domenica 26 maggio 2019

The tie in the movies - la più allegra e la più "dura"

 - La più allegra?
 sono due: la cravatta lunga nella beffa del saluto di Olio e la farfalla di Stanlio.



- La più “dura”?
ancora una coppia, sotto il cipiglio dei due bei mascalzoni: Belmondo e Delon in Borsalino.

(continua)
 Marina Nelli, VIETATO FUMARE tuttocinema & dintorni ANNO I – N. 1 – NOVEMBRE 1984

mercoledì 22 maggio 2019

The tie in the movies



La cravatta nel cinema

Non sembri un nonsense questo intrigarsi a vicenda di due culture normalmente da noi considerate su piani ben distinti. L’abbigliamento è parte estetica rilevabile e rilevante di un film, ma diciamo che l’occhio solitamente afferra solo la totalità generica del look e raramente si sofferma sui particolari a meno che questi, per incisività di effetti, emergano dal contesto scenico.
La cravatta poi, attributo quasi scontato dell'eleganza maschile, si mixa alla personalità dell’attore che la indossa e ne diventa parte integrante di tipologia e fascino, senza però divenirne visibile protagonista.
Ma in realtà i legami sono più sottili e complessi talvolta sorprendenti.
Cogliamo l’occasione di una importante mostra che si tiene a Milano a Palazzo Acerbi, dal titolo “CRAVATTA AL MUSEO”, organizzata da Gherardo Frassa. In questa story, mosaico di aspetti sociali, artistici, industriali, dove la cravatta viene interpretata, indagata, “aggredita” ed esaltata, in diverse angolazioni e dialettiche, c’è una stimolante voce intitolata “MOVIE TIE”.
Durante questa mostra che andrà poi a Firenze al Pitti-Uomo di gennaio e che è prevista itinerante in Italia ed Europa, verrà proiettato in continuazione un “FILM DEI FILM”, realizzato con i vari spezzoni dal noto critico TATTI SANGUINETI, il quale ci insegnerà a “VEDERE” la cravatta sullo schermo, in situazioni via via sentimentali, tragiche, comiche o paradossali, tutte comunque illuminanti per una nuova attenzione.
E la cravatta non è una ma mille. (continua)
Marina Nelli, VIETATO FUMARE tuttocinema & dintorni ANNO I – N. 1 – NOVEMBRE 1984

domenica 19 maggio 2019

Amori e lotte in Sila






La vita riprenderà ovvero Il sentiero dell'odio, girato da Sergio Grieco in Sila nel 1950 con, in ordine di apparizione, Marina Berti, Piero Lulli, Ermanno Randi e Carla Del Poggio. Il film alla sua uscita non sestò particolare interesse e tutt'ora è inediti, digitalmente parlando. Il secondo titolo fa riferimento a I pascolo dell'odio (Santa Fe Trail) di Michael Curtiz di dieci anni prima.



giovedì 16 maggio 2019

Detective Thriller - Detective Stories



Nella cultura americana la « detective story » ha sempre rappresentato simbolicamente la capitolazione dell'artista recalcitrante nei confronti della comunità borghese. Capitolazione che nessuno ha mai raffigurato meglio di Billy Wilder nel suo Private Life of Sherlock Holmes, in cui il mistero centrale è dato dal personaggio Holmes e il dramma autentico dalla sua estraneazione rispetto alla realtà vittoriana che lo circonda, sancita dalla sua dubbia appartenenza sessuale e dall'uso di stupefacenti.
Quando la « detective story ››, con lo Sherlock Holmes di Arthur Conan-Doyle, passò in Inghilterra, per lungo tempo in America non ebbe altri cultori all'infuori di Mark Twain, il quale però in «Drouble-Barrellerd Detective Story» e con il suo « amateur sleuth ›› Pudd’nhead Wilson dovette prendere proprio distanza da Holmes (cosi .come questo ostentava disprezzo e sufficienza nei confronti del C. Auguste Dupin).
Anche l'avvocato e «detective » dilettante Gavin Stevens di William Faulkner, che appare per la prima volta in una serie di racconti pubblicati sul « Saturday Evening Post », più tardi raccolti in volume sotto il titolo « Knights Gambit ››, rappresenta il tentativo dello scrittore di fare la pace con il Sud, l'America, il mondo intero. Anche il Quentin Compson di « Absalom, Absalom! » si auto-torturava e si autodistruggeva, percorrendo il vasto e profondo Sud alla ricerca di una fatidica verità. Anch'egli non era che una specie di « detective » dilettante, ma la verità l'avrebbe disrutto. Al contrario di Quentin Compson, il «detective » riottoso e antagonista che sceglie il suicidio, Gavin Stevens, il<< detective ›› conciliante e socialmente utile sceglie il lieto fine. Per quanto alle prese con questioni estreme in fatto di colpe e responsabilità Gavin Stevens in « Non si fruga nella polvere ›› e « Requiem per una monaca ›› si ritrae dall'orrore e scivola verso il sentimentalismo. Dal primo dei due romanzi citati nel 1949 Clanence Brown trasse una trasposizione cinematografica, Intruder in the Dust, girato quasi interamente a Oxfond, Mississippi, città natale di Wiillliam Faulkner, che pur senza rendere tutta la materia dello scrittore, non ne tradiva la tematica e si poneva come un « social exposé ›› contro il linciaggio, come Fury di Fritz Lang e The Ox-bow Incident (1943, Alba fatale) di Willialm A. Wellmaln.
Ma la versione più appiattita e conciliante dell’archetipo di Gavin Stevens è l'avvocato [Gregory Peck] protagonista di To Kill a Mockingb-ird {Il buio oltre la siepe] di Robert Mulligan, dal romanzo omonimo di Harper Lee: anche qui un negro accusato di un delitto che non ha commesso viene salvato dalla brama di vendetta pubblica della « prude » e razzista comunità dei bianchi.
Nella storia della « detective story ›› americana non mancano altri perdimenti al freddo rompicapo e altre capitolazioni nei confronti della comunità borghese. Il Philo Vance di S. S. Van Dine è una specie di esteta decadente che ei rende socialmente utiile in qualità di « amateur seuth ››. Charlie Chan, l’investigatore cinese di Honolulu ideato dallo scrittore Earl Derr Biggere, impersonato dall'attore Warner Oland nelle numerose trascrizioni hollywoodiane delle sue avventure [non tutte sulla base di storie di pugno dell'autore) segna il trionfo della totale accettazione dell'« outsider ›. L'ombra sinistra del « chink » di Sax Rohmer, Fu Manciù, anch'essa più volte proiettata sullo schermo, si trasforma nella panciuta e più gradevole « silhouette › dell’orientale che mette tutta la sua saggezza, nonché tutta la sua astuzia, al servizio della legalità, né più né meno come fanno il giapponese signor Moto di John P. Marquanld e l'hawayano Johnny Aloha di Dray Keene.
Ma il contributo essenziale della cultura americana alla « detective story » è indiscutibilmente uno strano rampollo della letteratura sulla violenza urbana che imperava negli anni venti e trenta: una quanto mai realistica descrizione della corruzione nella grande città il cui supporto è dato dalle peripezie del «private eye››. Questi non ha più nulla in comune con il «dandy » «diventato «almateur sleuth ››: la moderna « detective story » americana non rappresenta più simbolicamente la capitolazione ai dettami del sentimentalismo, del freddo rompicapo e del lieto fine, ma ci dà la più piena affermazione dell'orrore sociale della società capitalistica americana. Geograficamente il « private eye ››, il « detective », lo « shaimus ››, lo « sleuth », l'« operator » delle varie agenzie investigative, eredi della famosa Pinkerton, è uno «easterner ›› ›[anche se spesso le sue azioni hanno luogo in California] ma la sua derivazione ideologica e mitopoietica è quella del « westerner ››, l’incarniazione dell'innocenza dell'uomo che è sempre vissuto a contatto della natura, al cospetto della frontiera, e che adesso si muove cercando di restare senza macchia attraverso la corruzione che abita la grande città. Tale parentela non è sfuggita a Dashiell Hammett: che nel racconto « Corkiscrew » ha fatto del suo tarchiato « operator ›› lo sceriffo di una cittadina del West. Né è sfuggito a Donald C. Siegel che in Coogan's Bluff (1968, L'uomo dalla cravatta di cuoio) dapprima manda il suo «deputy » di contea [Clint Eastwood) ad arrestare un capo indiano fuggito dalla riserva e successivamente lo spedisce in jet in trasferta a New York, dove prendere in consegna un malfattore da estradare (Don Stroud).
Nel film di Donald C. Siegel le disavventure del ,« westener › gettato nel calderone rutilante della società urbana, industriale e permissiva si prestano a diventare supporto di un’apologia della società agricola che non è lontana dal fascismo alla Goldwater. Nel racconto di Dashiell Hammett invece [e in generale in tutta l'opera sua) lo «shamus ›› irreprensibile è l'onesto proletario che si guadagna da vivere con il suo duro lavoro e illumina per contrasto la spietata e perversa società dei ricchi; ed egli non parla o si muove con la pedantesca condiscendenza del C. Auguste Dupin ma nel linguaggio del popolo. (continua)
Franco Ferrini, I GENERI CLASSICI DEL CINEMA AMERICANO, BIANCO E NERO, 1974 Fascicolo ¾


mercoledì 15 maggio 2019

Лари́са




"I'm giving you my word that there's nothing, there's no frame in my film, not a single one, that doesn't come from me as a woman. I've never engaged in copycatting, never tried to imitate men, because I know very well that all the efforts of my girlfriends, both older and younger than me, to imitate men's cinema were just nonsensical, because all this is secondary. But I make a distinction between ladies, and men's cinema. There's no women's and men's cinema. There's ladies, cinema and there's men's cinema. Men, too, can do perfectly well the ladies, sentimental needlework. But a woman, as one half of the humankind origin, can tell the world, reveal to the world some amazing things. No man can so intuitively discern some phenomena in human psyche, in nature as a woman can".


"Vi do la mia parola che niente, nemmeno un’inquadratura del mio film, che riguardi me o le donne, è stato copiato da nessuno. Non ho mai tentato di imitare gli uomini, perché so che tutti i tentativi delle mie colleghe più giovani o più anziane di imitare il cinema maschile sono privi di senso perché sono secondari. Voglio fare, però, una distinzione tra il cinema delle donne e quello degli uomini perché non esiste un cinema femminile e un cinema maschile. Anche gli uomini sono capaci di rappresentare gli affari sentimentali delle donne. Mentre le donne, intese come la metà del genere umano, riescono a raccontare il mondo e tutte le cose straordinarie. Nessun uomo è in grado di intuire i fenomeni della psiche e della natura umana come riesce a fare una donna".
Larisa Efimovna Shepitko (1938 - 1979)

lunedì 13 maggio 2019

Men & Networks



This might just do nobody any good.
At the end of this discourse a few people may accuse this reporter ... of fouling his own comfortable nest ... and your organization may be accused of having given hospitality ...to heretical and even dangerous ideas.
But the elaborate structure of networks, advertising agencies and sponsors ... will not be shaken or altered.
It is my desire, if not my duty, to try to talk to you journeymen with some candor ... about what is happening to radio and television.
And if what I say is responsible... I alone am responsible for the saying of it.
Our history will be what we make of it.
And if there are any historians about 50 or 1 00 years from now ... and there should be preserved the kinescopes ... of one week of all three networks ... they will there find, recorded in black and white and in color ... evidence of decadence, escapism and insulation ... from the realities of the world in which we live.
We are currently wealthy, fat, comfortable and complacent.
We have a built-in allergy to unpleasant or disturbing information.
Our mass media reflect this.
But unless we get up off our fat surpluses and recognize that television in the main ... is being used to distract, delude, amuse and insulate us ... then television and those who finance it ... those who look at it
and those who work at it ...may see a totally different picture too late.

Quello che sto per dire a molti non piacerà.
Alla fine del mio discorso ...alcuni accuseranno questo reporter di sputare nel piatto in cui mangia ...e la vostra organizzazione potrà essere accusata di aver ospitato ...delle idee eretiche e addirittura pericolose.
Ma la struttura articolata di network, agenzie di pubblicità e sponsor ...non subirà scossoni, né sarà alterata.
E' mio desiderio mio dovere parlare a tutti voi ...di ciò che sta accadendo alla radio e alla televisione.
E se ciò che dico è responsabile ...allora io solo sono da ritenere responsabile.
La nostra storia sarà quella che noi vogliamo che sia.
E se fra 50-100 anni degli storici vedranno le registrazioni settimanali ...dei nostri tre network ...si ritroveranno di fronte a immagini in bianco e nero, o a colori...prova della decadenza, della vacuità e dell'isolamento dalla realtà...del mondo in cui viviamo.
Ora siamo tutti grassi, benestanti, compiaciuti e compiacenti.
C'è un'allergia insita in noi alle notizie spiacevoli o disturbanti.
E i nostri mass media riflettono questa tendenza.
Ma se non decidiamo di scrollarci di dosso l'abbondanza ...e non riconosciamo
che la TV soprattutto ...viene utilizzata per distrarci, ingannarci, divertirci e isolarci ...chi la finanzia,
chi la guarda e chi ci lavora ...si renderà conto di questa realtà ...quando ormai sarà troppo tardi per
rimediare.

George Clooney, David Strathaim, Good Night, and Good Luck, 2005


domenica 12 maggio 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Vita di Umberto


La prospettiva del corridoio, dunque, con tutti gli elementi che la compongono, è una perfetta rappresentazione della situazione del protagonista nella casa (e si ricordi anche il bel memento nel quale la macchina da presa inquadra il corridoio deserto mentre da fuori campo giungono le voci della padrona e della servetta: “Che stai facendo? », “Vuole l’acqua calda », e l'acida risposta della padrona un breve intensissimo brano che sottolinea quanto l’ostilità  verso il vecchio abbia impregnato di sé l‘intera casa).
Non per nulla ad Umberto, tornato dall'ospedale e in cerca del cane e della servetta, compare invece sulla vetrata nel fondo del corridoio l'ombra minacciosa della padrona: un momento figurativo che, come a volte capita nel cinema di De Sica - e un altro lo abbiamo ricordato più sopra per quel che riguarda i ricchi borghesi di Miracolo a Milano - sembra attinto a certa iconografia disneyana. Il corridoio, insomma, è il teatro emblematico del calvario morale del protagonista all'interno dello spazio chiuso e ostile della casa.
Il nucleo di base della corsia dell'ospedale, invece, rende un'effimera impressione di ordine, di serenità, di pacificazione. Naturalmente, l'impressione e falsa. La vita dell'ospedale poggia sulla menzogna, sull’ipocrisia, e il bianco che ne è il colore dominante, se da un lato attenua il rigore arcigno del primario e della suora, mostra bene d'altro canto la sua funzione di copertura tutt'altro che efficiente. La corsia si allunga verso la fine dell'ampia sala, mostrando una successione ordinata di lettini e malati. Ma l'indifferenza e la meschinità vi allignano non meno che negli altri spazi di Umberto: due figli in visita mostrano apparente cordoglio davanti al padre morente, ma appena rimasti soli si lanciano in una discussione di interessi economici, il vicino insegna al protagonista l'importanza della menzogna melliflua, la suora raccomanda i devoti per un prolungamento dell'ambito soggiorno distribuendo rosari e biscotti, ecc. , ecc.
Infine, il giardino pubblico, ritmato sul lato destro dell'inquadratura dall'intermittenza delle panchine e da un filare di alberi. Il giardino è il teatro della risoluzione finale del protagonista, del suo vero e proprio testamento, che però viene rifiutato con un sorriso sprezzante dall’istitutrice della bambina cui Umberto vorrebbe affidare il cane, per lui l'unico amico fedele, per la donna soltanto un grattacapo e un’occasione di lavoro in più. Passato il ponticello — una mitologica porta sulla morte — e fallito il suo tentativo di suicidio, Umberto tornerà ad inserirsi nella prospettiva del giardino, nel suo verde animato e strillante, perdendosi per una volta in essa mentre uno sciame di ragazzini vocianti invade lo schermo. Per un momento brevissimo e assoluto Umberto ha trovato una sua pace dimentica in un surrogate di natura, in uno spazio infinito perché infinita è la dimensione prospettica che ce lo porge *.
Solo a quel punto Umberto e veramente morto, alla vita ed al film. Nessuna caduta dalla finestra sul selciato percorso dalle rotaie del tram, nessun treno che travolga in un vortice di polvere e di fumo un vecchio ed il suo bastardo dagli «occhi intelligenti »: soltanto un campo lunghissimo nel quale l'immagine ludica della loro triste vita sfuma nelle mille possibilità della morte. (continua)

* Viene da pensare all’immagine di infinito nella sequenza conclusiva di Miracolo a Milano: ancora una volta un finale «soddisfacente», ma in realtà amarissimo perché irreale o comunque non risolto.

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975