La poesia filmica: «Così vive un uomo»
Sulla strada per Baklan un camion
diretto verso un kolchoz accoglie un automobilista in panne; è il presidente
del kolchoz del villaggio List-via/nka, Prokhòrov.
L'autista del camion, «meccanico di
seconda categoria » Paška Ergòrovic Kolokòlnìkov, ventisettenne, scapolo,si
lascia convincere a mutare destinazione al suo viaggio e a seguire il suo
passeggero nel villaggio di Li'stvianka. Il suo camion servirà per trasportare
il legname.
Nel corso di un ballo nel kolchoz
Paška incontra la bibliotecaria, Nastia. Balla con lei e suscita la brusche
gelosie dei vecchi compagni della ragazza.
Nel corso di una visita in
biblioteca, Paška fa la conoscenza dell`innamorato di Nastia, l'ingegnere Zena:
i tre fanno amicizia e si recano insieme ad una sfilata di modelli
autunno-inverno prêt-à-porter, che si svolge la sera in una sala del kolchoz.
Dopo un'incursionie notturna in casa
di Nastia, Paška si rende conto che la ragazza gli preferisce l'ingegnere.
Rivolge allora le sue attenzioni in altre direzioni. Cerca di agganciare
Ekaterìna, una donna divorziata per colpa del marito che beve troppo. La donna
lo resipinge, rimproverandogli la sua fantasiosità, così prossima alla
scapataggine.
Paška decide di presentare un suo
maturo compagno, 'zio' Konrad, a 'zia' Anussia, con l’intenzione di fargliela
sposare. Dopo una gustosa schermaglia, gli riesce di «mettere d’accordo 'zio'
Konrad Stepànovic e Annussia.
Paška si reca poi al deposito di
carburante per caricare dei bidoni di benzina.
Mentre si trova al bar, il suo camion
già carico prende fuoco. Il giovane riesce a scostarlo dalle altre autocisterne
e a gettarlo nel fiume prima che esplode.
ll deposito è salvo, lui 'si ritrova
all’ospedale con una frattura al femore.
E' qui che gli capita di raccontare
agli altri malati le sue immaginarie avventure sulla luna. Da quei momento
viene considerato un eroe. Riceve la visita di un'inviata di -« Novyi Zurnal »
(La nuova rivista), che lo intervista. Nel dialogo col maestro malato e negli ultimi
due sogni, Paška si chiede che cosa sia la felicità. Gli si risponde: “E'
ridere, piangere, perdonare di cuore”. Paška conclude che mette ben conto
continuare a vivere.
ll primo film di Šukšin,
ricavato, come gli altri, da racconti da lui scritti e pubblicati, ebbe subito
una consacrazione. Quella autorevole di Venezia, anche se nel 'ghetto' della
mostra del film per ragazzi. Relegazione incomprensibile se non fosse per quell'aria
di novelletta “edificante” e buffonesca che il film si tira dietro e che gli
valse in patria clamorosi biasimi dalla critica ufficiale, ma anche il primo
premio per la "miglior commedia dell'anno" al festival nazionale di
Leningrado.
Pensato e costruito come opera drammatica da Šukšin, Zivët takòj' pàren' fu preso per un film
brillante, se non addirittura "comico".
E si ebbe reprimende spocchiose e balorde: «E' inammissibile che si glorifichi
l'incoltura del protagonista in una società in cui tutti studiano; che si
predichi il buonsenso in un tempo di grandi rivoluzioni sociali; che si
pretenda di trovare il senso della vita nelle semplici gioie della natura
›› (Lev Anninakij, “Le film soviétique”, 1972, 9, p.35).
Šukšin non se la prese. Poteva
avallare la classificazione del film tra le commedie buffe. Non si rendeva conto
di come e perché fossero scattati questi meccanismi di fraintendimento. Con una
scontrosità e un amor proprio tutto contadino risolse semplicemente di
attenuare quel suo modo naif di articolare il proprio mondo narrativo, nel
quale la natura non è già decorazione di sfondo o elemento esornativo ma è
l'ordito stesso della narrazione; mentre i personaggi ne sono la trama.
La natura, nei
film di Šukšin,
fa corpo con la gente; si anima per essa e con essa. Essa è la situazione del
personaggio: così come il personaggio è la persuasione della situazione. La
vita è totalizzante, fantasiosa e buona, anche quando si fa esattiva: «dobbiamo
pagare per tutto nella nostra vita» è il leit-motiv di Kalina krasnaia, ultimo film di Šukšin,
che offre anzi la più efficace drammatizzazione di questo tema. Drammatizzazione
che viene confermata da quel tono di tenerezza estrema che inarca il film e
dalla forza di convinzione assoluta che il discorso dell'autore ti lascia
addosso: come ogni discorso pensoso di chi, sa di dover abbandonare per sempre la
realtà delle cose care.
Zivët takòi paren'
ebbe, a Venezia una motivazione d'onore piuttosto azzeccata: « Il film russo
offre al bisogno di identificazione dell'adolescente la figura di un giovane
che, pur caratterizzandosi in atteggiamenti tipici della sua età, non si chiude
in schematismi, anzi si afferma in una ricca le complessa umanità”. Questo
paradimma vale però non meno (diremmo: primamente) per il mondo adulto. Il film
è parabola d'una ricerca d'identità.
L'Erlebnis di Šukšin
affiora qui imperiosa: il vagare di Paška di luogo in luogo alla ricerca di se
stesso e di una stabilità esistenziale - le sue allegre scapataggini, quel suo
festoso cicalare, quegli ininterrotti approcci di colloquio sono indice
d’insicurezza -, quel suo andare in caccia della donna ideale che sostanzi e
confermi
la sua consistenza di uomo, divengono materia trasfigurata
di poesia. Ed erano (sono) l'esperienza del Šukšin
giovanetto che lavorava nei kolchozy, che vi si provava in molti mestieri, che cercava
attraverso questa esperienza di colmare il gap di cultura con gli scolarizzati,
lui che aveva dovuto lasciar la scuola a quattordici anni. L'irrequieto ed
estroso viaggiare di Paška sul suo autocarro da una parte tradisce il suo
bisogno di far presto, di recuperare il tempo perduto: non è dunque una fuga,
la sua, ma una ricerca; non è un abbandonar se stesso, è un perquisire, un
inseguire se stesso. E insieme è l'occasione per fare un inventario del mondo
che lo circonda, per ispessire i rapporti tra fantasia e realtà, per capire il
proprio ruolo in una società che cambia.
E' la furbizia contadina a farla da protagonista. Questo
misto di buon senso, di cauta avventatezza, di fiuto delle occasioni possibili,
di pazienza dell'attesa, di impulsiva capacità di reazione alle provocazioni
delle circostanze è istinto vitale, è sobrio amore alle effervescenze della
realtà, è elogio di un mondo asseverato, quello contadino. E' ripugnanza fisica
verso la stupidità che nutre invece certi sciocchi intellettualizzati. Il confronto finale fra la giornalista e Paška,
all'ospedale, sulle ragioni che l'hanno spinto all'atto “eroico"è emblematico.
«L'ho fatto - dice |Paška - perché son stupido ›› A domanda idiota, una risposta
che dice il nome di uno dei peccati mortali dei mass-media, banalità, ovvietà,
stupidità.
E' stato giusto rimarcare (Lev Anninskij, cit., p. 34] che
la finta stupidità di Paška è l'impulsiva difesa dell'uomo nelle situazioni
singolari, eccezionali. Paška si schernisce per l'impresa: che è eccezionale
solo secondo i cliché di comportamento d`una società che ha formalizzato al
massimo i suoi rapporti interni e che inventa i suoi "eroi" solo
quando li sorprende in una situazione “abnorme”, rispetto al mansueto quadro
convenzionato delle sue sicurtà. L'ironia di Paška è la più spontanea manifestazione
di quel pudore “contadino” che pervade tutto il film e che esplode in quella
deliziosa 'novella' che è il “tentativo a buon fine” che 'Paška fa ,di
combinare un'unione tra il maturo “zio' Konrad e la pacioccona 'zia' Anissia.
Konrad è un'ipotesi di Paška adulto: un vagabondo disposto
ormai a barattare la sua pesante libertà con il caldo di una casa, con del buon
cibo, sicuro, ben cotto e saporito.
La scena è un capolavoro di finezza psicologica nel pieno
rispetto dell'id-entità goffa e scontrosa dei due personaggi. Paška è il
folletto che saltella a infiorare un dialogo di reticenze e d'intese che si fa
subito sicuro, spedito e godibile dopo il primo, sospeso approccio.
E l'interprete, Leonid Kuràvlëv, che sembra rivoltato nella
parte sarà presente anche nel primo episodio di Vaš syn i brat; e dichiarerà di non essersi mai potuto esprimere
con altrettanta felicità e facilità che con Šukšin
(Lev Anninskij, cit., p. 33)- anima questo ben azzeccato ruolo di king's fool - ove il sistema
collettivistico sta per il re - di stravagante ed eccentrico antieroe, quasi a
sermoneggiare sottovoce (in un pianissimo che si deve estinguere quasi inavvertito)
sulla destinazione di ogni inquieto cercare e di ogni burlesca ripulsa. E la
destinazione è la casa di campagna. Essa le luogo della pace, la sede della
stabilità. La casa fa corpo con la terra. E la terra non tè infedele.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto
1976
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