mercoledì 29 marzo 2017

La letteratura della terra e Vasilij Šukšin - pt. 1

Ed è questa, in fondo, una costante della cultura - e della letteratura russe: un valore indeclinabile, che non è un ripiegamento intellettuale verso le malie delle georgità o un cedimento di nostalgia alla natura, primigenio "provocatorio" della cultura.
E' una costante che ha una radice nella stessa tradizione della gente di campagna. La quale ha espresso nel canto la fedeltà alla propriaidentità e il proprio epos nei canti bylinici, autentiche occasioni divita collettiva indicizzate dal nomadismo dei cantori. La vita comunitaria dunque della gente della campagna è stata da sempre rinvigorita da questo tessuto connettivo, da questo patrimonio comunque che veniva esaltato nelle occasioni rituali di incontro - pesche stagionali, taglio dei boschi, ricorrenze religiose o etniche – ovvero
attraverso l'incessante itinerare degli umili artigiani che di villaggio in villaggio portavano, oltre al loro mestiere, il patrimonio, via via piú consistente, di questa melica corale contadina.
Le byline - res gestae cioè, avvenimenti di fatto accaduti, sedimento epico formatosi per gradi nei secoli con i bogatyriper protagonisti, a respingere ad una ad una le minacce che dall'esterno insidiavano la patria russa - sono dunque il patrimonio piú genuino del mondo rurale russo, soprattutto nel Sever[nord della Russia), nella Siberia e nei territori tenuti dal cosacchi.
Le byline sono il primo indice di una particolare spiritualità, lirica, fantasiosa e schietta, e di una sensibilità ruvida e appassionata che fascia la propria terra e la garantisce da ogni sfida piú o meno intimidatoria [al fondo, remoto, aleggia sempre costante e tenace lo spettro tartaro] che venga da fuori. E oggi l'esterno è la città,I'industrializzazione, il consumismo, con tutte le loro malattie sociali.
Accanto a questa espressione folk, spontanea emitica, v'è naturalmente nella cultura russa anche tutta una tradizione di attenzione alla terra e alla sua gente, che fu per secoli crucciata dalla servitù della gleba fino all'editto di emancipazione di Alessandro ll, del 3 marzo 1861.
Così in letteratura (e giusto per venire a tempi piú prossimi] dai vagheggiamenti idealizzanti di Sergèi Timofeevic  Aksàkov e dello stesso Ivan SergvèevicTurgénev, si passa nella seconda metà dell'Ottocento a tutta una produzione di rincalzo all`abolizione della servitú, una produzione che rivisita in lungo e in largo le miserie e le iniquità della vita contadina. Una tensione che avrebbe avuto probabilmente ancora in Lev Nikolàevic Tolstoj la sua espressione piú acuta e appassionata se il grande scrittore avesse condotto in porto il progetto del '77 -- l'anno della sua crisi - di un grande elogio del popolo delle campagne e della sua forza che si esprime soprattutto, appunto, nella devota coltivazione della terra.
E anche nel Novecento questa attenzione alla terra non smette, nei territori della letteratura. Ed è questa solerte auscultazione della campagna e della sua gente che šukšín prosegue, ponendosi in buona, in ottima compagnia. Impossibile in questa sede definire il quadro organico di questi interessi e di questa produzione. E' giocoforza procedere per nominazioni e per riferimenti; i quali però già indicano i sensi dell'estremamente modulata serie di approcci e di compromissioni con questa tematica.
Giusto per non rifarci direttamente al campione del realismo socialista, Maksìm Gorkij, ricorderemo alcuni dei suoi seguaci, quelli che piú direttamente, anche se non esclusivamente, seguirono la campagna e la sua gente nel lento moto di metamorfosi sociale e politica; e iniziarono l'inventario delle inferenze di questo cambiamento nell'anima del contadino russo.
Già nel corso della rivoluzione del 1905 Stèpan Gavriloviö Petròv detto Skitàlec, il “vagabondo” scriveva i suoi racconti sulla campagna russa, primo ragguaglio su un mondo che si muove. E tra i racconti di Sergej Nikolàevic Sergéev Ciènskij, uno degli esponenti del realismo critico prerivoluzionario, campeggia «Tristezza dei campi ››, acuminata parabola del superamento dei crucci per lo star bene.
Con grande forza espressiva Aleikséj Pàvlovic šapygin recupera le sue origini contadine e il timbro del mondo bilinico nel romanzo « 'L'eremitaggio bianco ›› che è del 1915: e poi, nel '27, colla rievocazione quasi filologica dell'epopea di quell'indomito`contadino che nel 1670 riuscí con la sua ribellione a far tremare il trono degli zar, Strèpan Razin, un precursore di Pugacëv. E šukšin infatti, come dicemmo, confermerà il significato storico di quella ribellione e la perenne attualità di quel gesto - il no detto a un mondo  lontano, assente, che si  fa vivo imponendo parametri, comportamenti ed esazioni - intestando a Razin il romanzo cinematografico «Sono venuto a darvi la libertà ››.
Prima della conversione alla drammaturgia - e « Pugaëëšcina » (t.l.: I tempi di Pugacëv] è nel 1924 il suo biglietto di visita come autore teatrale - anche Konstantin  Andréevic Trenëv, lui pure di origine contadina, fissò la sua attenzione sullo status della vita della sua gente in una serie di ben azzeccati racconti.
Autonomi rispetto a Gor"kìj ed anzi esponenti della diffusa corrente del realismo critico che precede la rivoluzione d'ottobre sono Semën Pàvlovic Pod'jàöev e lvàn Egoròvic Vladimirov. Essi son gli ultimi campioni di una linea di intelligenciia contadina, di formazione per lo piú autodidattica, che s'era spontaneamente e inorganicamente costituita nella seconda metà del secolo con il proposito di rendere testimonianza quasi cronachistica ai tempi e alle situazioni esistenziali e sociali della gente delle campagne. I loro racconti, sovente di vena autobiografica, sono estremamente interessanti oltre che come documento sociologico e come rilevazione del fermento politico che attraversa la loro gente, anche dal punto di vista linguistico perché si nutrono di quella espressività singolare, della rotta freschezza e arguzia di quel dialogo. Non a caso l'uno e l'altro diverranno dopo la rivoluzione diligenti rubricatori della "ricostruzione socialista" delle campagne. Le quali d'ora in avanti, anche in seguito al grande decollo dell'alfabetizzazione, avranno sempre meno autori “genuini”, espressi cioè direttamente dalle province per testimoniare la vita della gente dei campi sarà in aumento invece la schiera dei cantori d'elezione, prosatori e poeti che scelgono la terra come materia di canto e termine del loro ingaggio sociale.
Prima che questa proletarizzazione delle campagne e di conseguenza anche della letteratura sulla campagna venisse acquisita  fu quasi un'avvisaglia - uno scrittore di estrazione liberalborghese, Viktor Vasil’evic  Mùjzel, proprio “piegandosi” da gentiluomo sulla vita miserevole dei contadini e raccontandola, andò oltre la "disposizione" del nostro Verga e trovò il destro per accostarsi alla sinistra politica.
Chi invece questo passo non seppe e non volle fare, rifiutando anzi con il gesto eloquente dell'esilio le prospettive rivoluzionarie, fu lvàn Alekséevic Bùnin. In lui l'estrazione sociale - i suoi erano grossi proprietari terrieri ridotti male - determinò unidirezionalmente il plurimo impegno di letterato - non ebbe neanche studi regolari , impegno che però raggiunse una prima acme, dopo i racconti “preparatori”, in due romanzi, « La campagna » e « Valsecca ››, che all'inizio degli anni dieci consacrarono il suo grande talento di narratore, che otterrà il riconoscimento del Nobel nel 1933.
ln questa "lunga suite epico-lirica” in due tempi emerge la sua sostanziale fedeltà alla tradizione: nel recupero dell'umanitarismo ottocentesco, nella celebrazione della natura e delle sue sane lusinghe, nell'ossequio a un tema di fondo - la campagna e i rapporti tra padrone e contadini, accomunati in fondo alla severa e tribolata religione della terra - sempre scompaginato dal fantasmagorico irrompere delle vicende e dei protagonisti che conciliano ì loro dissidi aspri o futili nella consapevolezza d'una soggezione a un destino comune.
Contemporaneo di Bùnin, autodidatta e fedele fino in fondo alla patria russa, interprete tra i piú originali del realismo, capace d`una scrittura icastica, dalla quasi fisica palpabilità cosi lo giudicò Gor'kij - fu Michail Michàilovic Prìsvin. Egli tè probabilmente il piú alto interprete contemporaneo della pietas verso la natura colta come sfondo della vita umana; e della stupefazione dell'uomo, che fiorisce soprattutto tra l'umile gente creatrice di fiabe, di fronte alle meraviglie di quella: tensioni che trovano il loro vertice nella raccolta di novelle « Lo sgelo della foresta ››, 1945. 
                                                                                                                        (continua)

 Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

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