giovedì 4 dicembre 2014

Fine della Cineteca del Bruzio


Corpo celeste (2011) della signora (o signorina) Alice Rohrwacher è la pellicola – scordandomi dell’esistenza di questo supporto debbo confessare di sconoscere quanto l’ha sostituito: un file, un disco, una memoria fluttuante? perché non l’hanno chiamato kubrickianamente Hal 9000! – che abbassa le serrande della cineteca del Bruzio. Un anno separa Le quattro  volte di Michelangelo Frammartino da Corpo celeste. Così anche la loro presentazione  alla sezione  Quinzaine des réalisateurs del Festival di Cannes. Lavori accolti favorevolmente in quelle occasioni. Più che a questo, il film della Rohrwacher si avvicina a quello di esordio di Michelangelo Frammartino,  Il dono, del 2003. Corpo celeste è anch’esso un esordio e vorremmo un esordiente all’anno se si elegge la Calabria come luogo dove nascono storie che non hanno per protagonisti armi e violenze. La signora (o signorina) Alice Rohrwacher era già stata a Reggio Calabria per girarvi un cortometraggio, Il giardiniere della fiumara, che faceva parte con altri di un lavoro collettivo intitolato Checosamanca (2006). Su quell’esile trama, ragazzi che in giro per la fiumara, raccogliendo “ resti spezzati di un passato “, riescono a concepire un’installazione degna della Fiumara d’Arte di Antonio Presti. L’obiettivo, questa volta, lasciando sullo sfondo la fiumara ci svela che quella è parte della città di Reggio. In essa c’è una piccola immigrata, questa volta in senso inverso, proveniente con mamma e sorella maggiore dalla Svizzera. Si chiama Marta, una sola volta Martina. Ha quasi tredici anni ed è sulla linea d’ ombra che la separa dall’adolescenza. Per renderla alla pari con gli altri ragazzi del quartiere la madre le fa frequentare il corso che la trasformerà in soldatessa di Gesù. Qui la piccola viene a contatto con gli altri due protagonisti del film: l’insegnante di catechismo, Santa ed il parroco della chiesa dove essa sarà cresimata, don Mario. Se l’insegnante di catechismo la possiamo definire un’allineata del cattolicesimo, il parroco diventa un allineato dell’arrivismo che si è insinuato nelle Curie. Usano  i correnti mezzi di comunicazione: atteggiamenti di derivazione televisiva la prima, telefonino acceso anche durante le funzioni il secondo. Per quest’ultimo il Breviario è diventato un formulario ripetitivo la cui lettura è fatta con la mente alla riscossione delle pigioni ed alla campagna elettorale. Con i due Marta dovrà scendere a compromessi. Ma quella sorta di rito di iniziazione sceglierà di farlo da sola, nell’acqua. Riaffiorerà vibrante come quella piccola anguilla o sciobachello che uno dei giardinieri della fiumara le metterà in mano. Fin qui la storia dentro il film. Quello che  interessa  noi sono, come sempre, le quinte dove i fatti accadono: la Calabria e questa volta il suo ex capoluogo.  Possiamo dire che il degrado della religione, il film non vi si oppone mai, corrisponde al degrado della città. Quell’orribile stanzone uscito fuori dalla mente di qualche architetto formatosi nella facoltà reggina coincide con i condomini  alzati su tutto il territorio, molto spesso a margine delle fiumare. E quella città che si vede sullo sfondo della bruma che avvolge lo Stretto non è per niente differente. Non si riesce nemmeno a sostituire un indecoroso crocifisso dove il martire è tratteggiato con tubi al neon. Il sostituto, la piccola Marta lo spolvera soffiandoci sopra il suo alito innocente, come se volesse rianimarlo,  è finito per sempre in mare. Il racconto della Rohrwacher è fatto in modo da innestare fra loro naturalismo, verismo e neorealismo, e per il cinema, risalendo alle opere di Roberto Rossellini, definite dalla critica ufficiale come approssimative se non dilettantesche, ma che  hanno formato il cinema giovanile a cavallo tra i cinquanta ed i sessanta.

Ad epigrafe di tutto questo viaggio nel cinema in Calabria voglio mettere questa citazione che corrisponde alla parte finale del libro di Norman Douglas Old Calabria.
In quest’angolo di Magna Grecia la natura si è manifestata con severa parsimonia: roccia e acqua! Ma queste rocce e queste acque sono una realtà, sono la materia di cui è formato l'uomo. Un paesaggio così luminoso, così deciso a rifiutare ogni accessorio, esige d’essere espresso in forme semplici e coraggiose; ci porta verso la terra, a cui apparteniamo; guarisce della malattia dell°’introspezione e risveglia quella capacità che corriamo il rischio di perdere nella nostra morbosa malinconia iperborea: la capacità di un sincero disprezzo. Disprezzo per quella teoria-spauracchio che vorrebbe indurci a trascurare ciò che è terreno e tangibile. Che cosa è una vita ben vissuta, se non la felice liberazione dal caos primordiale, da quelle comode vaghezze intangibili che si celano intorno a noi, pronte a coglierci nei momenti di debolezza?
L'uomo saggio, questo perfetto selvaggio, sarà l'ultimo a sottrarsi all’influenza di una simile radiosa realtà, anzi cercherà di stringere ancor più il legame che lo unisce ad essa e studierà il modo di stabilire un rapporto più durevole e intimo. Che apra gli occhi: un adattamento razionale gli si offre. Da queste brune
rocce che punteggiano il quieto Ionio, da questa benefica solitudine, può trarre, e portare con sé nel movimentato fragore delle città, i princìpi di una sapienza nitida e autentica e assolutamente terrena  una incoraggiante filosofia, che favorirà solari cattiverie, insieme ai rimpianti dell’addio.

Nessun commento:

Posta un commento