giovedì 11 dicembre 2014

La resistenza della lucertola e la croce al neon

di Daniela Persico

Non è facile realizzare un’opera prima di questi tempi in Italia, ancora meno avere la libertà e la possibilità di scavare in se stessi, con estrema sincerità e libertà, per mettere in scena una storia che partendo dal particolare (la vita di parrocchia a Reggio Calabria) arrivi a parlarci della complessa situazione storica in cui ci troviamo.
Corpo Celeste riesce nelle alte intenzioni della sua autrice, la giovane Alice Rohrwacher (che, come sarebbe bello accadesse più spesso, esordisce prima dei trent’anni, in un panorama di vecchi-giovani) e si situa in una nuova scia di opere italiane realizzate da registi con una formazione lontana dalle “scuole di cinema” e più vicina alle strade del documentario.
Unico film italiano alla Quinzaine (e arrivato a un soffio dalla Caméra d’Or), Corpo celeste è la storia di una crescita, il racconto di un momento sospeso nella vita di un’adolescente dallo sguardo limpido e dal corpo in trasformazione. Attorno a lei il mondo degli adulti, taluni confusi, altri annoiati, altri ancora soltanto troppo stanchi per rispondere alle domande di Marta, all’inarrestabile ricerca del suo spazio, del rapporto con gli altri e con le sue tensioni più alte. Di fronte a una Chiesa dimentica dell’urlo di Cristo (“Eli, Eli, lama sabachthani”), lontana dalla verità della Parola e vicina alla precarietà dell’apparenza, Marta oppone uno sguardo resistente, un incedere sbilenco ma ostinato, un corpo ancora puro e trasparente nei suoi splendidi e immediati rossori.
La giovane regista, calibrando – non senza difficoltà – il lato grottesco della vicenda con il punto di vista puro di Marta, sceglie l’essenzialità di una macchina da presa che talvolta avvolge i suoi personaggi, altre sembra isolarli, riprenderli da lontano, mentre ripensano alle loro vane giornate. Marta osserva e si muove, costruendo un nuovo itinerario di speranza, tra la gioia della vita (i gattini appena nati), il dolore della perdita (le prime mestruazioni che segnano il suo allontanarsi dall’infanzia), fino alla semplicità di un gesto di libertà che diventa rito iniziatico verso una nuova consapevolezza (l’entrata nel canale, suggellata da un’inquadratura che trasforma il suo corpo, così reale, in ombra metafisica).
Marta è il corpo celeste che tiene unita la Terra con il Cielo nella scoperta finale di essere grande ma continuare a poter sentire vibrante la realtà, quasi fosse un miracolo.

"VORREI FOSSE RICORDATO COME UN FILM STORICO": INCONTRO CON ALICE ROHRWACHER
Al contrario di gran parte del cinema italiano, che usa le città in maniera intercambiabile, Corpo celeste offre un ritratto di Reggio Calabria nella sua complessità, che restituisce un tuo approccio legato al documentario. Come hai sviluppato la vicenda partendo dalla città?
Quando ho iniziato a pensare al film ero spesso a Reggio Calabria, così con il mio produttore, Carlo Cresto-Dina, siamo partiti proprio dalle suggestioni che mi offriva la città. La conoscevo piuttosto bene e avevo già ambientato lì un corto (inserito nel film-collettivo Checosamanca): due bambini che, giocando nella Fiumara, raccolgono rifiuti e scarti per costruirsi la loro casa, un mondo fantastico in cui giocare. Succede veramente e sono gli stessi bambini che ho voluto far incontrare a Marta, la protagonista di Corpo Celeste, alla fine del film. Per me la loro energia è una metafora potente: penso che alla società di oggi non manchino assolutamente né le possibilità né lo spazio, piuttosto è raro trovare la tensione necessaria per cambiare uno stato di fatto. Dopo le recenti vittorie alle elezioni comunali, mi sono augurata che il mio film potesse essere visto in futuro come un film storico sull’Italia berlusconiana!
Il film si presta a molteplici letture: talvolta sembra che la critica alla Chiesa non sia il punto di partenza, ma che offra lo spunto per far emergere una società dello spettacolo che ha ormai divorato ogni tipo di rapporto umano.
 In effetti la mia idea di partenza era raccontare che cosa rimane oggi della vita comunitaria in Italia. Avendo scelto come scenario Reggio Calabria, città totalmente abbandonata dallo Stato, mi è parso evidente che l’unica parvenza di vita sociale gravitava attorno alla Chiesa, ormai radicalmente cambiata. Poi avevo trovato emblematico un fatto di cronaca letto su un giornale locale: una colletta per togliere un crocifisso moderno e ritornare a uno figurativo. Molti hanno gridato allo scandalo perché ho mostrato un sacerdote che raccoglie firme per un candidato politico: l’ho visto fare in molte parrocchie. Talvolta questi sacerdoti sono anche un collante tra politica e cittadini, reclamano (e in alcuni casi) ottengono qualcosa per il loro quartiere. Nel film ho scelto di raccontare la figura del sacerdote come qualcuno che vive il suo ruolo unicamente in quanto professione e per questo tiene molto a una possibile promozione. Anche lui fa parte di un’Italia cambiata e smarrita, dove è sopravvissuta soltanto la forma e non la sostanza. Penso sia questo il fatto per cui ho scelto la Chiesa per sviluppare il mio film: parlare di religione, di tensione verso il sacro, e della sua attuale manifestazione segnava un ottimo punto per riuscire a raccontare il drammatico impoverimento della nostra società.
È piuttosto impressionante assistere al catechismo dei nostri tempi…
Sono convinta che possono sembrare scene eccessive, ma nascono dall’osservazione di alcune parrocchie di Reggio Calabria: ci sono libri per la catechesi che hanno sulla copertina frasi che echeggiano i reality televisivi (“Saranno testimoni”) e si passa molto tempo ad imparare canzoni (“Mi sintonizzo con Dio”) o balli (“Il balletto delle vergini”). C’è una totale assenza della “Parola”, come se dovesse spaventare o far allontanare i ragazzi. Insomma si usa il linguaggio falso per antonomasia della televisione, per insegnare dei contenuti che pretendono di essere la “verità”. Anche la Chiesa, seguendo questo processo, punta al ribasso, come del resto hanno fatto tante altre istituzioni tra cui la scuola…
Ma la tua scelta alla fine è ricaduta proprio sulla Chiesa che è il vero perno, sia tematico che figurale, del film.
Sono atea, ma non credo che la vita si riduca alla materia del momento; mi interessa l’essere in ricerca e all’università mi sono occcupata di Storia delle religioni. Mi piaceva mettere in scena la storia di una ragazzina che vive intensamente la propria pulsione religiosa e si trova a confrontarsi con la realtà. Il titolo del film, che prima era provvisorio e non è mai stato messo in dubbio, arriva dall’omonimo libro di Anna Maria Ortese: mi ha ispirato soprattutto per la sua lettura del mondo come sovramondo. Per quanto riguarda alcune scelte figurative del film, penso di essere – come tutti gli italiani – impregnata di cultura cattolica, anche nella sua forma più alta come l’arte sacra.
Il collegamento all’arte sacra emerge nell’uso particolare della luce e nella presenza di alcuni simboli che costellano il film, in un giusto (e precario) equilibrio tra realismo e astrazione.
Non so se è giusto parlare di simboli: è vero che la lucertola del finale è evidentemente un simbolo, ma nasce dal fatto che quando mi hanno portato vicino al canale alcuni bambini me ne hanno realmente messa una in mano! La sensazione della sua pelle sgusciante e del suo corpo senza testa ancora vibrante mi è rimasta lungamente impressa. Solo dall’esperienza sono risalita al suo potenziale di simbolo. Lo stesso è avvenuto per la scelta della fotografia: volevo ci fosse una luce invernale, livida, e con Héléne Louvart, il direttore della fotografia, abbiamo lavorato in questa direzione. Alcune sequenze più evocative e sospese sono arrivate dalla realtà: Marta che entra nel canale è un’ombra perché è l’unica possibilità per riprenderla in quel tunnel; solo in un secondo tempo si può pensare alla suggestione di questo suo “battesimo con la realtà”.
Marta non è soltanto il personaggio principale del film, ma è anche l’altezza da cui si guarda la storia. Come hai trovato l’interprete che favorisse questa giusta distanza?
Dopo l’immersione nelle parrocchie di Reggio Calabria, avevo paura di essere troppo dura e di apparire giudicatoria: trovare la ragazzina adatta a incarnare Marta mi avrebbe aiutato enormemente a trovare il giusto sguardo sulla realtà. Cercavo qualcuno che si pone già dei grandi interrogativi ma conserva ancora lo sguardo libero dei bambini, qualcuno che fosse semplice e pieno di stupore, in netta contrapposizione con il mondo che la circonda, dalle croci al neon alle complessità degli adulti, passando per i cibi troppo elaborati che si mangiano in quella regione. All’inizio ho fatto dei casting a Reggio Calabria, ma non riuscivo a trovare l’interprete giusta. Sono rimasta sorpresa del fatto che tutte le bambine sanno già cosa vogliono essere da grandi, come se non potessero permettersi di vivere un importante momento di indeterminatezza. Ho pensato che potesse essere positivo che la protagonista venisse da lontano (da qui l’idea della Svizzera) e quindi fosse diversa dagli altri ragazzini del film, con cui abbiamo lavorato in forma laboratoriale. Yile Vianello l’ho trovata in una comunità auto-sufficiente dell’Appennino, una realtà che conoscevo bene, dove i ragazzini conservano questo sguardo incantato e profondo sul reale. È stato importante riuscire a lavorare a lungo con lei, ma partivamo già da una posizione di vantaggio: la sua alterità rispetto alla Calabria.
Rispetto ad altri film (e soprattutto ad altre opere prime), il rapporto con gli attori non professionisti è pienamente riuscito e il più delle volte si sposa con l’intervento dei volti noti. Hai avuto modo di lavorare a lungo con loro?
Sono molto felice di essere riuscita, riducendo al minimo la troupe, ad avere ben sette settimane di ripresa. Un tempo piuttosto lungo, che ho ottenuto optando per scelte di regia essenziali: piuttosto che un dolly ho preferito avere un giorno in più di riprese! Il progetto del film si è articolato in un arco di tempo piuttosto lungo, abbiamo aspettato tre anni prima di riuscire a produrlo, e alla fine la nostra persistenza è stata premiata. Dallo scorso Natale, quando il film era pronto, abbiamo ricevuto inviti da molti festival, tutti i programmatori stranieri si sono mostrati felici di ritrovare un certo cinema italiano che sempre più difficilmente si riesce a produrre. Spero che il mio film, e quello di Michelangelo Frammartino che lo ha preceduto alla Quinzaine, rappresenti un piccolo segnale per il cinema indipendente.

(L'incontro con Alice Rohrwacher è avvenuto a Milano, il 30 maggio 2011 in occasione della manifestazione "Cannes e dintorni")

L'originale è qui:
http://www.filmidee.it/archive/27/article/86/article.aspx

1 commento:

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