica: un film di un esasperato ed agghiacciante realismo, narrato con uno stile da grande maestro, e impostato con un coraggio ed una spregiudicatezza eccezionali. Era quasi inevitabile che un'opera già tanto inconsueta e difficile, resa inoltre ancor più incomprensibile da un montaggio arbitrario che aveva sostituito intere sequenze con pesanti didascalie che reggevano il peso del racconto, non riuscisse ad ottenere quel successo che la M.G.M. si riprometteva dal contratto fatto incautamente firmare a Stroheim.
Fausto Montesanti
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 
Nella foto Gibson Gowland e ZaSu Pitts in Greed (Rapacità) del 1924.