lunedì 4 marzo 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Miracolo a Milano


Cosi, ancora una volta, la città è lo spazio dell'estraneità, della alienazione, della repressione e spesso dell'ingiustizia e della sopraffazione. In una dimensione che ha il sapore dell'apologo è ciò che ci ripete Miracolo a Milano, con quella sua oleografia del capitalismo disegnata in stile disneyano; e lo spazio che la contraddistingue non si presta certo a equivoci. Il palazzo di Mobbi, ampio, slanciato verso l'alto secondo imponenti linee verticali di marca architettonica fascista sembra indicare un'altezza irraggiungibile dalla povera gente delle baracche, alla cui esistenza reale Brunella Bovo — nel film una di loro — si rifiutava a suo tempo di credere, un'altezza che invece verrà raggiunta e di gran lunga superata nella famosa sequenza finale con i barboni librati su una Milano che mostra soltanto qualche tetto e l’immancabile immagine della guglia più alta del Duomo, destinati a un cielo che di sicuro non è il paradiso della classe operaia né tantomeno quello del credente, ma soltanto un ideale, fiabesco spazio alternativo nel quale la sopraffazione del potente non poté più avere la meglio sul povero, come invece era stato persino nell'Anticittà di Totò. Pure, l'esperienza di questa Anticittà non va sottovalutata. Miracolo a Milano in generale, anzi, si presenta come momento essenziale nell'«iter» spaziale del cinema di De Sica. Si noterà per prima cosa come il teatro di ogni cosa semplice e vera, di ogni sincerità naturale, è regolarmente situato nell'area esterna alla città 8. Il film si apre su una periferia semirurale e il gioco di Lolotta e di Totò in una delle primissime sequenze è proprio quello di saltare su una piccola città finta posta sul pavimento della casa. La città vera, del resto, è connotata in modo alquanto esplicito: la si vede la prima volta in occasione del passaggio del carro funebre della vecchia Lolotta, e ciò che la qualifica molto presto è un'immagine di furto e di inseguimento [il ladro e i carabinieri}. Una città che mostra i più vistosi squilibri: Tot passa, uscito dal collegio, davanti a un gruppo di operai al lavoro (un lavoro duro, sporco, ingrato] e la sera stessa davanti alla Scala fra uno scintillio di toilettes, un'esibizione di benessere e di scostante ricchezza. Non a caso Totò stabilirà facilmente un contatto con i primi, mentre con gli altri si limiterà alla distante ammirazione del semplice nel confronti del ricco, lui che trova naturalissimo salutare affabilmente gli estranei che gli passano accanto, suscitando irosi commenti 9.

8 E vengono in mente le parole di Mumford: Il sobborgo riesumò, superficialmente, il sogno della democrazia jeffersoniana, quasi cancellata dalle tendenze oligarchiche del capitalismo, e presentò le condizioni essenziali alla sua attuazione: una piccola comunità di individui che si conoscono tra loro e che partecipano alla pari alla vita collettiva ». Cfr. Lewis Mumford: «La città nella storia», Milano, Ed. di Comunità, 1964, pp. 623-24.
9 E sulla estraneità e l'anonimità programmatiche della città si leggano le chiare pagine di Harvey Cox:  La città secolare , Firenze Vallecchi. 1968, nel cap. La forma della città secolare, pp. 38-59. (continua)

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975



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