Corpo celeste
(2011) della signora (o signorina) Alice Rohrwacher è la pellicola – scordandomi dell’esistenza
di questo supporto debbo confessare di sconoscere quanto l’ha sostituito: un
file, un disco, una memoria fluttuante? perché non l’hanno chiamato
kubrickianamente Hal 9000! – che abbassa le serrande della cineteca del Bruzio.
Un anno separa Le quattro volte di Michelangelo Frammartino da Corpo celeste. Così anche la loro
presentazione alla sezione Quinzaine des réalisateurs del
Festival di Cannes. Lavori accolti favorevolmente in quelle occasioni. Più che
a questo, il film della Rohrwacher si
avvicina a quello di esordio di Michelangelo Frammartino, Il dono, del 2003. Corpo celeste è anch’esso un esordio e vorremmo un esordiente
all’anno se si elegge la Calabria come luogo dove nascono storie che non hanno
per protagonisti armi e violenze. La signora (o signorina) Alice Rohrwacher era già
stata a Reggio Calabria per girarvi un cortometraggio, Il giardiniere della fiumara, che faceva parte con altri di un
lavoro collettivo intitolato Checosamanca
(2006). Su quell’esile trama, ragazzi che in giro per la fiumara, raccogliendo
“ resti spezzati di un passato “, riescono a
concepire un’installazione degna della Fiumara d’Arte di Antonio Presti.
L’obiettivo, questa volta, lasciando sullo sfondo la fiumara ci svela che quella
è parte della città di Reggio. In essa c’è una piccola immigrata, questa volta
in senso inverso, proveniente con mamma e sorella maggiore dalla Svizzera. Si
chiama Marta, una sola volta Martina. Ha quasi tredici anni ed è sulla linea d’
ombra che la separa dall’adolescenza. Per renderla alla pari con gli altri
ragazzi del quartiere la madre le fa frequentare il corso che la trasformerà in
soldatessa di Gesù. Qui la piccola viene a contatto con gli altri due
protagonisti del film: l’insegnante di catechismo, Santa ed il parroco della
chiesa dove essa sarà cresimata, don Mario. Se l’insegnante di catechismo la
possiamo definire un’allineata del cattolicesimo, il parroco diventa un
allineato dell’arrivismo che si è insinuato nelle Curie. Usano i correnti mezzi di comunicazione:
atteggiamenti di derivazione televisiva la prima, telefonino acceso anche
durante le funzioni il secondo. Per quest’ultimo il Breviario è diventato un
formulario ripetitivo la cui lettura è fatta con la mente alla riscossione
delle pigioni ed alla campagna elettorale. Con i due Marta dovrà scendere a
compromessi. Ma quella sorta di rito di iniziazione sceglierà di farlo da sola,
nell’acqua. Riaffiorerà vibrante come quella piccola anguilla o sciobachello
che uno dei giardinieri della fiumara le metterà in mano. Fin qui la storia
dentro il film. Quello che interessa noi sono, come sempre, le quinte dove i fatti
accadono: la Calabria e questa volta il suo ex capoluogo. Possiamo dire che il degrado della religione,
il film non vi si oppone mai, corrisponde al degrado della città.
Quell’orribile stanzone uscito fuori dalla mente di qualche architetto
formatosi nella facoltà reggina coincide con i condomini alzati su tutto il territorio, molto spesso a
margine delle fiumare. E quella città che si vede sullo sfondo della bruma che
avvolge lo Stretto non è per niente differente. Non si riesce nemmeno a
sostituire un indecoroso crocifisso dove il martire è tratteggiato con tubi al
neon. Il sostituto, la piccola Marta lo spolvera soffiandoci sopra il suo alito
innocente, come se volesse rianimarlo, è
finito per sempre in mare. Il racconto della Rohrwacher è fatto in modo
da innestare fra loro naturalismo, verismo e neorealismo, e per il cinema,
risalendo alle opere di Roberto Rossellini, definite dalla critica ufficiale
come approssimative se non dilettantesche, ma che hanno formato il cinema giovanile a cavallo
tra i cinquanta ed i sessanta.
Ad epigrafe di tutto questo viaggio nel cinema in
Calabria voglio mettere questa citazione che corrisponde alla parte finale del
libro di Norman Douglas Old Calabria.
In quest’angolo di
Magna Grecia la natura si è manifestata con severa parsimonia: roccia e acqua!
Ma queste rocce e queste
acque sono una realtà, sono la materia di cui è formato l'uomo. Un paesaggio
così luminoso, così deciso
a rifiutare ogni accessorio, esige d’essere espresso in forme semplici e
coraggiose; ci porta verso la terra,
a cui apparteniamo; guarisce della malattia dell°’introspezione e risveglia
quella capacità che corriamo il rischio di perdere nella nostra morbosa
malinconia iperborea: la capacità di un sincero disprezzo.
Disprezzo per quella teoria-spauracchio che vorrebbe indurci a trascurare ciò
che è terreno e tangibile. Che cosa è una vita ben vissuta, se non la felice
liberazione dal caos primordiale, da quelle comode vaghezze
intangibili che si celano intorno a noi, pronte a coglierci nei momenti di
debolezza?
L'uomo saggio, questo
perfetto selvaggio, sarà l'ultimo a sottrarsi all’influenza di una simile
radiosa realtà, anzi cercherà di stringere ancor più il legame che lo unisce ad
essa e studierà il modo di stabilire un rapporto più durevole e
intimo. Che apra gli occhi: un adattamento razionale gli si offre. Da queste
brune
rocce che punteggiano
il quieto Ionio, da questa benefica solitudine, può trarre, e portare con sé
nel movimentato fragore delle città, i princìpi di una sapienza nitida e
autentica e assolutamente terrena una incoraggiante
filosofia, che favorirà solari cattiverie, insieme ai rimpianti dell’addio.
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