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martedì 3 maggio 2016

Terra senza scampo



Tutto quello che rimane di Terra senza tempo (1950) di Silvestro Prestifilippo sono le poche immagini immesse nel Tube da un appassionato cultore di proiettori 8, super 8 e 16mm. Il film fu girato nell’area grecanica reggina, tra Pentedattilo, Chorio e Condofuri. Silvestro Prestifilippo era uno che amava profondamente il sud, tant’è che ad ogni suo allontanamento faceva seguito un repentino ritorno con nuove dimore. Nel mondo del cinema egli fece una breve incursione, oltre il citato film realizzò Carne inquieta (1952) tatto da Leonida Repaci con Raf Vallone e Marina Berti. Questi lavori messi a confronto con quelli di altri scrittori-registi, uno su tutti il Curzio Malaparte de Il Cristo proibito (1951), o con quelli contemporanei di un sudista come Pietro Germi, non ne ricavano un apprezzamento duraturo mercé la poca valutazione al momento del loro apparire. Noi però scorgiamo una documentazione visiva sullo stato dei luoghi dove i film vennero catturati e questo basta a ricreare quel mondo perduto per sempre.




martedì 2 febbraio 2016

Tavola rotonda a Locri

La realtà calabrese
è spesso
deformata dal cinema

Dal corrispondente
Aristide Bava

SIDERNO - La tavola rotonda organizzata a Locri dall'<<Associazione culturale jonica» per fare il punto sulla
prima rassegna cinematografica che si sta svolgendo nella zona jonica meridionale, è stata preceduta -come annunciato -  da una breve conferenza stampa del regista Nino Russo, autore del film «Il giorno dell'Assunta››, che avrebbe dovuto essere proiettato in anteprima nazionale ad inaugurazione della rassegna. Il regista ha spiegato che la proiezione del film non è stata permessa dalla Italnoleggio - casa di distribuzione del film - perché avrebbe potuto poi provocare danni economici per il normale sfruttamento del soggetto nel circuito nazionale. Almeno questa sarebbe la motivazione ufficiale.
Subito dopo il saluto di Domenico Speziale, sindaco di Locri, con una relazione di Ferdinando Bruno è cominciata la tavola rotonda sul tema: «Cinema e società in Calabria». A dire il vero, Bruno, nella sua relazione, si è occupato più del lato tecnico cinematografico inquadrato nel contesto nazionale che nel
cinema calabrese o della Calabria vista dal cinema. Un aspetto che in certo senso contrasta con le intenzioni degli organizzatori e che, in ogni caso non ha impedito lo sviluppo di un approfondito dibattito.
In effetti, più che ad una tavola rotonda si è assistito appunto a un dibattito con qualche accenno critico all’organizzazione e a qualche spunto polemico verso la politica meridionalistica del passato e anche del momento attuale (si è accennato al quinto centro siderurgico).
Il discorso si è anche spostato alla letteratura calabrese per merito soprattutto del critico Walter Pedullà che in riferimento a una specifica domanda su quanto possono dare i calabresi al cinema nazionale, ha inteso vedere specificatamente in due autori, vale a dire Vincenzo Guerrazzi, con il «Nord e Sud uniti» e <<La fabbrica del sogno» e quindi Vincenzo Bonazza, con <<L'emigrante>›, validi esponenti della cosiddetta «letteratura selvaggia».
Alcune puntualizzazioni ha poi fatto il sen. Sisinio Zito che ha inteso dare anche una giustificazione a qualche carenza organizzativa che certamente non si verificherà - è questo l'augurio - negli anni a venire.
Ha preso poi la parola regista Mimmo Rafele, che ha un po' lasciato l’ama in bocca al pubblico, accostandosi alla relazione di Ferdinando Bruno. «Per me - ha detto - la calabresità è un aspetto secondario del mio lavoro». ›
Altro intervento - apprezzato - è stato di Salvatore Santagata che, pur accennando ai problemi attuali della
Calabria, ha riportato il dibattito sul tema specifico.
Ha parlato poi il critico cinematografico Vittorio Ciacci, il quale ha ricordato che la Calabria viene spesso isolata da un certo «giro» proiezioni a causa di una selezione che avverrebbe a monte dei circuiti distributivi.
Un altro intervento interessante è stato quello del giornalista Mario Accolti Gil che ha messo a fuoco determinati e particolari problemi locali, che vanno dalla necessità di una sensibilizzazione cinematografica a quella di offrire al pubblico un aspetto non deformato della Calabria, cosa che purtroppo è avvenuta e
continua ad avvenire.
A conclusione sono anche intervenuti il consigliere regionale Guido Laganà, che ha sottolineato gli aspetti positivi di questo tipo di informazioni e il sindaco di Locri che ha tratto le conclusioni del dibattito.
In serata a Siderno ha avuto luogo la proiezione de <<Il nero muove», di Gianni Serra, film sui fatti di Reggio.
La rassegna jonica si concluderà stasera. Sono in programma proiezioni, come al solito, nei centri di Siderno, Locri, Roccella Jonica e Monasterace Superiore.

Gazzetta del Sud 7 Anno 26 n. 186 / Domenica 17 Luglio 1977


 Nella foto, una rara immagine di Carla Dal Poggio in Il sentiero dell'odio di Sergio Grieco, film del tutto invisibile.

giovedì 7 gennaio 2016

Il tenente scomparso

OGGI

Tratto  dal romanzo omonimo di Nicola Misasi fu diretto da Raffaello Matarazzo nel 1952.  E’ la storia del tenente Giorgio Biserta, che incaricato di combattere il brigantaggio in Calabria, in casa dei conti di Monserrato, ingravida  una sconosciuta, che in realtà è la contessa Elisa. Dopo cinque anni il tenente ritorna in terra calabra con la speranza di ritrovare la donna.
Amore, Mistero, Passione, Lacrime; come quasi tutti i film di questo genere fu girato a San Giovanni in Fiore.
Il tutto per mezzo di Massimo Girotti, Milly Vitale, Gualtiero Tumiati, Aldo De Benedetti , Carlo Montuori,Piero Filippone, Mario Serandrei e dulcis in … Ponti De Laurentiis

Praticamente è invisibile se non in qualche foto o locandina

giovedì 24 settembre 2015

Piccoli critici in adolescenza


Relazione sul film:
TITANIC
 “ la nave che non poteva affondare “

Venerdì 27 febbraio 1998, la scuola media di Platì si è recata al cinema “ Vittoria “ di Locri per la visione del film “ Titanic “. A chiunque ci chiedesse cosa ne pensiamo del film ripeteremmo che è stato un “ escursus “ di sentimenti, emozioni, sensazioni che si sono susseguite dalla prima fino all’ultima scena. Il Titanic, maestoso transatlantico mai visto prima per dimensioni e conforts, affondò il 15 aprile del 1912, schiantato da un iceberg. Aveva a bordo 2200 persone, di queste solo 700 trovarono scampo e salvezza sulle scialuppe.
La storia d’amore, che si intreccia nella trama tragica del film, tra due giovani ragazzi di diversa estrazione sociale Jack e Rose, mette a nudo tanti sentimenti che a volte elevano la dignità umana, altre la fanno “ affondare “ nel baratro dell’egoismo e della prepotenza.
Sono tante le scene, come prima dicevamo, cariche di emozioni: l’amore dei due ragazzi, il coraggio di Ros di abbandonare la vita comoda e agiata dei ricchi; la prepotenza del fidanzato di Rose; la boriosità della madre di lei, che pur di salvare la propia posizione sociale, ormai al margine del fallimento, costringe la figlia ad un fidanzamento senza amore; la solidarietà di Jack fino al sacrificio estremo.
Ma quello che profondamente ci ha colpito è la profonda differenza di trattamento tra nobili e povera gente, che da tutto per tutto, pur di varcare l’oceano e trovarsi “ nella ricca terra d’America “. La scena dei cancelli chiusi per salvare prima i ricchi e poi, se fossero rimaste scialuppe, gli altri cioè i meno fortunati, ci è rimasta impressa come una lama nel cuore e ci a fatto meditare: “ Quando mai ci sarà uguaglianza tra gli uomini “?  Gli scienziati, che erano alla ricerca del famoso gioiello “ il cuore dell’Oceano “, rimangono esterrefatti sentendo il racconto di Rose, dimenticano lo scopo primario delle loro ricerche; meditano e fanno meditare anche noi spettatori.
Rose, ormai centenaria, conclude il film, restituendo all’immensità dell’Oceano quel gioiello  che gelosamente insieme ai suoi ricordi aveva custodito per tanto tempo. Questo film ha colpito soprattutto, noi ragazze e ha suscitato profondi ripensamenti sulla caducità delle cose, e sull’infinito valore di ogni creatura di Dio, ma ci ha fatto innamorare ancora di più di quel bellissimo ragazzo che è Leonardo Di Caprio, che già avevamo tanto ammirato e ritagliato da riviste e giornali per incollarlo sulle pagine dei nostri diari.
Grazie Signor Preside per averci permesso di rivedere il nostro idolo.
                                                                                                             
                                                                                                             La III a C
tratto da IL GIORNALINO numero unico
della Scuola Media Statale “ D. Perri “
Platì - Cirella  a. s. 1997/98





Di mio non posso fare a meno che citare questa canzone di Francesco De Gregori quando ancora non nascondeva la nuca con cappelli e cappellini

lunedì 30 marzo 2015

Asili in Calabria

OGGI
in contemporanea con
http://daplatiaciurrame.blogspot.it/2015/03/bambini-del-sud-reg-michele-gandin-1959.html
L'asilo di Platì




Bambini del Sud (tit. originale), 1959
Soggetto:  Umberto Zanotti Bianco
Sceneggiatura: Paolo Balbo, Michele Gandin, Giuseppe Isnardi
Organizzazione: Luciano Pesciaroli
Commento: Stelio Martini
Fotografia: Dario Damicelli (A. I. C.)
Musica e adattamenti: Mario Nascimbene
Voce: Riccardo Cucciolla
Regia: Michele Gandin

giovedì 11 dicembre 2014

La resistenza della lucertola e la croce al neon

di Daniela Persico

Non è facile realizzare un’opera prima di questi tempi in Italia, ancora meno avere la libertà e la possibilità di scavare in se stessi, con estrema sincerità e libertà, per mettere in scena una storia che partendo dal particolare (la vita di parrocchia a Reggio Calabria) arrivi a parlarci della complessa situazione storica in cui ci troviamo.
Corpo Celeste riesce nelle alte intenzioni della sua autrice, la giovane Alice Rohrwacher (che, come sarebbe bello accadesse più spesso, esordisce prima dei trent’anni, in un panorama di vecchi-giovani) e si situa in una nuova scia di opere italiane realizzate da registi con una formazione lontana dalle “scuole di cinema” e più vicina alle strade del documentario.
Unico film italiano alla Quinzaine (e arrivato a un soffio dalla Caméra d’Or), Corpo celeste è la storia di una crescita, il racconto di un momento sospeso nella vita di un’adolescente dallo sguardo limpido e dal corpo in trasformazione. Attorno a lei il mondo degli adulti, taluni confusi, altri annoiati, altri ancora soltanto troppo stanchi per rispondere alle domande di Marta, all’inarrestabile ricerca del suo spazio, del rapporto con gli altri e con le sue tensioni più alte. Di fronte a una Chiesa dimentica dell’urlo di Cristo (“Eli, Eli, lama sabachthani”), lontana dalla verità della Parola e vicina alla precarietà dell’apparenza, Marta oppone uno sguardo resistente, un incedere sbilenco ma ostinato, un corpo ancora puro e trasparente nei suoi splendidi e immediati rossori.
La giovane regista, calibrando – non senza difficoltà – il lato grottesco della vicenda con il punto di vista puro di Marta, sceglie l’essenzialità di una macchina da presa che talvolta avvolge i suoi personaggi, altre sembra isolarli, riprenderli da lontano, mentre ripensano alle loro vane giornate. Marta osserva e si muove, costruendo un nuovo itinerario di speranza, tra la gioia della vita (i gattini appena nati), il dolore della perdita (le prime mestruazioni che segnano il suo allontanarsi dall’infanzia), fino alla semplicità di un gesto di libertà che diventa rito iniziatico verso una nuova consapevolezza (l’entrata nel canale, suggellata da un’inquadratura che trasforma il suo corpo, così reale, in ombra metafisica).
Marta è il corpo celeste che tiene unita la Terra con il Cielo nella scoperta finale di essere grande ma continuare a poter sentire vibrante la realtà, quasi fosse un miracolo.

"VORREI FOSSE RICORDATO COME UN FILM STORICO": INCONTRO CON ALICE ROHRWACHER
Al contrario di gran parte del cinema italiano, che usa le città in maniera intercambiabile, Corpo celeste offre un ritratto di Reggio Calabria nella sua complessità, che restituisce un tuo approccio legato al documentario. Come hai sviluppato la vicenda partendo dalla città?
Quando ho iniziato a pensare al film ero spesso a Reggio Calabria, così con il mio produttore, Carlo Cresto-Dina, siamo partiti proprio dalle suggestioni che mi offriva la città. La conoscevo piuttosto bene e avevo già ambientato lì un corto (inserito nel film-collettivo Checosamanca): due bambini che, giocando nella Fiumara, raccolgono rifiuti e scarti per costruirsi la loro casa, un mondo fantastico in cui giocare. Succede veramente e sono gli stessi bambini che ho voluto far incontrare a Marta, la protagonista di Corpo Celeste, alla fine del film. Per me la loro energia è una metafora potente: penso che alla società di oggi non manchino assolutamente né le possibilità né lo spazio, piuttosto è raro trovare la tensione necessaria per cambiare uno stato di fatto. Dopo le recenti vittorie alle elezioni comunali, mi sono augurata che il mio film potesse essere visto in futuro come un film storico sull’Italia berlusconiana!
Il film si presta a molteplici letture: talvolta sembra che la critica alla Chiesa non sia il punto di partenza, ma che offra lo spunto per far emergere una società dello spettacolo che ha ormai divorato ogni tipo di rapporto umano.
 In effetti la mia idea di partenza era raccontare che cosa rimane oggi della vita comunitaria in Italia. Avendo scelto come scenario Reggio Calabria, città totalmente abbandonata dallo Stato, mi è parso evidente che l’unica parvenza di vita sociale gravitava attorno alla Chiesa, ormai radicalmente cambiata. Poi avevo trovato emblematico un fatto di cronaca letto su un giornale locale: una colletta per togliere un crocifisso moderno e ritornare a uno figurativo. Molti hanno gridato allo scandalo perché ho mostrato un sacerdote che raccoglie firme per un candidato politico: l’ho visto fare in molte parrocchie. Talvolta questi sacerdoti sono anche un collante tra politica e cittadini, reclamano (e in alcuni casi) ottengono qualcosa per il loro quartiere. Nel film ho scelto di raccontare la figura del sacerdote come qualcuno che vive il suo ruolo unicamente in quanto professione e per questo tiene molto a una possibile promozione. Anche lui fa parte di un’Italia cambiata e smarrita, dove è sopravvissuta soltanto la forma e non la sostanza. Penso sia questo il fatto per cui ho scelto la Chiesa per sviluppare il mio film: parlare di religione, di tensione verso il sacro, e della sua attuale manifestazione segnava un ottimo punto per riuscire a raccontare il drammatico impoverimento della nostra società.
È piuttosto impressionante assistere al catechismo dei nostri tempi…
Sono convinta che possono sembrare scene eccessive, ma nascono dall’osservazione di alcune parrocchie di Reggio Calabria: ci sono libri per la catechesi che hanno sulla copertina frasi che echeggiano i reality televisivi (“Saranno testimoni”) e si passa molto tempo ad imparare canzoni (“Mi sintonizzo con Dio”) o balli (“Il balletto delle vergini”). C’è una totale assenza della “Parola”, come se dovesse spaventare o far allontanare i ragazzi. Insomma si usa il linguaggio falso per antonomasia della televisione, per insegnare dei contenuti che pretendono di essere la “verità”. Anche la Chiesa, seguendo questo processo, punta al ribasso, come del resto hanno fatto tante altre istituzioni tra cui la scuola…
Ma la tua scelta alla fine è ricaduta proprio sulla Chiesa che è il vero perno, sia tematico che figurale, del film.
Sono atea, ma non credo che la vita si riduca alla materia del momento; mi interessa l’essere in ricerca e all’università mi sono occcupata di Storia delle religioni. Mi piaceva mettere in scena la storia di una ragazzina che vive intensamente la propria pulsione religiosa e si trova a confrontarsi con la realtà. Il titolo del film, che prima era provvisorio e non è mai stato messo in dubbio, arriva dall’omonimo libro di Anna Maria Ortese: mi ha ispirato soprattutto per la sua lettura del mondo come sovramondo. Per quanto riguarda alcune scelte figurative del film, penso di essere – come tutti gli italiani – impregnata di cultura cattolica, anche nella sua forma più alta come l’arte sacra.
Il collegamento all’arte sacra emerge nell’uso particolare della luce e nella presenza di alcuni simboli che costellano il film, in un giusto (e precario) equilibrio tra realismo e astrazione.
Non so se è giusto parlare di simboli: è vero che la lucertola del finale è evidentemente un simbolo, ma nasce dal fatto che quando mi hanno portato vicino al canale alcuni bambini me ne hanno realmente messa una in mano! La sensazione della sua pelle sgusciante e del suo corpo senza testa ancora vibrante mi è rimasta lungamente impressa. Solo dall’esperienza sono risalita al suo potenziale di simbolo. Lo stesso è avvenuto per la scelta della fotografia: volevo ci fosse una luce invernale, livida, e con Héléne Louvart, il direttore della fotografia, abbiamo lavorato in questa direzione. Alcune sequenze più evocative e sospese sono arrivate dalla realtà: Marta che entra nel canale è un’ombra perché è l’unica possibilità per riprenderla in quel tunnel; solo in un secondo tempo si può pensare alla suggestione di questo suo “battesimo con la realtà”.
Marta non è soltanto il personaggio principale del film, ma è anche l’altezza da cui si guarda la storia. Come hai trovato l’interprete che favorisse questa giusta distanza?
Dopo l’immersione nelle parrocchie di Reggio Calabria, avevo paura di essere troppo dura e di apparire giudicatoria: trovare la ragazzina adatta a incarnare Marta mi avrebbe aiutato enormemente a trovare il giusto sguardo sulla realtà. Cercavo qualcuno che si pone già dei grandi interrogativi ma conserva ancora lo sguardo libero dei bambini, qualcuno che fosse semplice e pieno di stupore, in netta contrapposizione con il mondo che la circonda, dalle croci al neon alle complessità degli adulti, passando per i cibi troppo elaborati che si mangiano in quella regione. All’inizio ho fatto dei casting a Reggio Calabria, ma non riuscivo a trovare l’interprete giusta. Sono rimasta sorpresa del fatto che tutte le bambine sanno già cosa vogliono essere da grandi, come se non potessero permettersi di vivere un importante momento di indeterminatezza. Ho pensato che potesse essere positivo che la protagonista venisse da lontano (da qui l’idea della Svizzera) e quindi fosse diversa dagli altri ragazzini del film, con cui abbiamo lavorato in forma laboratoriale. Yile Vianello l’ho trovata in una comunità auto-sufficiente dell’Appennino, una realtà che conoscevo bene, dove i ragazzini conservano questo sguardo incantato e profondo sul reale. È stato importante riuscire a lavorare a lungo con lei, ma partivamo già da una posizione di vantaggio: la sua alterità rispetto alla Calabria.
Rispetto ad altri film (e soprattutto ad altre opere prime), il rapporto con gli attori non professionisti è pienamente riuscito e il più delle volte si sposa con l’intervento dei volti noti. Hai avuto modo di lavorare a lungo con loro?
Sono molto felice di essere riuscita, riducendo al minimo la troupe, ad avere ben sette settimane di ripresa. Un tempo piuttosto lungo, che ho ottenuto optando per scelte di regia essenziali: piuttosto che un dolly ho preferito avere un giorno in più di riprese! Il progetto del film si è articolato in un arco di tempo piuttosto lungo, abbiamo aspettato tre anni prima di riuscire a produrlo, e alla fine la nostra persistenza è stata premiata. Dallo scorso Natale, quando il film era pronto, abbiamo ricevuto inviti da molti festival, tutti i programmatori stranieri si sono mostrati felici di ritrovare un certo cinema italiano che sempre più difficilmente si riesce a produrre. Spero che il mio film, e quello di Michelangelo Frammartino che lo ha preceduto alla Quinzaine, rappresenti un piccolo segnale per il cinema indipendente.

(L'incontro con Alice Rohrwacher è avvenuto a Milano, il 30 maggio 2011 in occasione della manifestazione "Cannes e dintorni")

L'originale è qui:
http://www.filmidee.it/archive/27/article/86/article.aspx

martedì 9 dicembre 2014

Mi sintonizzo con te



 di Marco Dalla Gassa


Primo lungometraggio di Alice Rohrwacher, sorella minore dell’attrice Alba, Corpo celeste rappresenta l’ennesima declinazione di un luogo comune della rappresentazione cinematografica della pre-adolescenza: quello secondo cui i più piccoli costituiscono un corpo estraneo – qui bisognerebbe dire un corpo celeste – rispetto alla società in cui vivono e in modo particolare rispetto alle dinamiche relazionali che regolano il mondo adulto. Marta, come prima di lei molti suoi coetanei del grande schermo, ci viene descritta come una sorta di alieno, catapultato da chissà dove dentro una realtà sociale con la quale sembra non avere nulla da spartire. La sua “diversità” si vede a occhio nudo: in un meridione del grigiore edilizio, delle donne vestite di nero, dei riti religiosi enfatizzati e prevedibili (la prima sequenza ci mostra ad esempio l’avviarsi di una processione mariana con tanto di inni, preghiere e pianti), Marta spicca perché è rossa di capelli, ha la carnagione chiara, il corpo esile e asciutto; ha un carattere tenace, una personalità delineata, ma è silenziosa, quasi invisibile, incapace di abbandonarsi a scenate di rabbia o ad altre estemporanee manifestazioni della propria emotività, preferendo la fuga, il rinchiudersi dentro se stessa. È dunque fin da subito chiaro che la sua presenza si pone in termini essenzialmente strumentali e funzionali. Vale a dire che il suo personaggio non ci viene mostrato nel bel mezzo di un processo di crescita e trasformazione emotiva o fisica, ma in una condizione di alterità dichiarata (e destinata solo parzialmente a esaurirsi con lo sciogliersi della trama) che consente di delineare meglio – diciamo per contrasto – il contesto sociale e religioso che a lei tocca in sorte di visitare. Marta insomma è la proiezione dello sguardo spettatoriale, un tramite, offre una prospettiva dubitativa su ciò che la circonda.
E ciò che la circonda, si accennava poc’anzi, è in larga misura una rappresentazione triste e desolante nel nostro paese e in modo particolare di come è vissuta la religiosità in una comunità del meridione che altri luoghi comuni ci dicevano vissuta con generosità, partecipazione, determinazione. Nel reggino, o almeno nella parrocchia che frequentiamo insieme a Marta, accade l’esatto contrario: riti, funzioni e processioni ripetute senza che vi sia una partecipazione realmente sentita da parte dei fedeli; catechismi che vengono gestiti come pacchiane animazioni da reality show; parroci che si muovono come amministratori delegati; famiglie “tradizionali”, dunque composte da numerose persone, i cui membri non comunicano tra loro; periferie cementificate, spoglie, povere, senza possibilità di riqualificarsi. Marta si muove, in altri termini, in un vuoto pneumatico di natura economica, culturale, sociale, oltre che spirituale, che pervade quasi ogni aspetto della vita quotidiana. Le uniche note di colore sono quelle dell’estetica del kitsch, una sorta di chiassoso e colorato nuovismo che vorrebbe coinvolgere le generazioni più giovani, qui come altrove rappresentate come abuliche e indolenti, senza accorgersi che ogni tentativo in tal senso – come nel caso del quiz: chi vuol esser cresimato? – non fa che mutuare, stancamente, riti demistificanti ed escapisti della società della comunicazione (con relativi modelli culturali di riferimento), impoverendo ulteriormente l’esperienza della cristianità.
In tutto questo desolante quadro sociale, Marta si pone non solo come “sguardo altro”, ma anche come possibile “soluzione altra” e alternativa per evadere da un labirinto che pare senza vie d’uscita. Una alternativa lo sono i suoi comportamenti schietti, il suo silenzio, le sue passeggiate solitarie, una alternativa è il suo viaggio insieme a don Mario per prelevare il crocifisso in un paese spopolato delle montagne reggine, l’incontro con un prete anziano, la vista del crocifisso non nella sua posizione ortodossa (in piedi accanto all’altare), ma poggiato per terra, dunque avvicinabile e palpabile, e poi, lanciato da una montagna a strapiombo sul mare, abbandonato ai marosi. Quelli elencati sono segni indicativi e visibili di possibili e tortuose strade verso un diverso modo di essere adulti e, segnatamente, di un modo diverso di vivere la fede e il proprio rapporto con Dio. Un modo di essere e di vivere che Marta può sentire in tutta la sua concretezza (il corpo e il sangue di Cristo) non in un artefatto lontano, ma in un fisico che cambia, sboccia, si trasforma, come le ricorderanno le prime mestruazioni, giunte proprio durante la cerimonia per la confermazione.

l'originale è qui:
 http://www.minori.it/minori/corpo-celeste-0

giovedì 4 dicembre 2014

Fine della Cineteca del Bruzio


Corpo celeste (2011) della signora (o signorina) Alice Rohrwacher è la pellicola – scordandomi dell’esistenza di questo supporto debbo confessare di sconoscere quanto l’ha sostituito: un file, un disco, una memoria fluttuante? perché non l’hanno chiamato kubrickianamente Hal 9000! – che abbassa le serrande della cineteca del Bruzio. Un anno separa Le quattro  volte di Michelangelo Frammartino da Corpo celeste. Così anche la loro presentazione  alla sezione  Quinzaine des réalisateurs del Festival di Cannes. Lavori accolti favorevolmente in quelle occasioni. Più che a questo, il film della Rohrwacher si avvicina a quello di esordio di Michelangelo Frammartino,  Il dono, del 2003. Corpo celeste è anch’esso un esordio e vorremmo un esordiente all’anno se si elegge la Calabria come luogo dove nascono storie che non hanno per protagonisti armi e violenze. La signora (o signorina) Alice Rohrwacher era già stata a Reggio Calabria per girarvi un cortometraggio, Il giardiniere della fiumara, che faceva parte con altri di un lavoro collettivo intitolato Checosamanca (2006). Su quell’esile trama, ragazzi che in giro per la fiumara, raccogliendo “ resti spezzati di un passato “, riescono a concepire un’installazione degna della Fiumara d’Arte di Antonio Presti. L’obiettivo, questa volta, lasciando sullo sfondo la fiumara ci svela che quella è parte della città di Reggio. In essa c’è una piccola immigrata, questa volta in senso inverso, proveniente con mamma e sorella maggiore dalla Svizzera. Si chiama Marta, una sola volta Martina. Ha quasi tredici anni ed è sulla linea d’ ombra che la separa dall’adolescenza. Per renderla alla pari con gli altri ragazzi del quartiere la madre le fa frequentare il corso che la trasformerà in soldatessa di Gesù. Qui la piccola viene a contatto con gli altri due protagonisti del film: l’insegnante di catechismo, Santa ed il parroco della chiesa dove essa sarà cresimata, don Mario. Se l’insegnante di catechismo la possiamo definire un’allineata del cattolicesimo, il parroco diventa un allineato dell’arrivismo che si è insinuato nelle Curie. Usano  i correnti mezzi di comunicazione: atteggiamenti di derivazione televisiva la prima, telefonino acceso anche durante le funzioni il secondo. Per quest’ultimo il Breviario è diventato un formulario ripetitivo la cui lettura è fatta con la mente alla riscossione delle pigioni ed alla campagna elettorale. Con i due Marta dovrà scendere a compromessi. Ma quella sorta di rito di iniziazione sceglierà di farlo da sola, nell’acqua. Riaffiorerà vibrante come quella piccola anguilla o sciobachello che uno dei giardinieri della fiumara le metterà in mano. Fin qui la storia dentro il film. Quello che  interessa  noi sono, come sempre, le quinte dove i fatti accadono: la Calabria e questa volta il suo ex capoluogo.  Possiamo dire che il degrado della religione, il film non vi si oppone mai, corrisponde al degrado della città. Quell’orribile stanzone uscito fuori dalla mente di qualche architetto formatosi nella facoltà reggina coincide con i condomini  alzati su tutto il territorio, molto spesso a margine delle fiumare. E quella città che si vede sullo sfondo della bruma che avvolge lo Stretto non è per niente differente. Non si riesce nemmeno a sostituire un indecoroso crocifisso dove il martire è tratteggiato con tubi al neon. Il sostituto, la piccola Marta lo spolvera soffiandoci sopra il suo alito innocente, come se volesse rianimarlo,  è finito per sempre in mare. Il racconto della Rohrwacher è fatto in modo da innestare fra loro naturalismo, verismo e neorealismo, e per il cinema, risalendo alle opere di Roberto Rossellini, definite dalla critica ufficiale come approssimative se non dilettantesche, ma che  hanno formato il cinema giovanile a cavallo tra i cinquanta ed i sessanta.

Ad epigrafe di tutto questo viaggio nel cinema in Calabria voglio mettere questa citazione che corrisponde alla parte finale del libro di Norman Douglas Old Calabria.
In quest’angolo di Magna Grecia la natura si è manifestata con severa parsimonia: roccia e acqua! Ma queste rocce e queste acque sono una realtà, sono la materia di cui è formato l'uomo. Un paesaggio così luminoso, così deciso a rifiutare ogni accessorio, esige d’essere espresso in forme semplici e coraggiose; ci porta verso la terra, a cui apparteniamo; guarisce della malattia dell°’introspezione e risveglia quella capacità che corriamo il rischio di perdere nella nostra morbosa malinconia iperborea: la capacità di un sincero disprezzo. Disprezzo per quella teoria-spauracchio che vorrebbe indurci a trascurare ciò che è terreno e tangibile. Che cosa è una vita ben vissuta, se non la felice liberazione dal caos primordiale, da quelle comode vaghezze intangibili che si celano intorno a noi, pronte a coglierci nei momenti di debolezza?
L'uomo saggio, questo perfetto selvaggio, sarà l'ultimo a sottrarsi all’influenza di una simile radiosa realtà, anzi cercherà di stringere ancor più il legame che lo unisce ad essa e studierà il modo di stabilire un rapporto più durevole e intimo. Che apra gli occhi: un adattamento razionale gli si offre. Da queste brune
rocce che punteggiano il quieto Ionio, da questa benefica solitudine, può trarre, e portare con sé nel movimentato fragore delle città, i princìpi di una sapienza nitida e autentica e assolutamente terrena  una incoraggiante filosofia, che favorirà solari cattiverie, insieme ai rimpianti dell’addio.

mercoledì 29 ottobre 2014

De l'humain au minéral, l'enchantement du monde (de Calabre)

di LE MONDE | 

Des révélations comme celle-là, il s'en manifeste rarement. Des cinéastes comme celui-ci, il faut les honorer. Ce film, d'une malicieuse simplicité, est stupéfiant de beauté et de gravité. On s'y retrouve au bout du monde, en un lieu archaïque où perdurent des traditions ancestrales. C'est pourtant bien aujourd'hui qu'il a été tourné, dans un paisible village médiéval perché dans les montagnes de Calabre.

Quatre histoires s'y enchaînent, comme se succèdent les saisons, elles-mêmes rythmées par des petits épisodes faussement anodins dont l'auteur scrute les effets en chaîne. La première cerne un vieux berger mal rasé, chemise à carreaux et pantalon de velours brun, qui conduit quotidiennement son troupeau de chèvres sous des cieux peu fréquentés. Majesté du silence, musique des grelots. Bêlements, bruits de sabots. Le pasteur courbé sur son bâton se rend régulièrement à la sacristie où la bonne du curé lui refile de la poussière d'église contre une bouteille de lait.
Délayée dans l'eau, cette poudre magique a des vertus thérapeutiques. Il en boit sa rasade chaque soir avant de se coucher, comme un médicament. Un jour, le sachet sacré tombe dans l'herbe pendant que le vieux soulage ses intestins. Ce soir-là, lorsqu'il tente, aux abois, de se procurer une nouvelle dose de particules miraculeuses, il trouve porte close. Le vieil homme va mourir durant la nuit, s'asphyxiant sous le regard de ses chèvres qui ont envahi la masure.
Ainsi filme Michelangelo Frammartino, en privilégiant un son d'ambiance sans dialogues et ses cadrages, passant du jour à la nuit, et vice versa. L'écran devient noir lorsque se ferme la porte du caveau. Et la lumière aveugle un chevreau extirpé de l'utérus de sa mère. Nous suivons maintenant la croissance de ce petit fragile, son sevrage, jusqu'à ce qu'il s'égare du troupeau dans un maquis, se retrouve seul, perdu, agonisant de froid au pied d'un arbre majestueux. L'arbre est un grand sapin, celui que les villageois choisissent pour la fête de la "Pita" : il est scié à la base, transporté vaille que vaille pour être érigé sur la place du village, mât de cocagne d'un jour avant de finir tronçonné, chez le charbonnier.
La quatrième histoire est celle de la construction d'une meule : bûches disposées en cercle selon un rituel, recouvertes d'un lit de foin, puis de terre. Et combustion, cuisson un jour et demi durant, pour obtenir du charbon de bois.
Ces fascinantes strophes des cycles naturels déclinent quatre règnes : ceux de l'humain, de l'animal, du végétal et du minéral. Michelangelo Frammartino cite Pythagore : "Nous avons en nous quatre vies qui s'emboîtent les unes dans les autres. L'homme est un minéral, car son squelette est constitué de sels, un végétal, car son sang est comme la sève des plantes, un animal, car il est mobile et possède une connaissance du monde extérieur. Il est humain, car il a volonté et raison." Le philosophe grec du VIe siècle avant Jésus-Christ ne doit pas vousinquiéter.
Aucune prise de tête dans Le Quattro Volte, rien que de la poésie secrète, une captivante exploration de coutumes et des temps qui scandent vie, mort, et renaissance. Une éblouissante limpidité narrative. Pythagore habita là, en Calabre, y enseigna le sens caché des choses et la présence d'une âme en chaque chose. Se dépeignant comme "un médium entre la matière et la forme", filmant sa cosmogonie, Frammartino aime à rappeler que Pythagore discourait derrière un rideau, une toile qui préfigurait l'écran de cinéma. Cet hommage relativise l'empreinte de l'homme, qui n'est au centre de l'image que le temps de passer le relais au chevreau, puis au bois et au charbon, au fil d'une transmigration. Rien ne se meurt, tout se transforme. Le décor reste immuable, les pulsations de la matière varient.
D'où vient ce Frammartino à formation d'architecte, qui semble avoir appris la dignité existentielle chez les gens de peu, au contact de rituels païens, et dont la manière, l'art d'orchestrer son cantique de la terre, évoque celle du grand Ermanno Olmi, l'auteur de L'Arbre aux sabots (1978) ? Situé dans la même région, contant le naufrage d'un village dépeuplé où une jeune fille muette et attardée offrait son corps à des automobilistes de passage, son premier film, Il Dono (2003), était déjà interprété par cet attachant vieillard qui n'est autre que son propre grand-père. Il y exaltait le don, en opposition à l'échange.
Grand Prix indiscutable du dernier festival de cinéma italien d'Annecy, Le Quattro Volte témoigne d'une curiosité contemplative pour les mystères et d'une réticence viscérale pour les artifices. Mais aussi d'un sens aigu de l'humour. Digne deBuster Keaton et de Jacques Tati, un long plan-séquence dont le héros est un chien vaut, à lui seul, d'être préservé dans les cinémathèques. A l'entrée du village, au croisement de deux routes, ce clébard endiablé perturbe la procession religieuse des habitants déguisés en soldats romains, puis retire une cale sous la roue d'une camionnette stationnée en équilibre instable, qui dévale la pente et défonce en contrebas la barrière de l'enclos où le berger parquait ses chèvres. Ici, le réalisme extrême de cette fiction aux apparences de documentaire réinvente la mécanique des catastrophes en chaîne et l'art du cadavre exquis.

L'originale è qui:
http://www.lemonde.fr/cinema/article/2010/12/28/le-quattro-volte-de-l-humain-au-mineral-l-enchantement-du-monde_1458461_3476.html

lunedì 27 ottobre 2014

Le quattro volte: documentay and fable


By Nicole Armour

Combining documentary and fable, Le quattro volte depicts life in an unnamed hilltop town in Calabria, Italy’s southernmost region. The village is surrounded by a vast tract  of forested countryside that beautifies and isolates in equal measure. Nature here is not the stuff of bucolic idylls but rather as Hayao Miyazaki conceives it: imposing and awe-inspiring. Quietly and with formal rigor, Michelangelo Frammartino’s film observes the community’s daily labors and religious ceremonies, using stationary long shots and extended takes that allow the pastoral beauty and the inhabitants’ rural practices to speak for themselves. But a deep sense of mystery abides as the film contemplates small-scale regional life and the nature of existence simultaneously—one of several ways in which the mundane is fused with the expansive. 
Organized into four sections, Le quattro volte eschews the notion that man is at the center of the universe (or of cinema for that matter) by attentively depicting a cycle of transmigration through its human, animal, vegetable, and mineral stages. The depiction begins with the daily activities of a goatherd who leads his animals to pasture and back again. Apart from a nagging cough, he’s virtually silent, leaving ample room for the goats to steal their scenes. One morning, the goatherd doesn’t turn up as usual. The goats go to his home to find that he’s died in his sleep. Here Frammartino abruptly cuts to the birth of a kid, with as little fanfare as when an apple falls from a tree. Instinctively, the newborn animal begins to walk almost immediately—a monumental sight. During its first journey to pasture, the kid becomes separated from the herd. A tiny imprint within this seemingly eternal forest, it wanders alone, eventually coming to rest at the foot of a towering fir. This tree is then shown over several seasons before being felled, hauled to the village, and hoisted up as part of an elaborate festival ceremony. There are more villagers present for this event than in any other scene, but they appear as one large mass rather than as individuals. When the celebration ends, the tree is stripped and sawed into pieces, then delivered to local charcoal-makers and added to a pile of logs. The wood is then arranged to form a dome, and at its center, what resembles a funeral pyre is lit on fire.
The town’s religious traditions derive from both Catholic and pagan sources. In a lengthy slapstick sequence that takes place in a single tracking shot, villagers walk in a religious procession wearing Roman costumes and carrying a large wooden cross. When the goatherd’s dog attempts to protect the goats by darting out and barking, the participants break both character and the solemn mood to shoo him away. The interaction is hilarious because the dog is simply behaving naturally, but it also shows the procession to be a performance and an interruption of daily life. Dog and man are at odds since, being an animal, the collie is incapable of either respecting the villagers’ iconography or making the imaginative leap necessary even to conceive of symbols. Like the ceremonial tree, the dog remains resolutely earthbound. The procession passes through town and out past the goats’ pen, echoing the goatherd’s daily journey with his flock. The old man’s age and solitude suggest a long-standing connection to the natural world, and when the goats enter his quarters to discover his corpse, they not only bear witness to his life but to the end of their joint existence.
Earlier, observing another pagan rite, the goatherd trades milk for dust collected from the floor of the village church, which he dissolves in water and drinks at night before sleeping. During one of these exchanges, Frammartino cuts away to focus on dust motes suspended in shafts of light. The goatherd’s practice seems superstitious but is a way of acknowledging that we all breathe the same air. Everyone around him already takes these particles into their lungs, and ingesting them is his last bid at maintaining his corporeal existence. This sense of material interconnection pervades Frammartino’s movie and defines the villagers’ lives: they drink animals’ milk, eat plants grown in the soil, and cook and keep warm with charcoal. By calling attention to the dust, the director emphasizes the fragile and invisible, the small specks of matter that make up the whole. Long before we finally see the coal-making process, the film reverberates with its sounds, caused, we eventually learn, by the thudding of large paddles against the sides of the dome. This percussive thump unites the region’s varied activities, a collective heartbeat linking all things in time and space.
L'originale è qui:
http://www.filmcomment.com/article/le-quattro-volte-review

domenica 26 ottobre 2014

Anime bianche


A voler vedere con gli occhi di un innamorato la Calabria che sorge dalle immagini così come dai suoni, carpiti e restituiti intatti ne Le quattro volte (2010) di Michelangelo Frammartino, diremmo che non è cambiato niente, tutto è rimasto come quando la Regione era abitata da pochi. Arcaicità, credenze e riti ancorati nel passato. Boscaioli, pastori e carbonai. Caulonia, le Serre, Alessandria del Carretto: sud, centro e nord di una terra amata e riamata. Unico elemento di unione è un lento motocarro che trasporta il carbone nei paesi, caricato dapprima dalla legna che serve per produrlo. Qualche volta serve anche per condurre i partecipanti travestiti per il rito del Venerdì Santo, giorno di morte che preannuncia la resurrezione dei e nei campi. Se c’è una storia non ci è rivelata, la si raccoglie stando pazientemente seduti ad osservare: ancora una resurrezione, quella della trasmigrazione  delle anime; dall’uomo al capretto, all’albero. Meta finale è il cielo, da dove ridiscenderà per un ciclo che non ha mai fine. Anime bianche appunto. Il film è stato accolto con favore al suo apparire, molto di più oltre i confini italici e meglio nei paesi nordici, luoghi da cui sono partiti i grandi viaggiatori che hanno percorso e ripercorso la Calabria dal XVI° secolo in avanti. Nell’opera  di Frammartino se vogliamo possiamo cogliere la lezione che fece per noi Vittorio De Seta con il suo In Calabria (1993). Allo stile scarno di De Seta Frammartino risponde con lunghe statiche immagini, limpide e ricercate limitando le panoramiche della cinepresa.

domenica 28 settembre 2014

Dal Bruzio con amore

Ricordo di Vincenzo Talarico (1909 - 1972), attore caratterista e sceneggiatore

lunedì 22 settembre 2014

Il Cristo del Meridione*


Tra le opere filmiche del duo Felice D’Agostino/Arturo Lavorato la più riuscita mi pare Il Canto dei Nuovi Emigranti del 2005. Ricostruzione abbastanza originale della vita del poeta Franco Costabile (1924 – 1965).
 Cari registi non preoccupatevi, non sto qui a ricostruirla anch’io. Dirò solo che in Costabile, come in Pier Paolo Pasolini, la vita e l’opera poetica sono un tutt’uno. La fuga del padre, la fuga della moglie con le sue due bambine, il pensiero e la morte della madre, l’abbandono di Sambiase dapprima per Messina successivamente per Roma, la solitudine, sono causa di una lacerazione che sfocerà nel suicidio; tutto sarà riversato nella poesia che avrà come unico tema la Calabria, cantata come lotta per la vita che costringerà molti all’emigrazione.
La ricostruzione è condotta recuperando materiali d’archivio e interviste a quelli che più l’hanno frequentato o per meglio dire, ha frequentato Costabile. Sostanziosa è, infine, la parte originale che spetta ai registi con le immagini in DVCAM e, talvolta, recuperando la cinepresa e la pellicola Super 8 (senza dubbio superiore).  Così la Calabria è vista lungo la linea ferroviaria Reggio – Roma, attraverso il finestrino del treno in corsa, come per mezzo di landscapes, carpite durante la giornata, che fissano una terra mitica stravolta da ciò che chiamiamo progresso.
* tale lo definì il poeta Giorgio Caproni


Among the film works of the duo Felice D' Agostino / Arturo Lavorato the most successful I think The Song of the New Immigrants of 2005 Reconstruction enough of the original life of the poet Franco Costabile ( 1924-1965 ) .
 Dear filmmakers do not worry , I'm not here to rebuild it myself. I will only say that in Costabile , as in Pier Paolo Pasolini 's life and poetry are one. The father's escape , the escape of his wife and his two little girls , the thought and the death of his mother , the abandonment of Sambiase first to Messina later to Rome , loneliness, cause a tear leading up to the suicide ; everything will be poured into the poetry that will have the sole theme of Calabria , sung as the struggle for life that will force many to emigrate .
The reconstruction is performed by retrieving archival materials and interviews with those who have attended the most or rather , he attended Costabile . Hearty , finally, is the original part that belongs to the directors with the pictures in DVCAM , and sometimes recovering the camera and the film Super 8 (no doubt higher). So Calabria is seen along the railway line Reggio - Rome , through the window of the train, such as by means of landscapes , snatched during the day, securing a mythical land upset by what we call progress.


qui sotto potete vedere solo una parte

giovedì 26 giugno 2014

Aporia e doni in Caulonia (RC)

     


“ Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare  il legame sociale tra le persone ”. Jacques T. Godbout
Al momento di girare Il dono (2003) Michelangelo Frammartino era un architetto che costruiva delle video-installazioni. Il dono è una video installazione gonfiata in 35 mm.
Il film come le video-installazioni non ha una trama, poggia su delle immagini dentro cui si muovono le figure, la luce e soprattutto, e qui sta la sua forza, i suoni o, se per voi è meglio, i rumori –  catturati con discrezione da Davide Sampieri  - creando l’armonia della musica. I dialoghi sono preventivamente esclusi.
C’è un paese, c’è un vecchio che ha lo sguardo sottaciuto di Buster Keaton, c’è un’ebete che si crede posseduta dal demonio, in realtà si dona a chiunque la carica in macchina, compreso il barbiere del paese. Questa però soccorre con il suo aiuto ( dono ) le vecchie che non hanno nessuno che si prenda cura di esse.
L’ebete è soccorsa dal vecchio che le regala una Vespa e sembrerebbe quasi che la voglia emancipare da quel darsi ai paesani.
Infine c’è il mare, con i suoi relitti sulla riva dove si vanno ad infrangere le onde.
“ L’ho chiamato Il dono il mio primo film perché il dono è un concetto aporetico, nel senso che il dono esiste e non esiste. Se tu doni non ma hai memoria del dono fatto vuol dire che senti il credito, allora non è più un dono, è uno scambio, allora devi farlo e dimenticarlo, cioè nello stesso istante in cui lo fai non lo devi fare, non dev’esserci “. Michelangelo Frammartino
Il dono è un film libero, che libera lo spettatore di farsi catturare dall’armonia, che è anche l’armonia della natura.
Girato a Caulonia a monte dell’antica Kaulon, in piena Magna Grecia, paese natale della famiglia Frammartino, il lavoro attraverso quei suoni di cui si diceva ci restituisce intaccati i luoghi e i colori della nostra infanzia: i vicoli silenziosi; le vecchie case, spesso disabitate; lo scorrere lento del tempo ricordato dal rintocco della campana della chiesa; la vallata che si espande sul mare Jonio; la fiumara, riflettente la luce solare.


domenica 8 giugno 2014

Calabria: passato, presente , futuro




Senza nulla togliere ad alcuni pregevoli film che verranno postati in seguito Articolo23 di Vittorio De Seta è il film più bello girato in Calabria e la sua particolarità è evidenziata dai pochi istanti su cui poggia. In cinque minuti la Calabria è ritratta attraverso passato, presente e futuro.
Su uno strato di suoni, rumori e voci che provengono dalla presa live De Seta scatta poche inquadrature,  liberamente alternando documentario e finzione, paesaggio e figure, attori non professionisti e interpreti poco conosciuti, tra cui la messinese Margherita Smedile.
Tutto è catturato attraverso i colori estivi .  Pentedattilo ha perso nel tempo la sua forza rinnovatrice, quello che rimane sono pochi vecchi, genitori solitari, case abbandonate: i giovani sono emigrati verso uno dei tanti nord anonimi.

Per incanto Pentedattilo -  uno sfondo più volte ripreso, e qui citato, nei film girati in Calabria – diventa il nord di altri luoghi più a sud: altri giovani di un colore e una nobiltà diversa, con una sensibilità rinnovatrice.


giovedì 15 maggio 2014

Piccoli calabresi crescono



Come è  risaputo nel 1951 la provincia di Reggio Calabria subì una delle sue periodiche alluvioni, forse la più devastatrice, certamente la più ricordata. A seguito di quel disastro circa trecento fanciulli partirono per il nord,per una volta non come emigranti. Furono ospitati in una colonia sul Lago Maggiore che apparteneva alla Edison, gigante dell’elettricità pre Enel. In quel periodo Ermanno Olmi faceva il suo apprendistato registico girando dei cortometraggi per conto di quella fabbrica. I bambini calabresi vennero ospitati a Suna, sul Golfo Borromeo e furono i protagonisti del film che oggi apre la filmografia del regista bergamasco: Piccoli calabresi sul Lago Maggiore… Nuovi ospiti della Colonia di Suna (1953). Bastano otto minuti e passa  ad Olmi per essere già il regista  de L’albero degli zoccoli .  Dopo le prime tragiche immagini di una terra devastata,  dalla colonia Vincenzino scrive ai genitori  le sue impressioni di un altro mondo molto meglio organizzato … un ‘altra bambina canta del ciucciu mortu … il piccolo Carmelo malfermo dalla nascita dopo un intervento chirurgico muove i primi passi e sogna di diventare capo stazione, magari a Bovalino.
Girato ancor prima dei documentari di Vittorio De seta editati qualche post fa, quello di Ermanno Olmi ci presenta una Calabria, che seppure vista da lontano, è una terra incitata a sollevarsi dalle restrizioni e camminare con i propri piedi e sono i bambini a spronarla e per questo incitamento Olmi è da ringraziare; nel suo, a tratti facile entusiasmo, è un film che commuove: verrà De Seta e metterà un altro punto e a capo che è ancora lì, fermo, nonostante i vari lifting di ammodernamento attuati, per altro con i finanziamenti CEE che si spendono senza nessuna ragione visto che ancora i giovani prendono la via dell’esodo, e non solo loro, e il capo stazione è ormai una figura soppiantata dall’elaboratore che mediante un programma fa andare e tornare i treni.

giovedì 17 aprile 2014

Come in un gioco insensato. Appunti sulla Calabria di De Seta.

Vittorio De Seta
1923 - 2011
La costruzione sconsiderata del Sud, così come massimamente si è compiuta dal secondo dopoguerra in avanti, è il concetto cardine di In Calabria, il lungo documentario che Vittorio De Seta girò nel 1993, quarant’anni dopo quelli che il regista palermitano da poco scomparso dedicò alla civiltà preindustriale del Mezzogiorno. È un film a colori, girato in 16 millimetri e della durata di ottanta minuti, sulla disintegrazione del sistema sociale meridionale già paventata negli anni Cinquanta all’interno dei documentari più brevi dei quali si è parlato nei numeri 42 e 44 di «Lunarionuovo» e che, come rivelano le immagini di In Calabria, puntualmente si è compiuta nella fase tarda della modernità: al tempo ritualizzato e all’esigenza di armonia di una volta sono subentrati il ritmo frenetico e il progresso insensato legati a un’idea di industria e di macchina che, non funzionando, è sfociata in degrado ambientale, emigrazione, disoccupazione e criminalità. De Seta individua in Calabria alcuni dei simulacri di questo fallimento e ne estende la portata all’intera civiltà capitalistica; il più delle volte si tratta di luoghi abbandonati: i paesi fantasma, come Laino Castello, le rovine delle fabbriche disseminate sulla piana di Lamezia Terme, il porto inutilizzato e il centro siderurgico di Gioia Tauro, sono tutti residui di una insufficienza che, secondo De Seta, è spirituale prima ancora che economica e sociale e che il rinnovamento della sacralità tradizionale di alcune feste religiose, come quella dei santi Cosma e Damiano a Riace, della Madonna della Montagna al santuario di Polsi e di san Rocco a Gioiosa Jonica, non riesce, ovviamente, a colmare del tutto. Ma, d’altro canto, permane in quel vuoto anche il sapere accademico, frammentato com’è in un’infinità di specializzazioni che non sono capaci di rispondere alle domande essenziali dell’uomo e che, in Calabria, trova il suo equivalente nella fredda struttura dell’Università di Arcavacata come De Seta non tarda a evidenziare nelle sequenze centrali del film.
La religiosità cui egli allude è, più propriamente, un principio di bene morale e di solidarietà, cui è possibile attingere soltanto attraverso un richiamo continuo al proprio senso di responsabilità e, in conseguenza di ciò, alla propria vera identità, all’autenticità della propria cultura, al progresso delle coscienze. E invece
 In Calabria mostra un Sud senza senso («tutto alla rinfusa, senza un disegno, come in un gioco insensato» recita la ferma voce fuori campo commentando gli ultimi fotogrammi della pellicola) che versa in una condizione ormai difficile da risanare, nonostante sia lo stesso De Seta a indicare con chiarezza e, specialmente nel finale, con qualche eccesso di retorica, quale strada si sarebbe potuta percorrere: quella della semplicità, dell’accordo con la natura, della concordia, dell’altruismo. Un cammino che, però, non conduca a un recupero liturgico di tali elementi, ma che pervenga, piuttosto, alla celebrazione di una comunità che si riconosca giorno per giorno in ogni aspetto della propria vita. Appare subito evidente come il momento rituale si impregna di significato soltanto se il riconoscimento, e dunque l’esercizio critico delle competenze, è quotidiano, non servendosi esclusivamente, come è accaduto troppo spesso finora, dell’occasione festiva o del richiamo a una tradizione o a una familiarità infondate nel vano tentativo di rinnovarsi, di attualizzarsi. Guardando le immagini delle celebrazioni calabresi, infatti, sorge piuttosto il sospetto, cui si è fatto cenno in precedenza, che esse, funzionando come specchi sui quali cogliere i difetti delle comunità che le allestiscono (oppure insistendo forzatamente su un vincolo tra vita sociale ed evento rituale ormai da tempo consumatosi), finiscano per partecipare al tracollo spirituale del Meridione. Sul versante opposto, è bene comprendere come la Calabria di De Seta incarni il rischio che potrà correre l’umanità intera qualora dovesse prendere in considerazione l’opportunità di attenersi alle logiche del benessere e del profitto a tutti i costi cui si è condannato l’intero sistema sociale rappresentato nel film del ’93.
Ma cosa si nasconde al di là delle rovine così recenti mostrate da De Seta? Esse non costituiscono i frammenti di ciò che è stato deteriorato o di ciò che è crollato; sono, piuttosto, l’indice di ciò che non è stato fatto, di ciò che è rimasto incompiuto e, mediante un paradosso soltanto apparente, di ciò che potrebbe verificarsi in un futuro non troppo lontano. Quei resti sono segni di pietra e di metallo che rimandano esemplarmente a un tempo che consente di misurare il carattere effimero dei destini umani. Ad essi, insomma, non ci si può accostare mediante l’emozione di ordine estetico che suscitano le antiche spoglie di una civiltà scomparsa: segnalano, invece, un tempo vuoto, ma coperto di cemento e di erbacce e, in un certo senso, impuro, spiegabile soltanto storicamente. È per questo che a De Seta è sembrato utile osservare gli scheletri abbandonati delle fabbriche e dei porti calabresi al fine di una comprensione efficace della situazione meridionale nel corso di quella che Marc Augé definisce
surmodernità: essi insegnano a riprendere coscienza della storia proprio nel momento in cui – come sostiene l’antropologo francese – «tutto concorre a farci credere che la storia sia finita»1. Somigliano a cantieri, circondati da terreni incolti, e suscitano un senso di attesa che, destinato a protrarsi indefinitamente, comunica visivamente un disagio di lungo corso, accertato storicamente. Che, rispetto agli anni Cinquanta, il senso dei luoghi sia mutato, che si viva ormai in assenza di riferimenti culturali e che la prospettiva futura sia definitivamente compromessa è facile desumerlo dal modo in cui De Seta, ora più di allora, riesca a creare un piano di riflessione uniforme sul quale porre ogni residuo naturale, l’artificio e le fabbriche, le città abbandonate e quelle infestate dai fumi di scarico delle automobili, le ricorrenze religiose e il modo di viverle. Per constatare cos’è rimasto sotto tutto questo, il regista cerca (e trova) una modalità espressiva che sia in grado di mostrare più efficacemente la disintegrazione del Sud: unisce in un unico ambiente filmico il suono delle campane e il baccano delle automobili e dei camion sui viadotti, i segnali colti spesso in presa diretta dei clacson e dei macchinari per il calcolo e il rumore dei tuoni, dell’acqua piovana e del coltello che incide la pelle del maiale, e persino gli inserti cantati della corale greco-albanese di Lungro e i frequenti ma non debordanti commenti della voce off di Riccardo Cucciolla. Ne viene fuori un film, come di consueto girato da De Seta sulla base di un’esile sceneggiatura, che riesce a documentare il ritmo di quell’universo contaminato, insensato, incomprensibile, senza però sovraccaricare troppo l’attenzione dello spettatore che, mediante un imprevisto quanto flebile esercizio d’ottimismo, continua a essere chiamato a integrare ciò che osserva con la sua sensibilità. Ciò è possibile perché lo sguardo del regista mantiene quell’inquietudine originaria che già caratterizzava i suoi lavori precedenti e che nasconde la reale natura del suo modo di intendere il documentario: esso, in fin dei conti, consiste nel riprendere quello che succede, senza barare, senza cioè influenzare o cercare di indirizzare il corso degli eventi mostrati, anche se questi dovessero sussumere la negazione di ciò che, oltre la superficie delle cose, definirebbe l’essenza del Meridione. Persino nel caso in cui questa dovesse rivelarsi vacante.

ALESSANDRO GAUDIO
1.      M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo (2003), trad. di A. Serafini, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.
L’originale è qui: