"Amó todo lo que se puede amar como un señor de la Sicilia viscontiniana y estaba enamorado de París y Córdoba... Y ahora ya solo vive en el recóndito proscenio del teatro de Taormina, con el Etna nevado al fondo y la bahía de Giardini Naxos". http://www.diariocordoba.com/noticias/etcetera/adios-profesor-sandro-anastasi_1109685.html
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
martedì 27 dicembre 2016
Adios, profesor
giovedì 22 dicembre 2016
Diario di un soggettista - I nostri registi non arrivano a certe cose
(continua)
CORRADO ALVARO (Da “Scenario “, Marzo XV).
BIANCO E NERO Anno I –
N. 3 – 31 Marzo 1937 - XV
Nella foto Isa Miranda in Una donna tra due mondi,1936, sceneggiato da Corrado Alvaro
mercoledì 21 dicembre 2016
Il grido di protesta contro un infame mercato
disonestà.
lunedì 19 dicembre 2016
Живет такой парень, Così vive un uomo,1964
La poesia filmica: «Così vive un uomo»
Sulla strada per Baklan un camion
diretto verso un kolchoz accoglie un automobilista in panne; è il presidente
del kolchoz del villaggio List-via/nka, Prokhòrov.
L'autista del camion, «meccanico di
seconda categoria » Paška Ergòrovic Kolokòlnìkov, ventisettenne, scapolo,si
lascia convincere a mutare destinazione al suo viaggio e a seguire il suo
passeggero nel villaggio di Li'stvianka. Il suo camion servirà per trasportare
il legname.
Nel corso di un ballo nel kolchoz
Paška incontra la bibliotecaria, Nastia. Balla con lei e suscita la brusche
gelosie dei vecchi compagni della ragazza.
Nel corso di una visita in
biblioteca, Paška fa la conoscenza dell`innamorato di Nastia, l'ingegnere Zena:
i tre fanno amicizia e si recano insieme ad una sfilata di modelli
autunno-inverno prêt-à-porter, che si svolge la sera in una sala del kolchoz.
Dopo un'incursionie notturna in casa
di Nastia, Paška si rende conto che la ragazza gli preferisce l'ingegnere.
Rivolge allora le sue attenzioni in altre direzioni. Cerca di agganciare
Ekaterìna, una donna divorziata per colpa del marito che beve troppo. La donna
lo resipinge, rimproverandogli la sua fantasiosità, così prossima alla
scapataggine.
Paška decide di presentare un suo
maturo compagno, 'zio' Konrad, a 'zia' Anussia, con l’intenzione di fargliela
sposare. Dopo una gustosa schermaglia, gli riesce di «mettere d’accordo 'zio'
Konrad Stepànovic e Annussia.
Paška si reca poi al deposito di
carburante per caricare dei bidoni di benzina.
Mentre si trova al bar, il suo camion
già carico prende fuoco. Il giovane riesce a scostarlo dalle altre autocisterne
e a gettarlo nel fiume prima che esplode.
ll deposito è salvo, lui 'si ritrova
all’ospedale con una frattura al femore.
E' qui che gli capita di raccontare
agli altri malati le sue immaginarie avventure sulla luna. Da quei momento
viene considerato un eroe. Riceve la visita di un'inviata di -« Novyi Zurnal »
(La nuova rivista), che lo intervista. Nel dialogo col maestro malato e negli ultimi
due sogni, Paška si chiede che cosa sia la felicità. Gli si risponde: “E'
ridere, piangere, perdonare di cuore”. Paška conclude che mette ben conto
continuare a vivere.
ll primo film di Šukšin,
ricavato, come gli altri, da racconti da lui scritti e pubblicati, ebbe subito
una consacrazione. Quella autorevole di Venezia, anche se nel 'ghetto' della
mostra del film per ragazzi. Relegazione incomprensibile se non fosse per quell'aria
di novelletta “edificante” e buffonesca che il film si tira dietro e che gli
valse in patria clamorosi biasimi dalla critica ufficiale, ma anche il primo
premio per la "miglior commedia dell'anno" al festival nazionale di
Leningrado.
Pensato e costruito come opera drammatica da Šukšin, Zivët takòj' pàren' fu preso per un film
brillante, se non addirittura "comico".
E si ebbe reprimende spocchiose e balorde: «E' inammissibile che si glorifichi
l'incoltura del protagonista in una società in cui tutti studiano; che si
predichi il buonsenso in un tempo di grandi rivoluzioni sociali; che si
pretenda di trovare il senso della vita nelle semplici gioie della natura
›› (Lev Anninakij, “Le film soviétique”, 1972, 9, p.35).
Šukšin non se la prese. Poteva
avallare la classificazione del film tra le commedie buffe. Non si rendeva conto
di come e perché fossero scattati questi meccanismi di fraintendimento. Con una
scontrosità e un amor proprio tutto contadino risolse semplicemente di
attenuare quel suo modo naif di articolare il proprio mondo narrativo, nel
quale la natura non è già decorazione di sfondo o elemento esornativo ma è
l'ordito stesso della narrazione; mentre i personaggi ne sono la trama.
La natura, nei
film di Šukšin,
fa corpo con la gente; si anima per essa e con essa. Essa è la situazione del
personaggio: così come il personaggio è la persuasione della situazione. La
vita è totalizzante, fantasiosa e buona, anche quando si fa esattiva: «dobbiamo
pagare per tutto nella nostra vita» è il leit-motiv di Kalina krasnaia, ultimo film di Šukšin,
che offre anzi la più efficace drammatizzazione di questo tema. Drammatizzazione
che viene confermata da quel tono di tenerezza estrema che inarca il film e
dalla forza di convinzione assoluta che il discorso dell'autore ti lascia
addosso: come ogni discorso pensoso di chi, sa di dover abbandonare per sempre la
realtà delle cose care.
Zivët takòi paren'
ebbe, a Venezia una motivazione d'onore piuttosto azzeccata: « Il film russo
offre al bisogno di identificazione dell'adolescente la figura di un giovane
che, pur caratterizzandosi in atteggiamenti tipici della sua età, non si chiude
in schematismi, anzi si afferma in una ricca le complessa umanità”. Questo
paradimma vale però non meno (diremmo: primamente) per il mondo adulto. Il film
è parabola d'una ricerca d'identità.
L'Erlebnis di Šukšin
affiora qui imperiosa: il vagare di Paška di luogo in luogo alla ricerca di se
stesso e di una stabilità esistenziale - le sue allegre scapataggini, quel suo
festoso cicalare, quegli ininterrotti approcci di colloquio sono indice
d’insicurezza -, quel suo andare in caccia della donna ideale che sostanzi e
confermi
la sua consistenza di uomo, divengono materia trasfigurata
di poesia. Ed erano (sono) l'esperienza del Šukšin
giovanetto che lavorava nei kolchozy, che vi si provava in molti mestieri, che cercava
attraverso questa esperienza di colmare il gap di cultura con gli scolarizzati,
lui che aveva dovuto lasciar la scuola a quattordici anni. L'irrequieto ed
estroso viaggiare di Paška sul suo autocarro da una parte tradisce il suo
bisogno di far presto, di recuperare il tempo perduto: non è dunque una fuga,
la sua, ma una ricerca; non è un abbandonar se stesso, è un perquisire, un
inseguire se stesso. E insieme è l'occasione per fare un inventario del mondo
che lo circonda, per ispessire i rapporti tra fantasia e realtà, per capire il
proprio ruolo in una società che cambia.
E' la furbizia contadina a farla da protagonista. Questo
misto di buon senso, di cauta avventatezza, di fiuto delle occasioni possibili,
di pazienza dell'attesa, di impulsiva capacità di reazione alle provocazioni
delle circostanze è istinto vitale, è sobrio amore alle effervescenze della
realtà, è elogio di un mondo asseverato, quello contadino. E' ripugnanza fisica
verso la stupidità che nutre invece certi sciocchi intellettualizzati. Il confronto finale fra la giornalista e Paška,
all'ospedale, sulle ragioni che l'hanno spinto all'atto “eroico"è emblematico.
«L'ho fatto - dice |Paška - perché son stupido ›› A domanda idiota, una risposta
che dice il nome di uno dei peccati mortali dei mass-media, banalità, ovvietà,
stupidità.
E' stato giusto rimarcare (Lev Anninskij, cit., p. 34] che
la finta stupidità di Paška è l'impulsiva difesa dell'uomo nelle situazioni
singolari, eccezionali. Paška si schernisce per l'impresa: che è eccezionale
solo secondo i cliché di comportamento d`una società che ha formalizzato al
massimo i suoi rapporti interni e che inventa i suoi "eroi" solo
quando li sorprende in una situazione “abnorme”, rispetto al mansueto quadro
convenzionato delle sue sicurtà. L'ironia di Paška è la più spontanea manifestazione
di quel pudore “contadino” che pervade tutto il film e che esplode in quella
deliziosa 'novella' che è il “tentativo a buon fine” che 'Paška fa ,di
combinare un'unione tra il maturo “zio' Konrad e la pacioccona 'zia' Anissia.
Konrad è un'ipotesi di Paška adulto: un vagabondo disposto
ormai a barattare la sua pesante libertà con il caldo di una casa, con del buon
cibo, sicuro, ben cotto e saporito.
La scena è un capolavoro di finezza psicologica nel pieno
rispetto dell'id-entità goffa e scontrosa dei due personaggi. Paška è il
folletto che saltella a infiorare un dialogo di reticenze e d'intese che si fa
subito sicuro, spedito e godibile dopo il primo, sospeso approccio.
E l'interprete, Leonid Kuràvlëv, che sembra rivoltato nella
parte sarà presente anche nel primo episodio di Vaš syn i brat; e dichiarerà di non essersi mai potuto esprimere
con altrettanta felicità e facilità che con Šukšin
(Lev Anninskij, cit., p. 33)- anima questo ben azzeccato ruolo di king's fool - ove il sistema
collettivistico sta per il re - di stravagante ed eccentrico antieroe, quasi a
sermoneggiare sottovoce (in un pianissimo che si deve estinguere quasi inavvertito)
sulla destinazione di ogni inquieto cercare e di ogni burlesca ripulsa. E la
destinazione è la casa di campagna. Essa le luogo della pace, la sede della
stabilità. La casa fa corpo con la terra. E la terra non tè infedele.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto
1976
domenica 18 dicembre 2016
giovedì 15 dicembre 2016
Un passatempo di Charlot
Quando a Hollywood un visitatore, per tramite di amicizie influenti
riesce ad avvicinare Charlie Chaplin egli lo trova frequentemente seduto
davanti all’organo, mentre le dita dello artista scorrono con rapidità sulla tastiera.
Chaplin ha un piccolo organo nel suo studio, in formato ridotto, sul
quale egli può sanare ogni volta che
ha un minuto di libertà; a casa, poi egli possiede un organo immenso
con dei tubi multipli dal suono possente.
Giorni or sono “Charlot” ricevette un visitatore mentre stava suonando
l'organo: l’ospite rimase ad ascoltare gentilmente e pazientemente, ma era
evidente attendeva la fine del concerto onde iniziare una conversazione sperata
da lungo tempo.
”Io suono molto bene, disse flemmaticamente alla fine “Charlot” ma voi
non sembrate comprendere la bellezza della mia musica!”
CINE SORRISO ILLUSTRATO PER IL PUBBLICO CINEMATOGRAFICO Anno VI – N. 15
– 13 Aprile 1930 (VIII)
mercoledì 14 dicembre 2016
Natalie Kalmus Technicolor Director
Western Union, 1941
Virginia Gilmore, Randolph Scott & Barton MacLane
The return of Frank James, 1940
Gene Tierney & Henry Fonda
lunedì 12 dicembre 2016
Fritz Lang goes to west
Fritz Lang prima di attrarre a sé i cinefili registi francesi, e per
mezzo di questi cinefili di tutto il mondo, attirò l’attenzione e i dollari dei
produttori hollywoodiani. E da subito volle cavalcare nelle terre del western: Il vendicatore di Jesse il bandito ( The return of Frank James), 1940 e Fred il ribelle (Wetern Union), 1941. I due film unitamente a Rancho Notorious del 1950, sono tra le opere langhiane le più
personali perché andava a solcare in un genere considerato rendita solo di chi
aveva la cittadinanza americana da almeno due generazioni. Facendo quei western
Lang non si poteva servire della cinefilia perché di là da venire. Si limitò ad
innestare in quel genere la sua visione della vita, il suo modo di fare cinema
ricorrendo a quanto già aveva detto con i film realizzati prima della fuga
dalla Germania nazista - cadendo dalla
padella nella brace dicono i maligni - temi e personaggi compresi. “Come spesso accade nei film di Lang, la
legge trionfa ma sono i fuorilegge che brillano” *. A fondere insieme i tre
film è il valore artistico della realizzazione che non viene mai meno grazie al
lavoro di tecnici in grado di soddisfare i desideri di Fritz Lang.
*Sigfried Krakauer
domenica 11 dicembre 2016
Diario di un soggettista - si cerca un soggetto
di Corrado Alvaro
Si
cerca un soggetto cinematografico e sono
state chiamato anch’io. Chissà; può darsi ch’io abbia qualche idea. Si pensa
che basti un’idea e si dimentica che nel cinema come in tutte le arti le idee
in circolazione sono anche troppe. Il fatto più importante é di menare a buon
porto queste idee, e cioè l’arte stessa.
L’atmosfera in cui nasce un film é sempre bella.
Stanno tutti ad ascoltare e molto dipende dal fatto che chi narra a voce sia un
buon narratore nel senso cinematografico. Aria di festa, di vigilia. Cominciano
già a mostrarsi alcune persone che aspettano la nascita del
film, attori e attrici. Fanno qualche raccomandazione; se possono; altrimenti
tendono l’orecchio e cercano di carpire una frase, un gesto, uno sviluppo. Ogni
creazione ha la sua felicità, e il piacere di chi
scrive un film consiste nel vedere come il personaggio di cui ha narrato
comincia a prendere consistenza, e come già ognuno degli ascoltatori lo vede,
lo porla in sé, gli suggerisce una frase, un atteggiamento. E allora il film è di tutti.
Ho commesso un’imprudenza. Mi pareva una buona idea:
mettere in iscena la favola di Amore e Psiche come la racconta Apuleio. Uno
degli astanti salta su a dire: “E chi
farebbe Venere, la dea Venere? ». Io penso che basterebbe una bella e garbata e
prospera signora, gelosa degli amori del figliolo, che teme di diventar nonna e
di sembrare perciò vecchia. Figurarsi se un pittore dei nostri grandi si fosse
preoccupato di non trovare un modello per una Venere. “La favola, dico io, è
una favola borghese di stile antico e può dare un bellissimo appiglio per un
film familiare romano, dopo tanta romanità illustre e pubblica». No, non va. Sostengo
che a ogni mode sia meglio cavare un dramma o una commedia da qualche scrittore
antico o nuovo, poiché nella creazione
dello scrittore c’è una necessità un’ispirazione e una visione del mondo ben radicata in una tradizione che preme sempre sullo
stesso punto. ll poeta cinematografico non è ancora nato, e il cinema di tutto
il mondo si giova della letteratura come della sola che possa offrire schemi di
significato universale. Per quanto cotesto schema si trasformi nella tecnica
del film, serbrerà sempre una sua armonia e una forza.
I professionisti del cinema, tra noi, chiamano “ letterati
» gli scrittori, e questa vuol essere una parola spregiativa. Alcuni professionisti
del cinema sono letterati falliti, o gente che ai suoi inizi si volse alla letteratura,
aspirò alla poesia. Ora, non c’è niente di peggio dello scrittore che non arriva
al fondo della sua parabola, poiché nascere con questa vocazione è un segno che
non si cancella, cui bisogna obbedire sino in fondo, a rischio di rompersi la testa.
Se qualcuno di questi transfughi capisce qualcosa del cinema lo deve alla sua
iniziazione letteraria; e molte belle cose si capirebbero meglio con un poco di
letteratura e di cultura. Ma essi crollano il capo, si guardano, mormorano: a ”Letterati».
Accade che il direttore artistico da noi sia spesso
troppo ignorante come letterato e come tecnico; perciò quasi sempre il pregio
maggiore dei nostri film è la fotografia. Basterebbe a cotesto lavoro il
semplice e
onesto operatore. E del resto un tempo da noi si
faceva così. Poi il cinema grandeggiò, divenne un'arte, la conoscenza meccanica
non bastò più. Si nota tuttora come non basti. Lo stato presente della
cinematografia italiana è lo specchio di tale condizione. Manon un artista, un
“letterato” che si serva, per esprimersi, del linguaggio cinematografico, e non
che faccia del linguaggio cinematografico una semplice questione di tecnica. Le
tecniche in sé sono appena un presupposto, in tutte le arti. L’esatta
osservazione realistica che fa i gradi film è un prodotto dell’ispirazione, e
di natura letteraria.
(continua)
(Da “Scenario “, Marzo XV).
BIANCO E NERO Anno I –
N. 3 – 31 Marzo 1937 - XV
lunedì 5 dicembre 2016
LE CIFRE CHE LO SPETTATORE NON CONOSCE(VA)
CHI VA AL CINEMA, da semplice curioso, il più delle volte non
conosce il valore delle cifre, che riguardano la successione delle immagini.
Può avere l’impressione che, in un minuto, i fotogrammi cher si svolgono tra la
bobina e lo schermo siano così limitati, in numero, da essere poco o nulla
apprezzabili. Può avere l’impressione che, sempre in un minuto di visione, il
metraggio del film sia in condizioni di minima relatività, senza importanza tangibile.
Eppure le cifre insegnano, quasi sempre, nel campo aperto
delle curiosità, più di quanto non potrebbe rendere una spiegazione puramente
tecnica.
E le cifre che In spettatore non conosce sono le seguenti:
Un fotogramma è alto 19 millimetri, quindi in un metro ne
entrano 52 e tre quinti. Per semplificare si calcoli 53.
Metraggio
N. delle immagini
1 metro 53
10 metri 530
27 “
1.431
50 “
2.650
100 “ 5.300
500 “ 26.500
2.000 “ 106.000
Metraggio Tempo di
visione a 24 immagini al secondo
1 metro 2
secondi 1/5 circa
10 metri 22 “
27 “ 1 minuto
50 “ 1 “ 50 sec.
100 “ 3 “ 40 sec.
500 “ 18 “ 33 sec.
2.000 “ 1 ora 13 min.
3 s.
Siccome la pellicola di normali dimensioni spettacolari ha una
lunghezza media da 2.200 a 2.500 metri, lo spettatore che sia amante di cifre e
di curiosità potrà con un solo calcolo, in base alle tabelle indicate,
stabilire il numero dei fotogrammi di cui la pellicola si compone
CINEMA, QUINDICINALE DI
DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA, Luglio –
Dicembre 1936 Anno XV
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il mestiere del cinema,
Lezioni di cinema
domenica 4 dicembre 2016
Bersaglio Mobile - i titoli di Iginio Lardani
Ecco un titolo, come molti, non accreditato al buon Lardani. Lo accredito io a lui.
Le animazioni, la grafica e gli effetti di tuka rimandano a Colpo maestro al servizio di Sua Maestà britannica, di Michele Lupo, dello stesso anno.Tutto il lavoro verrà ripreso per Città Violenta del 1970 di Sergio Sollima. Con i Sergio del cinema italico Iginio Lardani giocava sicuro.
giovedì 1 dicembre 2016
в конце mужик, в конце кино - La fine del mužik, la fine del cinema
A PARTIRE dalla metà degli anni sessanta del secolo della bomba atomica quanti frequentavano i Cineforum o i Circoli del Cinema cominciarono ad interessarsi di Andreij Tarkovskij. A ripensarci, e nulla togliendo alla poesia di Tarkovskij, ci si accorge, ora, che era un autore facile ed adattabile all’occidente meccanizzato fruitore di mode effimere. Alla sua fama Andreij Tarkovskij diede un contributo non indifferente con opere di vario genere. Il continuo viaggiare per motivi di dissenso ideologico con il potere centrale dell’URSS lo rese famoso nei salotti di tutta Europa. Per fortuna l’Andreij non perse la sua anima russa. Egli divenne preda, così, degli uffici stampa che cercavano di contrapporlo con chi la Russia non l’abbandonò mai. E in quel tempo il cinema russo era vivo e vegeto come dimostrano ancora oggi le opere di Elem Klimov, Marlen Hutsiev, Serghei Bondarchuk per citare che pochi. Quel cinema era in fermento anche per l’opera letteraria, cinematografica, e alla presenza scenica, di Васи́лий Мака́рович Шукши́н, Vasily Makarovic Shukshin. La Russia, anzi le Russie, di quel tempo erano ancora legate alla terra ed a un drammatico passato recente come la Seconda Guerra Mondiale. Da questo traeva origine l’arte di Vasily Makarovic. E meglio ancora dall’urbanizzazione inarrestabile dei mужик, mužik, che andava perdendo, per questo, la sua identità come il senso di appartenenza alla terra ed alle stagioni che, per ricordarlo, in quelle regioni sono corte per via dell’innevamento che occupa buona parte dell’anno.
L’opera di Vasily Shukshin è caratterizzata dal breve tempo della sua esistenza terrena essendo scomparso, a soli quaranta cinque anni, mentre ancora era nell’alba della sua maturità artistica. È successo però che, da quel momento, la sua influenza non si è arrestata. I suoi lavori letterari, per lo più racconti, hanno continuato ad essere trasposti sullo schermo, a volte con la presenza della moglie Ли́дия Никола́евна Федосе́ева-Шукшина́ Lidiya Fedoseeva-Shukshin, fino ai giorni nostri.
Se vi è una perdita nell’opera di Shukshin va trovata solo – l’ho dedotto solo in questi giorni visionando varie trasposizioni cinematografiche più recenti - nella natura del supporto da cui traggono origine le immagini. La pellicola era il vero, naturale appoggio biologico per una trasposizione corretta del pensiero di Vasily Makarovic, essendo il supporto digitale dei giorni nostri alquanto privo di anima.
Breve filmografia
di Vasily Shukshin:
come regista
Из Лебяжьего сообщают, Dal
rapporto Lebiazhie, 1960,film di
laurea
Живет такой
парень, Così vive un uomo,1964
Ваш сын и брат, Vostro figlio e fratello, 1965
Странные люди, Strana gente, 1969
Печки-лавочки, Il viaggio di Ivan Serghevic, 1972
Калина
красная, Il viburno rosso, 1974
principali trasposizioni letterarie
Пришёл
солдат с фронта, Tornano i soldati dal fronte,1971
Конец
Любавиных, La fine di Lyubavin, 1971
Земляки,
Connazionali, 1974
Позови
меня в даль светлую, Chiamami da lontano,1977
Праздники
детства, Vacanze d’infanzia,1981
Крепкий
мужик, Uomo forte, 1991
Охота
жить, Caccia libera, 2014
mercoledì 30 novembre 2016
Condannate in sul nascere
CON “JUDICIO”
IL PUBBLICO delle
sale cinematografiche italiane ha fischiato, e sonoramente fischiato, taluni
film di produzione nazionale: 5 o 6 su un complesso di circa quaranta.
Non esitiamo farne
i nomi, per intenderci chiaramente:
UN BACIO A FIOR D’ACQUA,
1
PIERPIN, 2
LUCE DEL MONDO, 3
ARMA BIANCA, 4
COLPO DI VENTO, 5
IL GRANDE
SILENZIO, 6
tutti film che
hanno meritato la loro sorte.
Ma bisogna che il
pubblico prenda nota di due fatti; dopo di che potrà continuare a fischiare
serenamente tutti i brutti film che gli saranno presentati.
II primo fatto è
il seguente: tutte le cinematografie, non solo le minori ma anche, e
soprattutto, le maggiori, hanno una percentuale elevatissima di opere sbagliate
o, peggio, condannate in sul nascere. Se il pubblico si divertirà a fare le percentuali
dei brutti film stranieri che ha veduto durante la stagione, in confronto ai
buoni, eppoi ripeterà questa statistica per i film italiani, si accorgerà, con
gioia, che la cinematografia italiana, ha una percentuale elevatissima di buoni
film: infinitamente superiore in confronto ai cattivi, a quella che può vantare
qualsiasi altra industria.
Secondo fatto!
anche nella attuale riorganizzazione della nostra industria cinematografica
esistono e persistono dei residuati di vecchie mentalità che agiscono al di
fuori di qualsiasi controllo, con iniziative private destinate al fallimento.
Gli organi competenti preferiscono ignorare queste sporadiche iniziative che non
hanno nessun valore e nessuna importanza di fronte al complesso: è sul complesso
che occorre giudicare la nuova cinematografia nazionale, non sui singoli fatti.
Che il pubblico
continui a fischiare ma, razionalmente, con “judicio”. Anche questi residuati
spariranno.
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica, Luglio-Dicembre 1936 –
XV
1 regia Giuseppe Guarino
2 regia
Duilio Coletti
3 regia
Gennaro
Righelli
4 regia Ferdinando Maria Poggioli
5 regia Carlo Felice Tavano
6 regia
Giovanni Zannini
lunedì 28 novembre 2016
domenica 27 novembre 2016
Diva da elettrochoc 2
Tutt’altra faccenda per l’ultimo film europeo della Garbo, La via senza gioia, che è firmato da
Pabst. La Vienna dell’inflazione e della fame, in quell’altro dopoguerra così
simile (tutte le sciagure s’assomigliano) al dopoguerra 1945. Unica differenza
le divise dei vincitori. Allora v’erano anche ufficiali in grigioverde che
invitavano le belle viennesi affamate sulle Fiat e invece di Chesterfield
regalavano Macedonia.
Si può pensare quello che si vuole di Pabst come regista.
Probabilmente, quanto a preparazione culturale, è uno di quegli intellettuali
che i francesi chiamano << primaires >>, cioè uno che non s’accorge
delle sfumature, uno che non sa che certi problemi sono antichi come la vita, e
soprattutto che l’arte non s’affronta gonfiando bicipiti e gote... Però è anche
uno che ha il cinema nel sangue, che ogni tanto è percorso dall’alito ineffabile della grazia. Per nostro conto sentiamo
di dovergli alcune delle sensazioni più piacevoli di spettatori induriti. Chi
non ricorda? Il can-can di Atlantide,
i mulini di Don Chisciotte, in primo
piano sullo sfondo di gonfie nuvole meridionali, e, ne I commedianti, girato dal povero umanitario Pabst sotto la ferula
nazista, la carrellata del banchetto, che fu subito celebre. Ma Greta e Pabst
ne La via senza gioia toccarono una
sorta di perfezione, ebbero un gran momento di quelli che la vita non ripete.
Fu un curioso connubio, non destinato a durare.
Insieme a Pabst e a Greta erano due favolosi attori, Werner Krauss, la
cui mefistofelica figura è strettamente legata al cinema espressionistico
tedesco, e la maggior << diva >> dell’epoca, Asta Nielsen. Ne La via senza gioia vi erano due azioni
parallele; una donna commetteva un delitto che avrebbe confessato solo alla fine
del racconto; una fanciulla pura, ma avvilita dalla miseria, veniva insidiata e
stava per perdersi ad opera di un losco figuro. Nel finale (evidentemente di
comodo) l’illibata fanciulla veniva salvata da un ufficiale degli eserciti di occupazione.
Per un’intuizione da grande artista Pabst era il primo a trasferire nel
cinematografo quel «fantastico sociale >› che Baudelaire aveva scoperto donando
alla poesia quella nuova provincia, che il cinema avrebbe in seguito esplorata
sino ai limiti estremi. Le incongruenze della civiltà industriale, i tristi
risultati delle speculazioni edilizie, i poveri esseri asserragliati nei
quartieri miseri come in un ghetto, la strana, dolente poesia delle case
misere, dei muri umidi, senza sole, erano per la prima volta conquistati da uno
sguardo intelligente e profondo. In questa direzione mai Pabst riuscirà in seguito
a fare di meglio.
Ne La via senza gioia Greta è
già l’attrice che tutti celebreranno più tardi nei film famosi d’America. Essa
ha appreso sin troppo bene la lezione impartitale da Stiller (ardente maestro
che brucerà la sua vita alla gloria dell'allieva); s’è dimenticata con la naturalezza
di una << comica >> vera le modeste origini, le avvilenti
esperienze, l’umile prova d’inizio del film comico Pietro il vagabondo. Ha già
quell’incesso regale, quello sguardo profondo, carico di significati patetici,
cui nessun maschio civilizzato resiste.
Il mondo cammina e le donne camminano con la storia; in testa alla
colonna capelluta e dalle tenere linee curve, vengono le figlie del Nord. La
Svezia del bellicoso Carlo XII s’è convertita al femminismo di Ibsen: il
benessere venuto con i frigoriferi, con le baleniere e con il pesce in barile,
porta la gente a considerare con rispetto la problematica dell’anima femminile.
Per reazione, gli intellettuali tipo Stiller non tardano a porgere un orecchio
compiaciuto ai << trolls >>, gli spiriti maligni evocati con tanta
passione dal piccolo speziale scandinavo.
Dopo il film di Pabst carico di realtà, di malinconia, dove si esprime
un giudizio su certi fenomeni sociali, Greta, chiamata a Hollywood, scivolerà
fatalmente, incoraggiata dal filisteismo dei produttori, sul piano inclinato
del divismo. Lo scotto verrà pagato molti anni più tardi, dopo il tentativo di
liberazione di Ninotchka, con Non tradirmi con me, restato fino ad oggi
senza resurrezione.
Attrice istintiva, e poco << intelligente >> (come invece
sono << intelligenti >> Bette Davis e Marlene Dietrich), Greta ha
compiuto cinquantun anni in settembre. È perciò, definitivamente, fuori giuoco,
a meno che accetti parti che non siano più di innamorata. Svelta negli affari,
ma timida, schiva, carica di <<complessi», Greta si mise in testa che il
capitombolo di Non tradirmi con me
era stato il frutto di una cabala di invidiosi, di una congiura ordita ai suoi
danni e non, come invece è vero, uno spiacevole infortunio professionale.
Insistette nella sua solitudine, forse avendo capito confusamente che il suo tempo
era passato. Figlia di Ibsen, non avrebbe potuto resistere alle imminenti
offensive di Sartre. Sopravvive ora, patetica, goffa e anche un pochino
ridicola, alla sua gloria. Resta nel cuore di innumerevoli suoi ammiratori un
ricordo, una << presenza >> che ha valore soprattutto perché fa
corpo con la loro giovinezza. Ma è un ricordo che perirà assieme a quelli che
amarono svisceratamente la << divina >> nel buio dei cinematografi
della vecchia Europa, più di venticinque anni fa.
1956
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972
giovedì 24 novembre 2016
Diva da elettrochoc
GRETA GARBO
Per chi non ha passato i quarant’anni, essa non è altro che un nome o poco meno. Né vale l’osservazione che le pellicole di Greta Garbo, non tutte, purtroppo, girano ancora per il mondo, ammirate da grandi e piccini: Grand Hotel, Ninotchka, Margherita Gautier, La regina Cristina. Importante non è vedere la <<divina >>, come allora venne chiamata, in film antichi che sottolineano con crudeltà la differenza fisica esistente tra la bella donna dell’<< età del jazz» e l’anziana signora nevrastenica, che detesta i fotografi, e che ciò nonostante viene ritratta in tutti i rotocalchi, infagottata in abiti qualunque, in compagnia di George Schlee, il marito di una sarta amica di Greta. Infatti la svedese fu niente di meno di un mito. Si sapeva benissimo, naturalmente, che da ragazza aveva spennellato con schiuma densa di sapone il viso dei clienti di un piccolo barbiere di cui era commessa; si sapeva pure che aveva cominciato a lavorare per il cinema prestandosi, in costume da bagno, a far la pubblicità per certi prodotti. Ma che importa? Greta era soprattutto la donna fatale de La carne e il diavolo; colei la cui sola apparizione era bastata per far dimenticare subito le << Vamp >> del cinema muto italiano, Lyda Borelli e Francesca Bertini, Italia Almirante e Pina Menichelli. Senza contare le << dive locali >>, Mae Murray e Pola Negri, Gloria Swanson e Wilma Banky.
Ricordiamo come se fosse ieri, e son passati quasi trent’anni, il pomeriggio in cui ci accadde di vedere per la prima volta il patetico volto di Greta. Aveva un abito bianco con luccichii argentei e una scollatura favolosa: l’alto collo dell’abito da sera alla Maria Stuarda accentuava l’incanto del profilo languido, degli occhi appassionati. Gli adolescenti della nostra generazione vennero scossi dal lungo bacio tra lei e John Gilbert ne La carne e il diavolo come da una scarica di elettrochoc, e la faccenda non fu più dimenticata. Di rincalzo vennero i film europei della << divina >>, anteriori nel tempo ma presentati in Italia dopo il successo de La carne e il diavolo: La leggenda di Gösta Berling e La via senza gioia. La sorpresa della scoperta era tale infatti soltanto per noi. Amica e allieva di un geniale, sregolato e infelice regista del suo paese, Mauritz Stiller, Greta era un tipico prodotto della vecchia Europa. Greta Garbo si presenta infatti nel cinema europeo con due artisti molto dotati, il già ricordato Mauritz Stiller e G.W. Pabst, e ne esce per cadere, a Hollywood, nelle mani di registi abili ma privi di mordente, di originalità, di poesia. Per noi questo non è un semplice caso. Hollywood è quella che è: i suoi vizi, il suo conformismo, la sua arida e livellatrice mentalità industriale li conosciamo da un pezzo. E pure Hollywood ci ha dato un genio del cinema, Chaplin, e una quantità di direttori artistici originali e profondi: Vidor, Ford, Hawks, Capra, Sturges, Huston... Come mai
Greta Garbo non ha incontrato nessuno a Hollywood capace di comprenderla in pieno, in grado di superare il dato << divistico >>, di immergerla in una atmosfera concreta e nello stesso tempo fatale? Come mai una fortuna di tal sorta è toccata alla Lombard di XX secolo, alla Davis di Le piccole volpi, alla Stanwyck di Proibito, persino alla Goddard di Tempi moderni e non a Greta Garbo? La risposta ci sembra semplice: Greta è restata sempre, a Hollywood, una straniera, un’attrice di passaggio che si tiene finché fa incassare dollari e che si licenzia come una cameriera quando non << rende >>. In verità essa è sempre rimasta la Greta di Stiller e di Pabst, la Greta << europea >>.
Abbiamo un ricordo non troppo limpido del primo film importante di Greta Garbo, La leggenda di Gösta Berling, diretto da Mauritz Stiller. Soltanto alcuni anni dopo abbiamo saputo che il film era giunto mutilato nelle sale delle vecchie città d’Occidente, da pochi anni tolte al loro sonno profondo per merito di uno spettacolo curioso, che si svolgeva al buio, mentre qualcuno suonava al pianoforte valzer di Strauss e notturni di Chopin.
Per chi non ha passato i quarant’anni, essa non è altro che un nome o poco meno. Né vale l’osservazione che le pellicole di Greta Garbo, non tutte, purtroppo, girano ancora per il mondo, ammirate da grandi e piccini: Grand Hotel, Ninotchka, Margherita Gautier, La regina Cristina. Importante non è vedere la <<divina >>, come allora venne chiamata, in film antichi che sottolineano con crudeltà la differenza fisica esistente tra la bella donna dell’<< età del jazz» e l’anziana signora nevrastenica, che detesta i fotografi, e che ciò nonostante viene ritratta in tutti i rotocalchi, infagottata in abiti qualunque, in compagnia di George Schlee, il marito di una sarta amica di Greta. Infatti la svedese fu niente di meno di un mito. Si sapeva benissimo, naturalmente, che da ragazza aveva spennellato con schiuma densa di sapone il viso dei clienti di un piccolo barbiere di cui era commessa; si sapeva pure che aveva cominciato a lavorare per il cinema prestandosi, in costume da bagno, a far la pubblicità per certi prodotti. Ma che importa? Greta era soprattutto la donna fatale de La carne e il diavolo; colei la cui sola apparizione era bastata per far dimenticare subito le << Vamp >> del cinema muto italiano, Lyda Borelli e Francesca Bertini, Italia Almirante e Pina Menichelli. Senza contare le << dive locali >>, Mae Murray e Pola Negri, Gloria Swanson e Wilma Banky.
Ricordiamo come se fosse ieri, e son passati quasi trent’anni, il pomeriggio in cui ci accadde di vedere per la prima volta il patetico volto di Greta. Aveva un abito bianco con luccichii argentei e una scollatura favolosa: l’alto collo dell’abito da sera alla Maria Stuarda accentuava l’incanto del profilo languido, degli occhi appassionati. Gli adolescenti della nostra generazione vennero scossi dal lungo bacio tra lei e John Gilbert ne La carne e il diavolo come da una scarica di elettrochoc, e la faccenda non fu più dimenticata. Di rincalzo vennero i film europei della << divina >>, anteriori nel tempo ma presentati in Italia dopo il successo de La carne e il diavolo: La leggenda di Gösta Berling e La via senza gioia. La sorpresa della scoperta era tale infatti soltanto per noi. Amica e allieva di un geniale, sregolato e infelice regista del suo paese, Mauritz Stiller, Greta era un tipico prodotto della vecchia Europa. Greta Garbo si presenta infatti nel cinema europeo con due artisti molto dotati, il già ricordato Mauritz Stiller e G.W. Pabst, e ne esce per cadere, a Hollywood, nelle mani di registi abili ma privi di mordente, di originalità, di poesia. Per noi questo non è un semplice caso. Hollywood è quella che è: i suoi vizi, il suo conformismo, la sua arida e livellatrice mentalità industriale li conosciamo da un pezzo. E pure Hollywood ci ha dato un genio del cinema, Chaplin, e una quantità di direttori artistici originali e profondi: Vidor, Ford, Hawks, Capra, Sturges, Huston... Come mai
Greta Garbo non ha incontrato nessuno a Hollywood capace di comprenderla in pieno, in grado di superare il dato << divistico >>, di immergerla in una atmosfera concreta e nello stesso tempo fatale? Come mai una fortuna di tal sorta è toccata alla Lombard di XX secolo, alla Davis di Le piccole volpi, alla Stanwyck di Proibito, persino alla Goddard di Tempi moderni e non a Greta Garbo? La risposta ci sembra semplice: Greta è restata sempre, a Hollywood, una straniera, un’attrice di passaggio che si tiene finché fa incassare dollari e che si licenzia come una cameriera quando non << rende >>. In verità essa è sempre rimasta la Greta di Stiller e di Pabst, la Greta << europea >>.
Abbiamo un ricordo non troppo limpido del primo film importante di Greta Garbo, La leggenda di Gösta Berling, diretto da Mauritz Stiller. Soltanto alcuni anni dopo abbiamo saputo che il film era giunto mutilato nelle sale delle vecchie città d’Occidente, da pochi anni tolte al loro sonno profondo per merito di uno spettacolo curioso, che si svolgeva al buio, mentre qualcuno suonava al pianoforte valzer di Strauss e notturni di Chopin.
(continua)
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972
mercoledì 23 novembre 2016
Bloody Lardani
venerdì 18 novembre 2016
Camera scatenata
Supervisionata da Murnau, la camera << scatenata >> (è cosi
che i tedeschi chiamano la camera mobile) non si presta mai a un giuoco artificioso.
Di conseguenza ogni movimento, anche quando rivela la gioia che egli prova a
liberare la camera dai suoi freni, ha uno scopo preciso, chiaramente definito.
Cosi in
Tabú moltiplicherà le
imbarcazioni indigene che si slanciano davanti a un veliero: accentuerà la
diversità dei piani, farà incrociare le barche in un vivace montaggio in cui si
vede l'eroe ritornare indietro col pretesto di andare alla ricerca di un
fratellino in ritardo; avendo così agio di gustare il flusso e il riflusso
delle sottili canoe che filano sull'acqua limpida.
Il successo dell'ammirabile inizio dell' Ultimo uomo è dovuto interamente al modo di manovrare la camera:
attraverso i vetri dell'ascensore che scende abbracciamo con un solo colpo d'occhio
l'intera hall dell'albergo con il suo baluardo di piani, sentiamo
immediatamente l'atmosfera particolare che agita il fiotto continuo dei visitatori
che entrano ed escono sotto lo scintillio delle luci vibranti di un moto
ininterrotto; i contorni si rompono e si riformano, in un rapido concatenamento di immagini che
mozzano il fiato.
Quando la camera è supervisionata da Murnau, tutte le risorse visive
sono esplorate: essa mette a nudo, lentamente, sapientemente, tocco per tocco,
il pietoso stato del portiere che qualche minuto prima ci appariva ancora ben
protetto nella sonsontuosa e pesante sicurezza della sua livrea. Rivela spietatamente
il colletto consunto di una giacca miserabile, il vestito sgualcito; e scende,
perché nulla ci sfugga, lungo le gambe raggrinchiate nei pantaloni piegati a fisarmonica.
Murnau si compiace ad unire la mobilità della camera con gli effetti di
ripresa attraverso un vetro, precisamente come ha fatto al principio del film
riprendendo la hall dell'albergo attraverso i finestrini dell'ascensore in
discesa. La scena che scatena il dramma - il direttore che annuncia al portiere
che lo hanno assegnato a una funzione più modesta - è vista di lontano attraverso una porta a
vetri. La camera mobile si avvicina lentamente, fissa la confusione del portiere
e la schiena indifferente del direttore. E, pure da un'altra porta vetrata,
vediamo venir avanti la governante incaricata di condurre Jannings al suo nuovo posto; essa simbolizza con la rigidità del suo atteggiamento “il
destino inesorabile” mentre nell'armadio luccica, simbolicamente, l'uniforme
perduta. E' con lo stesso procedimento che Pabst mostrerà attraverso i vetri di
una porta nel Diario di una donna perduta
la scena decisiva fra Louise Brooks e Fritz Rasp, il suo seduttore, e che nell'Opera da tre soldi si sorprenderà Mackie
Messer che prega Polly Peachum di seguirlo per sempre.
Murnau si compiace della superficie liscia dei vetri che sostituisce
tanto spesso per i cineasti tedeschi quell'altra superficie liscia che è
rappresentata dagli specchi. La sua camera indugia su quei piani opalescenti,
grondanti di riflessi di luce o di pioggia: finestrini d'automobile, battenti a
vetri della porta a bussola dove si riflette la silhouette del portiere vestito di un luccicante incerato, massa
scura di case dalle finestre illuminate; pozzanghere luccicanti sul selciato
umido. E' una maniera quasi impressionista di evocare l'atmosfera: sotto la sua
direzione, la camera sa fissare quella penombra diffusa che viene di notte dai lampioni
accesi, giuoca con le irradiazioni che sotto la spinta del movimento diventano
vibrazioni, scanalature luminose; tenta anche di afferrare, nello specchio dei
gabinetti i riflessi degli oggetti di toilette luccicanti o quello di una
impalcatura nera che si intravede nella corte.
Lotte
Eisner, Lo specchio scuro, ed. Bianco e Nero, 1951
giovedì 17 novembre 2016
Le cinéma vu par Bonnaffé
Il grido, 1957, Michelangelo Antonioni
Chiedo asilo, 1979, Marco Ferreri
Citizen Kane, 1941, Orson Welles
mercoledì 16 novembre 2016
“ Come al cinematografo “ pat. 2
Ogni arte, e ogni nuovo atteggiamento umano che proviene dalla finzione
artistica, agiscono sul principio con una violenza estrema. Come il gusto
dell’Opera nell’Ottocento improntò di sé grandi e piccoli drammi umani e
penetrò le tecniche delle altre arti e la moda e il linguaggio e la concezione
intera della vita, al punto che noi non possiamo pensare a quel secolo se non
sotto l’influsso del melodramma, del grande gesto, dell’eloquente, del
declamativo, così non possiamo definire il nostro tempo se non sotto l’influsso
delle arti meccaniche. Anche all’apparire di queste vi fu un eccesso, una
rivoluzione del costume: sembrò che la vita si atteggiasse a cinema, e l’ideale
della bellezza virile e femminile e la moda e gli atteggiamenti e il linguaggio
e l’arredamento e lo sport. Bisognò abituarsi a questa nuova estetica: tutto
per alcuni anni è stato cinematografo, anche negli invasamenti dei letterati.
Arte fatta di atteggiamenti e di gesti, foggiò un’umanità di gesti e di atteggiamenti. Parlo qui delle
grandi masse umane. Di dove proverrebbe, diversamente, lo spettacolo che
offrono alcune spiagge estive o alcuni campi di sport invernali dove il mare e
la neve hanno soltanto un valore di sfondo, di ambiente, di scena, mentre
l’importante è di trovarsi come in una rappresentazione,farsi fotografare in
costume come in un travestimento, assumere delle pose e vivere nella finzione
di queste pose.
Il cinema ha dato all’uomo un senso nuovo: di agire come in una
finzione e di vedersi agire. Allo stesso insegnamento del cinema s’ispirano
alcuni fatti di cronaca che si leggono nei giornali: ognuno dei protagonisti
del piccolo dramma o della piccola commedia quotidiana recitano una parte che
ricorda il film di ieri: Gli stessi cronisti hanno imparato a scrivere col
movimento dei film. E’ avvenuta una unificazione di costume. A mano a mano che
il cinema conquista nuovi popoli vi porta un diverso orientamento della vita;
tanto che per alcuni paesi di colore si sceglie la produzione cinematografica
che dia la migliore immagine della razza bianca, contagioso com’è l’esempio e
il modello di quell’arte. All’apparire di alcuni film polizieschi presso alcuni
popoli primitivi, sono accaduti delitti reali ispirati alla finzione
cinematografica.
E poi: legioni di ragazze si somigliano da quando hanno per modello le
eroine del cinema. L’ultimo colpo alla civiltà di masse, come si chiama
comunemente la nostra, lo ha dato la radio che rende il mondo d’ora in ora
partecipe degli avvenimenti più lontani nell’istante in cui si svolgono, come a
dilemmi che toccano la vita di tutti e che tutti finiscono con l’ingegnarsi a
risolvere. Molta della calma antica proveniva dal fatto che dei drammi agitanti
la storia quotidiana l’eco arrivava quando il fatto era già al suo epilogo.
Il cinema agirebbe dunque come livellatore e insieme come corrosivo del
carattere e della personalità; nello stesso tempo offre alle folle ignare un
modello universale come nessun altr’ arte fu capace, né l’Opera dell’Ottocento
né la pittura del Rinascimento- Il fatto è che i modelli proposti da questi due
secoli nelle loro arti furono ardui, indicavano qualcosa di eroico; mentre
quest’arte nuova nella sua espressione più comune offre quasi un galateo della
vita quotidiana. Ciò che non sarebbe poco. Per identificarsi a un eroe del
Cinquecento o dell’Ottocento occorreva un’aspirazione d’una certa misura,
spesso più grande dell’uomo. L’eroe che ci offre il cinema, ha detto un attore
americano, è un bravo ragazzo che chiacchiera, sorride, danza, abbraccia una
donna bella, passeggia negli ambienti più diversi, sotto la guida di un regista
e sotto la regola di uno scrittore d’un truccatore d’un operatore che vogliono
renderlo intelligente e affascinante. Per questo i film realistici sono
destinati al più sicuro insuccesso, almeno fino a quando durerà l’influsso del
cinema americano.
Bisogna consumare questa nuova estetica del costume sociale come si
consumano tutti i nuovi atteggiamenti creati dalle arti, poiché sono sempre le
arti a determinare gli atteggiamenti umani di fronte alla realtà: Il cinema
arriverà alle sue ultime conseguenze e al suo estremo sviluppo. Se seguiterà
quale è oggi comunemente, cioè un gioco convenzionale, decadrà come è destino
di ogni arte convenzionale. Se affronterà la realtà come ogni altra grande e
vera arte, sarà forse meno popolare: e non si può immaginare una così complessa
e costosa industria messa a servizio di pochi. Mi sembra ora che un certo
cinismo nella vita e nel costume provengano dal cinema, e precisamente dalla
sua leggerezza nel trattare le passioni umane. Sempre, quando l’arte fu un
gioco sentimentale, la realtà fu cruda e cinica. Poiché l’uomo crede speso di
aver pagato il suo tributo ai buoni sentimenti prendendone solo
l’atteggiamento. E il cinema ha la virtù di dare a ciascuno degli spettatori
l’illusione di essere lui il facile eroe che agisce sullo schermo, appunto
perché s’è sviluppato in un paese di differenze sociali profondissime, in
America, e noi lo abbiamo accolto e imitato tale e quale.
Il cinema sarebbe al punto cui era l’Arcadia prima della grande fiammata
romantica. Convenzione, maniera. L’arte dell’Arcadia “ si presentava come
contrasto tra l’onore e l’amore, la città e la villa, tra le leggi sociali e le
leggi della natura. Naturalmente è la natura che vince … L’ideale poetico,
posto fuori della società, rivelava una vita sociale prosaica, vuota di ogni
idealità “. Sembra una definizione del cinema (ed è Francesco De Santis che
parla dell’arte del Seicento); del cinema quale è stato codificato, regolato,
imposto dall’industria americana e come è perpetuato dai tre quarti
dell’Europa. Ma ancora il cinema non ha dato fondo alle sue possibilità
tecniche. Verrà il colore dopo il parlato. Poi verrà il rilievo. Al termine del
suo progresso non gli rimarrà che diventare un fatto poetico e umano.
CORRADO ALVARO, 1937
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