Non so se Mira*, il film indiano proiettato nell'edizione originale a cura dell`Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente e dell`Associazione italo-indiana, potrà essere doppiato e presentato a un pubblico più esteso di quello degl’invitati romani che si pigiavano, ed era la haute della città, nei passaggi e lungo le pareti della capace sala. Sarebbe uno spettacolo curioso e in qualche modo sconcertante. L'arte del film è arrivata fin nei più remoti paesi superando tutte le barriere anche delle religioni più gelose, la sua sintassi è accessibile a tutti, e a quanto pare abbastanza facilmente. Gl’intenditori sono esilarati di certe scene che essi scambiano per trovate, come le scene del tribunale e dell'indovina in Rasciomon, memorabili; e si tratta di ciò che originale e della tradizione scenica nazionale è trasportato in questa arte, meccanica. Tanto in quel film giapponese, come in Mira, lo spettacolo serba le esigenze del dramma antico, vale a dire qualche cosa di rituale. Mira è, in più, un dramma mistico, della mistica indiana traboccante di abnegazione suprema e di suprema gioia della vita. Vi cercheremmo inutilmente una qualunque velleità d'intreccio secondo le abitudini di indovinello, assunte spesso dal cinema occidentale; il racconto ha l'andatura d'una biografia esemplare, dall'infanzia alla morte, d`un personaggio straordinario, una santa, e una santa apostolica. Questo mondo che ha raggiunto i culmini del sentimento religioso, ci dice qualche cosa che noi conosciamo attraverso il misticismo occidentale delle grandi epoche, un senso di comunione con la natura, un trasporto d`amore che si esalta nella danza e nel canto, e in essi trova la comunione col dio.
Corrado Alvaro, «Il
Mondo», 12 aprile 1952
Ellis R. Dungan, Meera*, 1945
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