Zasu Pitts è giunta alla notorietà sventolando a guisa
di insegna un grembiule da cucina!
Senza mai aspirare alle sontuose vesti di prima
attrice essa ha costantemente scelto parti di schiava, o di domestica, o di sguattera ed ha sostenuto questi umili
caratteri con tale realismo drammatico che è divenuto familiare ad Hollywood il
detto “Se Zasu è nel film, certamente vi ruberà”.
Il film sonoro ha offerto campi più vasti alle sue
caratterizzazioni, fruttandole ultimamente un'isperata promozione a
proprietaria di un grande caffè nell’operetta musicale La moglie n. 66.
Miss Pitts è nata nelle vicinanze di San Francisco.
Non aveva ancora dieci anni quando la sua famiglia si trasferì ad Hollywood.
Vivendo in Hollywood essa più che ogni altra aveva il sacrosanto diritto di
entrare in cinematografia; e ben presto se ne valse per recitare
come comparsa in un film di Mary Pickford. Mary non tardò a distinguerla per In sua impareggiabile grazia
tra lo stuolo delle compagne e prese a proteggerla.
Ella ha recitato poi in Marcia Nuziale e L’avarizia, di Erich Von Stroheim, films con i
quali è riuscita a porsi in primo piano.
CINE SORRISO ILLUSTRATO PER IL PUBBLICO CINEMATOGRAFICO Anno VI – N. 15
– 13 Aprile 1930 (VIII)
Il sistema «technicolor››, largamente applicato nella
cinematografia d’oggi, riesce negli effetti luminosi più
vantaggioso alle bionde che alle brune. Queste
esigenze tecniche hanno originato fra le artiste una proporzione di due bionde
contro una bruna. Fra le bionde, le più in vista sono: Marion Davies, Vivian e
Rosetta Duncan, Edwina Booth, Mary Doran, Leila Hyams, Kay Johnson, Carlotta
King, Gwen Lee, Bessie Love, Helene Millard, Catherine Dale Oven e Anita Page. Fra
le brune figurano in prima linea: Renée Adorée, Julia Faye, Dorothy Sebastian,
Sally Starr e Raquel Torres.
CINE SORRISO ILLUSTRATO PER IL PUBBLICO CINEMATOGRAFICO Anno VI – N. 15
– 13 Aprile 1930 (VIII)
Tutt’altra faccenda per l’ultimo film europeo della Garbo, La via senza gioia, che è firmato da
Pabst. La Vienna dell’inflazione e della fame, in quell’altro dopoguerra così
simile (tutte le sciagure s’assomigliano) al dopoguerra 1945. Unica differenza
le divise dei vincitori. Allora v’erano anche ufficiali in grigioverde che
invitavano le belle viennesi affamate sulle Fiat e invece di Chesterfield
regalavano Macedonia.
Si può pensare quello che si vuole di Pabst come regista.
Probabilmente, quanto a preparazione culturale, è uno di quegli intellettuali
che i francesi chiamano << primaires >>, cioè uno che non s’accorge
delle sfumature, uno che non sa che certi problemi sono antichi come la vita, e
soprattutto che l’arte non s’affronta gonfiando bicipiti e gote... Però è anche
uno che ha il cinema nel sangue, che ogni tanto è percorso dall’alito ineffabile della grazia. Per nostro conto sentiamo
di dovergli alcune delle sensazioni più piacevoli di spettatori induriti. Chi
non ricorda? Il can-can di Atlantide,
i mulini di Don Chisciotte, in primo
piano sullo sfondo di gonfie nuvole meridionali, e, ne I commedianti, girato dal povero umanitario Pabst sotto la ferula
nazista, la carrellata del banchetto, che fu subito celebre. Ma Greta e Pabst
ne La via senza gioia toccarono una
sorta di perfezione, ebbero un gran momento di quelli che la vita non ripete.
Fu un curioso connubio, non destinato a durare.
Insieme a Pabst e a Greta erano due favolosi attori, Werner Krauss, la
cui mefistofelica figura è strettamente legata al cinema espressionistico
tedesco, e la maggior << diva >> dell’epoca, Asta Nielsen. Ne La via senza gioia vi erano due azioni
parallele; una donna commetteva un delitto che avrebbe confessato solo alla fine
del racconto; una fanciulla pura, ma avvilita dalla miseria, veniva insidiata e
stava per perdersi ad opera di un losco figuro. Nel finale (evidentemente di
comodo) l’illibata fanciulla veniva salvata da un ufficiale degli eserciti di occupazione.
Per un’intuizione da grande artista Pabst era il primo a trasferire nel
cinematografo quel «fantastico sociale >› che Baudelaire aveva scoperto donando
alla poesia quella nuova provincia, che il cinema avrebbe in seguito esplorata
sino ai limiti estremi. Le incongruenze della civiltà industriale, i tristi
risultati delle speculazioni edilizie, i poveri esseri asserragliati nei
quartieri miseri come in un ghetto, la strana, dolente poesia delle case
misere, dei muri umidi, senza sole, erano per la prima volta conquistati da uno
sguardo intelligente e profondo. In questa direzione mai Pabst riuscirà in seguito
a fare di meglio.
Ne La via senza gioia Greta è
già l’attrice che tutti celebreranno più tardi nei film famosi d’America. Essa
ha appreso sin troppo bene la lezione impartitale da Stiller (ardente maestro
che brucerà la sua vita alla gloria dell'allieva); s’è dimenticata con la naturalezza
di una << comica >> vera le modeste origini, le avvilenti
esperienze, l’umile prova d’inizio del film comico Pietro il vagabondo. Ha già
quell’incesso regale, quello sguardo profondo, carico di significati patetici,
cui nessun maschio civilizzato resiste.
Il mondo cammina e le donne camminano con la storia; in testa alla
colonna capelluta e dalle tenere linee curve, vengono le figlie del Nord. La
Svezia del bellicoso Carlo XII s’è convertita al femminismo di Ibsen: il
benessere venuto con i frigoriferi, con le baleniere e con il pesce in barile,
porta la gente a considerare con rispetto la problematica dell’anima femminile.
Per reazione, gli intellettuali tipo Stiller non tardano a porgere un orecchio
compiaciuto ai << trolls >>, gli spiriti maligni evocati con tanta
passione dal piccolo speziale scandinavo.
Dopo il film di Pabst carico di realtà, di malinconia, dove si esprime
un giudizio su certi fenomeni sociali, Greta, chiamata a Hollywood, scivolerà
fatalmente, incoraggiata dal filisteismo dei produttori, sul piano inclinato
del divismo. Lo scotto verrà pagato molti anni più tardi, dopo il tentativo di
liberazione di Ninotchka, con Non tradirmi con me, restato fino ad oggi
senza resurrezione.
Attrice istintiva, e poco << intelligente >> (come invece
sono << intelligenti >> Bette Davis e Marlene Dietrich), Greta ha
compiuto cinquantun anni in settembre. È perciò, definitivamente, fuori giuoco,
a meno che accetti parti che non siano più di innamorata. Svelta negli affari,
ma timida, schiva, carica di <<complessi», Greta si mise in testa che il
capitombolo di Non tradirmi con me
era stato il frutto di una cabala di invidiosi, di una congiura ordita ai suoi
danni e non, come invece è vero, uno spiacevole infortunio professionale.
Insistette nella sua solitudine, forse avendo capito confusamente che il suo tempo
era passato. Figlia di Ibsen, non avrebbe potuto resistere alle imminenti
offensive di Sartre. Sopravvive ora, patetica, goffa e anche un pochino
ridicola, alla sua gloria. Resta nel cuore di innumerevoli suoi ammiratori un
ricordo, una << presenza >> che ha valore soprattutto perché fa
corpo con la loro giovinezza. Ma è un ricordo che perirà assieme a quelli che
amarono svisceratamente la << divina >> nel buio dei cinematografi
GRETA GARBO
Per chi non ha passato i quarant’anni, essa non è altro che un nome o poco meno. Né vale l’osservazione che le pellicole di Greta Garbo, non tutte, purtroppo, girano ancora per il mondo, ammirate da grandi e piccini: Grand Hotel, Ninotchka, Margherita Gautier, La regina Cristina. Importante non è vedere la <<divina >>, come allora venne chiamata, in film antichi che sottolineano con crudeltà la differenza fisica esistente tra la bella donna dell’<< età del jazz» e l’anziana signora nevrastenica, che detesta i fotografi, e che ciò nonostante viene ritratta in tutti i rotocalchi, infagottata in abiti qualunque, in compagnia di George Schlee, il marito di una sarta amica di Greta. Infatti la svedese fu niente di meno di un mito. Si sapeva benissimo, naturalmente, che da ragazza aveva spennellato con schiuma densa di sapone il viso dei clienti di un piccolo barbiere di cui era commessa; si sapeva pure che aveva cominciato a lavorare per il cinema prestandosi, in costume da bagno, a far la pubblicità per certi prodotti. Ma che importa? Greta era soprattutto la donna fatale de La carne e il diavolo; colei la cui sola apparizione era bastata per far dimenticare subito le << Vamp >> del cinema muto italiano, Lyda Borelli e Francesca Bertini, Italia Almirante e Pina Menichelli. Senza contare le << dive locali >>, Mae Murray e Pola Negri, Gloria Swanson e Wilma Banky.
Ricordiamo come se fosse ieri, e son passati quasi trent’anni, il pomeriggio in cui ci accadde di vedere per la prima volta il patetico volto di Greta. Aveva un abito bianco con luccichii argentei e una scollatura favolosa: l’alto collo dell’abito da sera alla Maria Stuarda accentuava l’incanto del profilo languido, degli occhi appassionati. Gli adolescenti della nostra generazione vennero scossi dal lungo bacio tra lei e John Gilbert ne La carne e il diavolo come da una scarica di elettrochoc, e la faccenda non fu più dimenticata. Di rincalzo vennero i film europei della << divina >>, anteriori nel tempo ma presentati in Italia dopo il successo de La carne e il diavolo: La leggenda di Gösta Berling e La via senza gioia. La sorpresa della scoperta era tale infatti soltanto per noi. Amica e allieva di un geniale, sregolato e infelice regista del suo paese, Mauritz Stiller, Greta era un tipico prodotto della vecchia Europa. Greta Garbo si presenta infatti nel cinema europeo con due artisti molto dotati, il già ricordato Mauritz Stiller e G.W. Pabst, e ne esce per cadere, a Hollywood, nelle mani di registi abili ma privi di mordente, di originalità, di poesia. Per noi questo non è un semplice caso. Hollywood è quella che è: i suoi vizi, il suo conformismo, la sua arida e livellatrice mentalità industriale li conosciamo da un pezzo. E pure Hollywood ci ha dato un genio del cinema, Chaplin, e una quantità di direttori artistici originali e profondi: Vidor, Ford, Hawks, Capra, Sturges, Huston... Come mai
Greta Garbo non ha incontrato nessuno a Hollywood capace di comprenderla in pieno, in grado di superare il dato << divistico >>, di immergerla in una atmosfera concreta e nello stesso tempo fatale? Come mai una fortuna di tal sorta è toccata alla Lombard di XX secolo, alla Davis di Le piccole volpi, alla Stanwyck di Proibito, persino alla Goddard di Tempi moderni e non a Greta Garbo? La risposta ci sembra semplice: Greta è restata sempre, a Hollywood, una straniera, un’attrice di passaggio che si tiene finché fa incassare dollari e che si licenzia come una cameriera quando non << rende >>. In verità essa è sempre rimasta la Greta di Stiller e di Pabst, la Greta << europea >>.
Abbiamo un ricordo non troppo limpido del primo film importante di Greta Garbo, La leggenda di Gösta Berling, diretto da Mauritz Stiller. Soltanto alcuni anni dopo abbiamo saputo che il film era giunto mutilato nelle sale delle vecchie città d’Occidente, da pochi anni tolte al loro sonno profondo per merito di uno spettacolo curioso, che si svolgeva al buio, mentre qualcuno suonava al pianoforte valzer di Strauss e notturni di Chopin.
Supervisionata da Murnau, la camera << scatenata >> (è cosi
che i tedeschi chiamano la camera mobile) non si presta mai a un giuoco artificioso.
Di conseguenza ogni movimento, anche quando rivela la gioia che egli prova a
liberare la camera dai suoi freni, ha uno scopo preciso, chiaramente definito.
Cosi in
Tabú moltiplicherà le
imbarcazioni indigene che si slanciano davanti a un veliero: accentuerà la
diversità dei piani, farà incrociare le barche in un vivace montaggio in cui si
vede l'eroe ritornare indietro col pretesto di andare alla ricerca di un
fratellino in ritardo; avendo così agio di gustare il flusso e il riflusso
delle sottili canoe che filano sull'acqua limpida.
Il successo dell'ammirabile inizio dell' Ultimo uomo è dovuto interamente al modo di manovrare la camera:
attraverso i vetri dell'ascensore che scende abbracciamo con un solo colpo d'occhio
l'intera hall dell'albergo con il suo baluardo di piani, sentiamo
immediatamente l'atmosfera particolare che agita il fiotto continuo dei visitatori
che entrano ed escono sotto lo scintillio delle luci vibranti di un moto
ininterrotto; i contorni si rompono e si riformano, in un rapido concatenamento di immagini che
mozzano il fiato.
Quando la camera è supervisionata da Murnau, tutte le risorse visive
sono esplorate: essa mette a nudo, lentamente, sapientemente, tocco per tocco,
il pietoso stato del portiere che qualche minuto prima ci appariva ancora ben
protetto nella sonsontuosa e pesante sicurezza della sua livrea. Rivela spietatamente
il colletto consunto di una giacca miserabile, il vestito sgualcito; e scende,
perché nulla ci sfugga, lungo le gambe raggrinchiate nei pantaloni piegati a fisarmonica.
Murnau si compiace ad unire la mobilità della camera con gli effetti di
ripresa attraverso un vetro, precisamente come ha fatto al principio del film
riprendendo la hall dell'albergo attraverso i finestrini dell'ascensore in
discesa. La scena che scatena il dramma - il direttore che annuncia al portiere
che lo hanno assegnato a una funzione più modesta - è vista di lontano attraverso una porta a
vetri. La camera mobile si avvicina lentamente, fissa la confusione del portiere
e la schiena indifferente del direttore. E, pure da un'altra porta vetrata,
vediamo venir avanti la governante incaricata di condurre Jannings al suo nuovo posto; essa simbolizza con la rigidità del suo atteggiamento “il
destino inesorabile” mentre nell'armadio luccica, simbolicamente, l'uniforme
perduta. E' con lo stesso procedimento che Pabst mostrerà attraverso i vetri di
una porta nel Diario di una donna perduta
la scena decisiva fra Louise Brooks e Fritz Rasp, il suo seduttore, e che nell'Opera da tre soldi si sorprenderà Mackie
Messer che prega Polly Peachum di seguirlo per sempre.
Murnau si compiace della superficie liscia dei vetri che sostituisce
tanto spesso per i cineasti tedeschi quell'altra superficie liscia che è
rappresentata dagli specchi. La sua camera indugia su quei piani opalescenti,
grondanti di riflessi di luce o di pioggia: finestrini d'automobile, battenti a
vetri della porta a bussola dove si riflette la silhouette del portiere vestito di un luccicante incerato, massa
scura di case dalle finestre illuminate; pozzanghere luccicanti sul selciato
umido. E' una maniera quasi impressionista di evocare l'atmosfera: sotto la sua
direzione, la camera sa fissare quella penombra diffusa che viene di notte dai lampioni
accesi, giuoca con le irradiazioni che sotto la spinta del movimento diventano
vibrazioni, scanalature luminose; tenta anche di afferrare, nello specchio dei
gabinetti i riflessi degli oggetti di toilette luccicanti o quello di una
impalcatura nera che si intravede nella corte.
Lotte
Eisner, Lo specchio scuro, ed. Bianco e Nero, 1951
Lulù e Diario di una donna perduta non ci rivelano piuttosto il miracolo di Louise Brooks, i cui doni di profonda intuizione solamente a uno spettatore ingenuo possono sembrare passivi ma che ha in realtà saputo stimolare fino alle sue estreme possibilità il talento di un regista d’altronde ineguale? La rimarchevole evoluzione di Pabst si ridurrà dunque al suo incontro con un’attrice che bastava lasciar muovere sullo schermo senza che fosse necessario dirigerla, essendo la sua sola presenza tale da realizzare l’essenza dell’opera d’arte. Louise Brooks esiste con una sconvolgente intensità, s’impone in questi due film con una enigmatica impassibilità. (E’ una grande artista o soltanto una creatura abbagliante la cui bellezza trascina lo spettatore ad attribuirle una complessità a cui essa rimane estranea?)
Lotte
Eisner, Lo specchio scuro, ed. Bianco e Nero,
1951
Una ventina d’anni orsono, a Dayton nello stato dell’Ohio, uno di
quelli che fanno parte degli Sati Uniti, del Nord-America, sbocciarono alla
luce come vaghissimi fiori due simpatiche creature.
Esse dovevano, nel mondo, assumere il nome di Liliana e Dorothy: dalla
famiglia proveniva loro il cognome di Gish. Queste due elette creature dovevano
diventare – come tutti i nostri sanno al pari di me – due fulgide stelle
cinematografiche. Belle, eleganti, piene di grazia; dotate di vivido ingegno e
naturalmente disposte all’arte, esse tengono oggi un posto cospicuo nel cielo
dello schermo e hanno interpretato con sentimento e con maestria molti films
che hanno valso a dar loro la notorietà e la fama in tutto il mondo civile, ché
soltanto nel mondo civile si proiettano le pellicole e più esattamente le
pellicole ben riuscite. Molto spesso Lilian e Dorothy hanno lavorato insieme,
dividendosi fraternamente le difficoltà e il merito del successo che non è mai
mancato alla loro collaborazione e alle singole interpretazioni. Fra le più
importanti vogliamo ricordare con vero compiacimento: Le due orfanelle in cui partirono l’onore di rappresentare le parti
delle due infelici e suggestive piccole protagoniste e Romola, una grandiosa ricostruzione storica.
Liliana che è la maggiore delle
due sorelle ha, per proprio conto, partecipato egregiamente a: Giglio infranto, Giù la maschera!, Agonia sui
ghiacci, Le lave del Vesuvio o Suora bianca, La Bohéme e Madame de
Pompadour. Dorothy ha interpretato in separata sede: Lo scialle lucente, Lupi di
mare e Londra.
Lettori d’ambo i sessi, siete liberi di sentire e di prodigare la
vostra più profonda ed entusiastica ammirazione per ambedue queste stelle; ma,
ai lettori appartenenti al così detto sesso forte – che subisce ahimè! Troppo
di frequente la dominazione dell’altro sesso, che si definisce debole – mi
permetto di fare una raccomandazione nel modo più discreto, versando loro con
la massima circospezione in un orecchio quanto appresso: Se siete giovani,
simpatici e milionari, vi è permesso innamorarvi di Liliana la leggiadrissima
attrice dell’arte muta che andiamo illustrando, poiché ella è tuttora libera e
– possedendo le qualità sopradette – potreste forse riuscire ad impalmarla.
Guardatevi bene però dall’innamorarvi di Dorothy, l’altra deliziosa artista di
cui ci occupiamo, poiché essa è sposata, felicemente sposata con James Rennie,
e … non potrebbe darvi retta. E’ ben vero, mi obbietterete, che in America i
divorzi sono all’ordine del giorno e magari della notte; ma riflettete
ugualmente e ponderatamente; tengo ad avvisarvi per vostro bene e col più
disinteressato senso di altruismo. L’amore è composto di miele e fiele; ora il
fiele sarebbe per voi, mentre il miele se lo gusta James Rennie.
NICOLA CANE’, I grandi artisti del cinemaLILIAN E DOROTHY GISH, “Gloriosa” Casa
Editrice Italiana - Milano
Un giovanotto snello, robusto, dalle chiome increspate e dalla
fisionomia dolce, un uomo semplice dal sorriso franco e ingenuo, un giovanotto
dall’aria socievole e bonario, ecco in brevi parole la presentazione di Charles
Farrel.
Questo attore che improvvisamente si è elevato alla categoria di “
astro ” nel firmamento cinematografico, era circa due anni fa uno dei tanti
innominati che lavoravano nella settima arte, uno degli innumerevoli che
aspiravano a poter circondare il proprio nome dell’aureola della fama. Gli è
bastata una opportunità e ha saputo raggiungere di colpo il posto che tanti e
tanti si erano sforzati invano di raggiungere e che non erano mai riusciti a
conseguire. La dea fortuna ama i giovani e specialmente i giovani dal sorriso
luminoso come Charles Farrel, e un bel giorno la tanta sospirata dea si è
lasciata conquistare anche essa dal bel fanciullo e gli ha concesso la gloria e
la ricchezza.
Ciò che colpisce la fantasia di molti aspiranti agli onori dello
schermo è la facilità con cui sembra si possa raggiungere tale scopo, ma invece
non è così; non basta possedere buoni muscoli, un’andatura elegante, o un viso
regolare per poter riuscire, la cinematografia ha una grandezza spirituale sua
propria e soltanto chi riesce ad esprimerla raggiunge la notorietà. Le
complesse attitudini dell’animo umano richiedono una comprensione che solo un
cervello raffinato e una sensibilità squisita possono raggiungere; la bellezza
il più delle volte si accompagna con la povertà d’intelletto e quindi il
successo che talvolta è facilmente raggiunto è effimero come la vita di un
fiore e con eguale prestezza viene dimenticato.
Nel caso di Charles Farrel abbiamo invece un giovane pieno di
naturalezza e intelligenza che ha perseguito la sua meta con pazienza, con
tenacia, con sacrificio fino a che nel giorno della prova la preparazione ha
dato i suoi frutti ed ecco che in Settimo
Cielo segna un trionfo con la creazione di un personaggio che resterà
indimenticabile in quanti hanno avuto la fortuna di vederlo. In tutte le parti
del mondo il nome di Charles Farrel è passato su tutte le bocche con
ammirazione, con meraviglia, con entusiasmo.
Nessun altro attore nella storia della Cinematografia ha saputo
raggiungere così di colpo la fama e la notorietà conseguite da Charles Farrel
nell’interpretazione di Settimo Cielo e non è ha dirsi che il successo del giovane
attore sia stato dovuto a un caso fortuito perché dopo Settimo Cielo Charles Farrel ha entusiasmato i pubblici di tutto il
mondo nella sua interpretazione di Danzatrice
Rossa e Angelo della Strada e ora
ha riportato un grande successo nel film Il
Fiume e si prepara a un nuovo trionfo nel suo grande capolavoro per la
prossima stagione La stella della fortuna.
Come tutti i giovani attori celebri anche egli ha trovato una
rispondenza, diremmo quasi un comunione di sentimento con Janet Gaynor, la
piccola grande attrice che come nessuna altra ha saputo interpretare il film
già sopra nominato, e la direzione di un uomo di nobile intelletto come Frank
Borzage con fine intuito e squisita sensibilità ha saputo comprendere l’animo
dei due attori appassionandoli nella interpretazione dei drammi da lui diretti.
Come Janet Gaynor si direbbe creata per interpretare i drammi
cinematografici accanto a Charles Farrel così reciprocamente si potrebbe dire
che Charles Farrel è l’unico uomo che può stare accanto a Janet Gaynor, e
infatti a riprova di ciò basterebbe considerare l’interpretazione che Charles
Farrel ha fatto accanto a un’altra grande attrice, a la Greta Nissen nel film L’oasi dell’amore.
Per quanto il successo sia stato caldo e universale ciò non pertanto
tutti gli ammiratori dello schermo cercavano invano accanto alla maschia figura
del giovane la piccola ombra di Janet Gaynor, si avvertiva nell’azione
dell’eroe del dramma come un vuoto, una mancanza non ben definita e tutto il
bellissimo film ricordava stranamente una sinfonia incompleta, una musica
mirabile a cui pertanto mancava una nota, la nota della perfezione e cioè la
suggestiva interpretazione di Janet Gaynor.
Charles Farrel inoltre a differenza di molti altri attori del
cinematografo si è laureato regolarmente in legge presso l’Università di Boston
e molto probabilmente avrebbe seguitato la sua regolare professione se il
richiamo di Hollywood non fosse stato più forte e più invitante di quello delle
pratiche legali.
Come ogni giovane americano che si rispetti è anch’egli uno sportivo
eccellente, tira di boxe con rara abilità; prima di cominciare la sua carriera
vinse parecchi tornei studenteschi, anche il foot-ball esercita una grande
attrattiva per il giovane attore e indubbiamente conferisce al suo corpo la
elasticità di cui egli è orgoglioso.
Con l’avvento della cinematografia sonora Charles Farrel è uno dei
pochi attori della scena muta che ha superato con successo la prova del film
parlato e non è probabile che nella prossima stagione i suoi ammiratori possano
sentire la sua voce calda e armoniosa; la sua giovine età (egli è appena ventisettenne) gli assicura un avvenire
luminoso e per molti anni ancora egli seguiterà a interpretare sullo schermo la
figura del giovane buono e innamorato un po’ ingenuo e un pò sentimentale:
l’eterna figura dell’eroe romantico e dell’amante appassionato.
Bollettino della Fox Film Corp.
1 giugno 1929 (VII), numero 8
Gli “Ultimi giorni di Pompei
“ è uno di quei film che fa onore alla cinematografia del mondo intero, ed è
bene che quest’onore l’Italia detenga; i nostri artisti e i nostri direttori di
scena mantengono nella fedeltà della ricostruzione storica, un primato
indiscutibile e ciò è già molto in un periodo di abulìa e di rinuncia per la
cinematografia italiana. In questo films hanno profuso la valentìa, l’abilità
grande artisti come Rina de Liguoro e Maria Corda, Emilio Ghione, Victor
Varkony e Bernard Goetzke e ne sono stati metteurs-en scene Amleto Palermi e
Carmine Gallone.
Al Cinema Reale di Milano questo films – come in altri lussuosi locali
d’Italia – ha ottenuto un successo senza pari; ne diamo un brevissimo riassunto
per chi non avesse avuto la fortuna di vederlo. Le patrti sono così
distribuite: Jone (contessa Rina de Liguoro), Nydia (Maria Corda), Glauco
(Victor Varkony), Arbace (Bernard Goetzke). Calemus (Emilio Ghione).
Ed ecco ora la trama della superba ricostruzione storica:
Nel ’79 dopo Cristo, dolcemente distesa nella lussureggiante pianura
Campana, Pompei, città di delizia di Roma imperiale, viveva la sua vita di ozi
e di piaceri, ignara della sorte tremenda a cui era destinata dal fato.
Nelle terme stabiane …
Con “Gli ultimi giorni di Pompei
“, di cui abbiamo dato un succinto riassunto, la cinematografia italiana –
industria e arte – rimerita quel posto d’onore che la famosa annosa crisi le
aveva precluso. Noi ci auguriamo di poter salutare da queste colonne, la
completa resurrezione di un’attività nazionale che fu vanto ed onore dell’Italia,
che fu – per l’Italia – nobile primato nel mondo.
Il compagno Sadoul bolla Joe May (all’anagrafe Joseph Mandel) come
vecchio praticante ed il suo film Asfalto
(Asphalt) del 1928 lo tratta con la
sufficienza degna del suo compare Aristarco. Non meno dura nei suoi confronti
fu Lotte H. Heisner nel suo Schermo
demoniaco. Oggi, dopo il crollo delle ideologie che sostenevano quel tipo
di critica, ugualmente le consorelle di segno contrario, e l’avvento per mezzo
del web di un nuovo tipo di fruizione,
Asfalto è un’opera da mettere a fianco con quelle più conosciute di F. W.
Murnau e Fritz Lang. Asfalto è un
film espressionista,l’angolazione delle luci e le prove attoriali degnano il
film di Joe May del più ossequioso rispetto.
È nota in Italia da parecchi anni. L’abbiamo vista, graziosissima,
attraente, in due films di Douglas nel Segno di Zorro e in Douglas inventore per burla. E’ nata a Duluth negli Stati Uniti nel
1903 da genitori di orgine francese e giovanissima si dedicò alla danza.
Douglas apprezzò presto le sue qualità e l’ingaggiò per alune films;
successivamente vedendo in lei un’artista di grande avvenire, le affidò parti
di maggiore importanza ed eccola a fianco di Zorro nel film famoso che diede,
anche a lei, fama ed onori. Bionda, intelligente, alta, amante della musica e
compositrice, Margherita de la Motte ha un sicuro avvenire innanzi a sé. Per la
storia diciamo pure che non è maritata.
Il fidanzamento di Clara Bow, l’attrice dalle curve molli,
radiante l’ " It ” che l‘ha resa
famosa, con l'attore Harry Bichman, é stato rotto, a quanto si asserisce in
ambienti bene informati.
La stessa rottura fu minacciata tempo fa e Clara al pensiero
di dover perdere il son Harry, inscenò a quanto si disse, un vero suicidio
fuori scena.
Poi la faccenda si accomodò. Clara portò a New York il suo “
It “ e Harry recandosi a riceverla,
le offri come pegno di pace, una meravigliosa “ lsotta Fraschini “ nella quale
si proponevano di compiere l’imminente viaggio di nozze.
L’attrice posò col suo Harry per mille e una fotografia non
lesinando il suo famoso sorriso travolgente e le incitanti fossette delle
guance e delle ginocchia.
La felicità della stella fu di breve durata, poiché,
ripetiamo, a quanto si dice, il suo Harry sta per metterla definitivamente da
parte.
Sembra che l’attore, spinto da uno scetticismo mostruoso ad
onta delle tante dimostrazioni d’amore e del presunto tentato suicidio
dell’amante, le abbia messo alle costole due “ detectives “ privati i cui
segreti rapporti lo indurrebbero a rompere il fidanzamento.
Richman nega d’aver incaricato dei “ detectives “di spiare
l’irresistibile Clara; ma ammette d’aver data tale incarico alla cameriera di
lei.
Secondo un'altra versione, il fidanzamento sarebbe stato
rotto perché una nuova scrittura dell‘attrice con la Paramount porta la clausola
ch’ella non deve maritarsi. (1).
(1) Secondo corrispondenze da Hollywood, invece, laParamount non avrebbe più rinnovato il contratto con l’attrice per il semplice motivo
ch’ella non possiede le qualità occorrenti per essere attrice del “ parlante “.
Cine sorriso
illustrato, 13 Aprile 1930, ANNO VI – N. 15
La qualità dello scenario, l’importanza preponderante accordata alle
scene così come la partecipazione dell’operatore nei minimi dettagli, era
compito suo di creare, insieme agli elettricisti e a mezzo del chiaroscuro,
quell’atmosfera particolare (…) ormai ritenuta indispensabile.
… una certa profondità … loro conferita dalle false prospettive e dalle
stradette in sbieco che si intersecano bruscamente ad angoli imprevisti …
Plastica audace rafforzata dai cubi inclinati delle case sbrecciate.
… queste curve, queste linee sghembe, portano in loro stesse … un
significato nettamente metafisico.
Quel che conta è creare l’inquietudine, il terrore.
Lotte H. Eisner, Lo schermo demoniaco, Bianco e Nero ed.
Il breve frammento è tutto ciò che rimane di un rullo
nitrato in grave stato di colliquazione. Dai ricami creati dall'emulsione
sciolta occhieggia una struggente Pina Menichelli, tra le dive più amate del
cinema muto italiano. Il film è stato identificato grazie a un'iscrizione sulla
pellicola come "Gemma di Sant'Eremo". Nel film la Menichelli
interpreta una sposa fedele vessata da un marito fedigrafo. Secondo Vittorio
Martinelli il film potrebbe essere la riedizione di un titolo di due anni prima
"La colpa", all'epoca bloccato dalla censura. Il video è un riversamento dalla copia in
pellicola preservata dal Museo Nazionale del Cinema nel 2012: 35mm, poliestere,
positivo, colore (Desmetcolor da originale imbibito e virato), 35 m, didascalie
italiane. A sua volta la copia è stata stampata da un positivo nitrato con
gravi problemi di colliquazione.
Sin qui il materiale illustrativo
da parte del Museo Nazionale del Cinema
di Torino che permette la fruizione di questo segmento nel suo canale ospitato
su Vimeo. (https://vimeo.com/album/3409239/video/128769439)
Ora, dopo un attento esame,
ognuno può andare oltre, a piacimento personale.
Qui si vuole condurre lo
spettatore ad una visione separata che include tre strati di un unico corpo.
Il primo è il supporto che in
origine conteneva le immagini e consentiva, in proiezione, la visione. Per
farla breve, il suo deterioramento permette oggi un ulteriore azione, se
volete, movimento, all’interno delle scene cui si assiste.
Il secondo sta nel viraggio che
salda il primo strato con il terzo: l’irruente presenza scenica di Pina
Menichelli. Dire che la Menichelli recita è come schernirla. Essa vive in
eterno per mezzo dello schermo.
Ora il cinema dopo un lasso di
tempo molto più breve rispetto alle altre forme visive apparse prima è
diventato terreno archeologico e molto ancora c’è da rinvenire nel buio e sotto
la polvere delle cineteche nazionali e personali.
Un giorno dunque Dupont ricevette una telefonata dall’UFA: cercavano un regista che fosse pratico delle << coulisses >> e del mondo del varietà. Dupont modificò profondamente il soggetto propostogli, che non è nulla di eccezionale. Un <<artista >> del circo conduce un’esistenza senza sogni e senza avvenire vicino alla moglie sfiorita. Un giorno gli si offre l’occasione di proteggere una splendida giovane, che ha dei guai con la polizia. L’anziano uomo e la bella creatura diventano amanti, ben presto l’uomo abbandona la famiglia per seguire la piccola << vamp >>. Conosciuto un celebre trapezista, che ha perso il suo<< partner >>, gli amanti fanno con lui una nuova << troupe >> che ha un enorme successo. Ben presto, attratta dal brillante compagno, la bella Berta Maria tradisce con lui l’amante anziano. Che per un po’ non si accorge di nulla; poi, reso furioso da un’improvvisa rivelazione, uccide il rivale. Variété ebbe un immenso successo perché descriveva un mondo a tutti noto, perché era interpretato magistralmente dal corpulento Emil Jannings, perché la ungherese Lya de Putti era dotata di un fascino eccezionale, ma soprattutto perché Dupont vi si rivelava regista di qualità rara. Il racconto è in forma autobiografica: in carcere l’innamorato di Berta Maria rievoca il passato. Ancora dopo tanti anni certi scorci, certe trovate, la bonaria risata di Jannings, la bellezza ambigua, perché disarmata, inconsapevole del peccato, di Lya de Putti restano nella memoria. La trappola del destino si chiudeva su un uomo tranquillo, sensato, per bene, con una meticolosità da partita doppia. Il rapporto Jannings-de Putti anticipa con straordinario rigore tutto quello che s’è visto in seguito nella stessa direzione, dal rapporto Jannings-Dietrich de L’angelo azzurro a quello Jean Gabin-Simon de L’angelo del male.
A volte il cinema crea accostamenti audaci, specie con la pittura. In questo caso le sue immagini sottratte a A Woman of Affairs (Il destino) del 1928 di Clarence Brown e John Gilbert fanno venire in mente i lavori di Edward Hopper.
La voce del sangue dal
romanzo di Hichens (Mercanton film) a Roma
Se questo film della Casa Mercanton fosse italiano io darei gran lode
al direttore artistico per avere raggiunto effetti scenografici e panoramici e
suggestioni di paesaggi con pochi e semplici mezzi: una veduta delle rovine
romane presa dalla balaustra del Palatino, e una efficace presentazione dell’Etna,
del Monte Amato e di Taormina.
(…)
Ma questo film è francese ed io non esito a ringraziare il signor
Mercanton per la finezza artistica e per l’abilità direttoriale che gli hanno
permesso di farci vedere come si possa fare un buon film con esterni
schiettamente e notoriamente italiani.
Mi sorge un dubbio: oserà il signor Mercanton di vendere per la Spagna
e per i paesi ispano-americani?
Come forse molti non sanno i nostri fratelli latini di Spagna sono
fuori della grazia di Dio contro il film italiano. I compratori di films non
discutono neanche più: non vogliono vedere, non vogliono sentir parlare di robaitaliana.
Il pubblico spagnolo, se Dio guardi, si accorge che il film su cui ha gli occhi
intenti è roba italiana, scatta su a rumoreggiare e perfino a fischiare. Sono
cose che fanno piacere queste, ed è un peccato che non siano risapute.
Ora mi domando: venderà il signor Mercanton in Spagna e paesi affini
questo film schiettamente italiano, anzi siciliano?
Forse sì. Gli spagnoli sono persone logiche fino allo assurdo.
Questo film Mercanton è tutto italiano e siciliano, nel paesaggio e
nello spirito, ma in luogo di un Alfonso Cassini c’è il signor Le Bargy, e in
luogo di un Giovanni Grasso c’è un altro egregio attore ( credo di ricordare
che ha un cognome italiano) e invece di una Jacobini, o una Pini, o una
Menichelli, o un’altra qualunque delle nostre magnifiche attrici c’è una certa
signorina francese e un’altra simpatica ma mediocre attrice, credo italiana,
Desdemona Mazza.
Con questo complesso di attori bravi, coscienziosi,ben diretti, ma
indubbiamente mediocri e ad ogni modo inadeguati i caratteri delle loro parti,
il film italiano del Signor Mercanton può andare in Spagna e se piaccia a Dio
in Portogallo.
Così stando le cose non resta che fregarci le mani e ricominciare a
lavorare con santa pazienza, con un po’ meno di ingenuità o di maccaronaggine
commerciale.
E forse avremo il supremo onore di rientrare in Spagna e paesi affini.
Aurelio Spada, in FILM anno IX-nunero 5, 9 febbraio 1922
L’appel du sane (1921) era un film di Luis Mercanton tratto da
un romanzo di Robert
Hichens con Ivor Novello.
domenica 17 gennaio 2016
OGGI
Bastano poche parole per esprimere la grandezza di questo film di Monta
Bell del 1927. Essa è dovuta in modo speciale alla semplicità del soggetto,
all’accortezza di una regia che sembra quasi non esistere e soprattutto grazie
alla bravura di John Gilbert forse il più grande attore, assieme a George
Bancroft, del cinema muto hollywoodiano.
Un ingenuo ragazzo che ha in testa come immagine muliebre quella della
madre si innamora della society editor del giornale per cui egli è reporter . A
seguito di un inconsulto gesto commette un assassinio e viene condannato “ to be hanged by the neck until dead “
per citare le didascalie del film.
In certe parti del film sembra scorgervi l’ombra del Delitto e Castigo così come pure, col
senno di poi, la figura della madre di Pier Paolo Pasolini, Signora Susanna. Ma è John
Gilbert che rende possibile tutto ciò, solo grazie agli stati d’animo percepibili
attraverso il suo volto e le sue espressioni.
Alle volte è bastato poco ai registi del cinema muto per creare opere
che al confronto con quelle di oggi sembrano vette irraggiungibili.
Silent film, Godard suggests, was materialist. Each actor had his own image. Only with the advent of the talkies did actors begin to "talk" alike. Silent film stars thought, “I am film, therefore I think." Stars of the talkies reversed the proposition: "I think that I am an actor, therefore I am filmed “
Il film muto , Godard docet , era materialista. Ogni attore aveva la sua propria immagine . Solo con l'avvento del sonoro gli attori hanno iniziano a " parlare ". Le stelle del cinema muto pensano: " Io sono il film, quindi io penso “. Le stelle del sonoro hanno invertito la proposizione: " Penso che io sono un attore , quindi sono filmato ".