domenica 12 maggio 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Vita di Umberto


La prospettiva del corridoio, dunque, con tutti gli elementi che la compongono, è una perfetta rappresentazione della situazione del protagonista nella casa (e si ricordi anche il bel memento nel quale la macchina da presa inquadra il corridoio deserto mentre da fuori campo giungono le voci della padrona e della servetta: “Che stai facendo? », “Vuole l’acqua calda », e l'acida risposta della padrona un breve intensissimo brano che sottolinea quanto l’ostilità  verso il vecchio abbia impregnato di sé l‘intera casa).
Non per nulla ad Umberto, tornato dall'ospedale e in cerca del cane e della servetta, compare invece sulla vetrata nel fondo del corridoio l'ombra minacciosa della padrona: un momento figurativo che, come a volte capita nel cinema di De Sica - e un altro lo abbiamo ricordato più sopra per quel che riguarda i ricchi borghesi di Miracolo a Milano - sembra attinto a certa iconografia disneyana. Il corridoio, insomma, è il teatro emblematico del calvario morale del protagonista all'interno dello spazio chiuso e ostile della casa.
Il nucleo di base della corsia dell'ospedale, invece, rende un'effimera impressione di ordine, di serenità, di pacificazione. Naturalmente, l'impressione e falsa. La vita dell'ospedale poggia sulla menzogna, sull’ipocrisia, e il bianco che ne è il colore dominante, se da un lato attenua il rigore arcigno del primario e della suora, mostra bene d'altro canto la sua funzione di copertura tutt'altro che efficiente. La corsia si allunga verso la fine dell'ampia sala, mostrando una successione ordinata di lettini e malati. Ma l'indifferenza e la meschinità vi allignano non meno che negli altri spazi di Umberto: due figli in visita mostrano apparente cordoglio davanti al padre morente, ma appena rimasti soli si lanciano in una discussione di interessi economici, il vicino insegna al protagonista l'importanza della menzogna melliflua, la suora raccomanda i devoti per un prolungamento dell'ambito soggiorno distribuendo rosari e biscotti, ecc. , ecc.
Infine, il giardino pubblico, ritmato sul lato destro dell'inquadratura dall'intermittenza delle panchine e da un filare di alberi. Il giardino è il teatro della risoluzione finale del protagonista, del suo vero e proprio testamento, che però viene rifiutato con un sorriso sprezzante dall’istitutrice della bambina cui Umberto vorrebbe affidare il cane, per lui l'unico amico fedele, per la donna soltanto un grattacapo e un’occasione di lavoro in più. Passato il ponticello — una mitologica porta sulla morte — e fallito il suo tentativo di suicidio, Umberto tornerà ad inserirsi nella prospettiva del giardino, nel suo verde animato e strillante, perdendosi per una volta in essa mentre uno sciame di ragazzini vocianti invade lo schermo. Per un momento brevissimo e assoluto Umberto ha trovato una sua pace dimentica in un surrogate di natura, in uno spazio infinito perché infinita è la dimensione prospettica che ce lo porge *.
Solo a quel punto Umberto e veramente morto, alla vita ed al film. Nessuna caduta dalla finestra sul selciato percorso dalle rotaie del tram, nessun treno che travolga in un vortice di polvere e di fumo un vecchio ed il suo bastardo dagli «occhi intelligenti »: soltanto un campo lunghissimo nel quale l'immagine ludica della loro triste vita sfuma nelle mille possibilità della morte. (continua)

* Viene da pensare all’immagine di infinito nella sequenza conclusiva di Miracolo a Milano: ancora una volta un finale «soddisfacente», ma in realtà amarissimo perché irreale o comunque non risolto.

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975


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