Giovedì, 4 febbraio 1999
Guardo con
imbarazzo e curiosità i giovani seduti sulle poltroncine rosse del cinema. Mi
sento una quinta colonna. Non sanno che so. Sono diversi da un tempo. Nel
vestire, nella disinvoltura, nel modo di esprimersi. Viene proiettata Alba tragica e mi prende un’intensa emozione quando un ragazzo introduce il
film di Carné, il primo di un ciclo sul cinema di sinistra. «Ma siamo noi», mi
dico.
E mi viene
in mente Luciano Bianciardi, il suo Lavoro
culturale: «In poco tempo scoprimmo
tutto: l’asincronismo, la dissolvenza, il carrello, i piani, il montaggio, la
sequenza. La sequenza del palazzo imperiale di Odessa ci divenne
familiarissima. Montando immagini di folla tumultuante sui leoni di pietra che
si trovano al cancello del palazzo, Sierghei Mihailovic Eisenstein riusciva a
far vivere quei leoni, a farli scattare in piedi». *
E mi viene
in mente la saletta del glorioso Cineclub, il cinefilo Elia, magro come un
osso, che si sbracciava ogni volta: «Ve lo giuro, vi do la mia parola d’onore,
mercoledì prossimo Il vampiro sarà qui». Arrivava invece un film sovietico con diciture in
ungherese o un film della nuova cinematografia cecoslovacca doppiato in
tedesco, ma eravamo ugualmente incantati nel nostro aprirci al mondo.
Chissà che cosa
pensano i pochi giovani presenti in sala, di Jean Gabin, l’operaio François
suicida, e di quel suo colpo di pistola che fa da simbolo alla morte di
un’intera classe sociale. E che cosa suscita, nelle immaginazioni, Arletty,
Clara, conoscitrice della vita, sullo sfondo di quei bistrot di Parigi che
stringono il cuore.
* Luciano
Bianciardi Il lavoro culturale, 1957.
Corrado
Stajano, Patrie smarrite, 2001
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