A voler vedere con
gli occhi di un innamorato la Calabria che sorge dalle immagini così come dai
suoni, carpiti e restituiti intatti ne Le
quattro volte (2010) di Michelangelo Frammartino, diremmo che non è
cambiato niente, tutto è rimasto come quando la Regione era abitata da pochi.
Arcaicità, credenze e riti ancorati nel passato. Boscaioli, pastori e carbonai.
Caulonia, le Serre, Alessandria del Carretto: sud, centro e nord di una terra
amata e riamata. Unico elemento di unione è un lento motocarro che trasporta il
carbone nei paesi, caricato dapprima dalla legna che serve per produrlo.
Qualche volta serve anche per condurre i partecipanti travestiti per il rito
del Venerdì Santo, giorno di morte che preannuncia la resurrezione dei e nei
campi. Se c’è una storia non ci è rivelata, la si raccoglie stando
pazientemente seduti ad osservare: ancora una resurrezione, quella della
trasmigrazione delle anime; dall’uomo al
capretto, all’albero. Meta finale è il cielo, da dove ridiscenderà per un ciclo
che non ha mai fine. Anime bianche appunto. Il film è stato accolto con favore
al suo apparire, molto di più oltre i confini italici e meglio nei paesi
nordici, luoghi da cui sono partiti i grandi viaggiatori che hanno percorso e
ripercorso la Calabria dal XVI° secolo in avanti. Nell’opera di Frammartino se vogliamo possiamo cogliere
la lezione che fece per noi Vittorio De Seta con il suo In Calabria (1993). Allo stile scarno di De Seta Frammartino
risponde con lunghe statiche immagini, limpide e ricercate limitando le
panoramiche della cinepresa.
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