Visualizzazione post con etichetta Retrospettiva. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Retrospettiva. Mostra tutti i post

mercoledì 10 ottobre 2012

Le notti bianche sul Pont Neuf



“Ad un tratto ebbi l’impressione che tutti volessero abbandonarmi e allontanarsi da me … quando tutta Pietroburgo spiegò le ali e se ne andò improvvisamente in campagna. Fu una sensazione terribile rimanere da solo e, in preda ad un profondo sconforto, vagai tre giorni interi per la città, senza capire minimamente cosa mi succedesse.”

In quel momento di sommovimento giovanile tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ’70 – chi li ricorda più per quello che sono stati? – Robert Bresson gira il suo film primaverile. Si, perché gli altri variano dall’estate, all’autunno, all’inverno.
A Parigi, sul Pont Neuf, si incontrano un pittore e una sconosciuta giovane, salvata per intervento del primo dal  salto nella Senna.
Il pittore, giovane anch’esso,  subisce,  a causa del racconto dell’amore per un uomo, il fascino della ragazza e se ne innamorerà, sperando di sfuggire alla sua condizione di eterno sognatore.
Il ragazzo sogna l’amore della ragazza che sogna l’amore dell’uomo, il quale comparendo la toglierà dalla vista e dal sogno del salvatore.
Bresson trasferisce l’azione originale, notturna, della Pietroburgo dostoveskiana in una Parigi anch’essa notturna, caotica e rumorosa sebbene apparirà un  lungo momento canoro che contribuirà ad alimentare le illusioni sentimentali dei due protagonisti. Al pittore non rimarranno che immagini e rimpianti e un nastro magnetico con la sua voce che chiama la ragazza.
Il cinema di Robert Bresson è un cinema classico, se gli si po’ appioppare questo termine, e come i classici della letteratura ha bisogno di attenzione, pazienza, va visto come lo scorrere dell’acqua di una fiumara nostrale, quando, verso l’inizio dell’estate, le acque diventano rade e senza tumulti, sapendo che il mare le accoglierà a braccia aperte.

mercoledì 19 settembre 2012

Un femme douce



Un monologo sul tempo, un film del dopo tutto al presente (Giorgio Tinazzi).
Un film gelido (François Truffaut).

La prima idea che mise piede nella mia mente alla visione di Così bella, così dolce è stata: “ come è possibile che un film inserito nel catalogo della San Paolo Film possa contenere delle scene di nudo e non essere sforbiciato”. La risposta era ovvia, Robert Bresson è un regista cattolico e quindi può. La perplessità nasceva perché mi ricordavo di quando in collegio, durante la proiezione di Ursus nella valle  dei leoni il prete protezionista metteva il dito sulle scollature della protagonista, anch’esso della San Paolo Film.
Dire che Robert Bresson è un regista cattolico è come dire che Clint Eastwood è di destra o Johann Sebastian Bach un luterano.
Rispetto al racconto di Dostoevskij, il film  mi pare che tratti più benevolmente il marito, un meschino usuraio, che ripensa il rapporto con la giovane moglie suicida e  nel suo egoismo quasi spinge oltre la finestra dopo averle negato la personalità.
Solo al momento dell’uscita di casa del corpo esanime si accorge della sua estrema solitudine che cercherà di alleviare trasponendo la sua vita in un diario.
"Immaginate un uomo, accanto al quale giace, stesa su di un tavolo, la moglie suicida, che qualche ora prima si è gettata dalla finestra. L'uomo è sgomento e ancora non gli è riuscito di raccogliere i propri pensieri...Ecco, parla da solo, si racconta la vicenda, la chiarisce a se stesso..." (F.Dostoevskij)


venerdì 7 settembre 2012

Bresson, il mite

 



Questa nuova retrospettiva dedicata al francese Robert Bresson comprende le sue opere tratte da due racconti brevi di Dostoevskij - La Mite e  Le notti bianche - uno di Tolstoi – La cedola falsa o Denaro falso - e due romanzi – Diario di un curato di campagna e Mouchette - Georges Bernanos. Tutta questa letteratura è accomunata dalla nuova scrittura che ne fece con le immagini Bresson. A vederli con un gusto particolare che non a niente a che vedere con le immagini di un qualsiasi Cameron o Moretti, si potrebbero prendere per dei film muti, la parola conta poco rispetto ai dialoghi originali degli scrittori sopra citati. E’ cinema scarno, sobrio che ha affascinato due uomini diversi ome Anderj Tarkovskij e Paul Schrader.
Forse, certo, mi ripeto, ma devo aggiungere che oggi l’unico regista da accostare a Bresson è Clint Eastwood, lui solo riesce a fare una cinematografia morale.



mercoledì 5 settembre 2012

Bresson, Dostoevskij, Tolstoi e Bernanos

Robert Bresson
25/09/1901 - 18/12/1999
il più morale dei registi morali

lunedì 27 agosto 2012

Where Do I Go from here


In questo articolo molto eloquente potete trovare quant'altro sul primo film di Michael Cimino


Una calibro 20 per lo specialista è il titolo di un piccolo capolavoro di M. Cimino, un film forse lasciato un po' ai margini della critica internazionale, forse per via della microstoria che narra, lontana da un fulcro storico preciso, al di là di luoghi personaggi eventi importanti, vicina però come non mai ai sentimenti che ruotano attorno ai quattro punti cardinali della narrazione: Caribù (Jeff Bridges), un giovane americano scapestrato che vive cogliendo l' attimo e che pagherà la sua sete di conoscenza morendo da 'eroe' (saranno parole sue), l' Artigliere (Clint Eastwood) e Leary 'il Rosso' (George Kennedy), due facce della stessa medaglia, entrambi pluridecorati eroi di guerra, qui antieroi che campando d' espedienti minano dal basso l' idea stessa del 'self-made-man', e Goody Geoffrey Lewis), spettatore impotente e capro espiatorio delle ire sterili dell'amico Leary. Non mi voglio soffermare sulla trama del film in questione, sarebbe troppo riduttivo e semplicistico tracciarne i lineamenti fondamentali, essendo, questa, un' opera che deve rubare qualcosa all' animo dello spettatore, non deve solo essere analizzata, deve essere amata emotivamente e seguita per la sua dimensione onirica. In fin dei conti, i quattro personaggi vivono dall' inizio alla fine un solo grande sogno: trovare un nuovo Eldorado, dopo le delusioni che la Storia ha riservato all' Artigliere e al Rosso, di qui l' escogitazione di assaltare una banca e fare soldi, progetto che sfumerà prima dell' alba, in un' escalation di piccolissimi e fragili errori che risulteranno fatali all' operazione, a cui conseguirà il ferimento e l' abbandono sulla strada di Goody, la morte di Leary sbranato dai cani del grande magazzino in cui aveva lavorato per finanziarsi la rapina, la prossima morte di Caribù per un colpo alla testa infertogli dallo stesso Rosso che voleva fuggire per tenersi il malloppo tutto per sé.
L' unico superstite sarà l' Artigliere che, proprio nell' ultima sequenza della pellicola, vediamo a bordo di una Cadillac tutta bianca, assieme al morente Caribù, uomo a cui l' ironia della sorte aveva tenuto in serbo di ritrovare il sito di una piccola scuola ove tanti anni prima aveva nascosto, dietro la lavagna, un bottino ingente. La finale fuga a folle velocità sull' autostrada a bordo della fuoriserie con accanto l'amico morto rappresenta l' inizio della nuova, rinnovata 'vita al massimo', questa volta, dell' Artigliere, che farà proseguire in se stesso l' ideale di libertà di Caribù.
Questa frammentaria introduzione al lavoro in questione ci permette ora di trovare simmetrie asimmetriche nell' evoluzione dei rapporti affettivi fra i quattro citati protagonisti, meglio fra il 'figlio' Caribù e il 'padre' Artigliere, il 'patrigno' Leary e Goody, lo dice il nome stesso, un uomo tutto sommato corretto, buono, trasparente e prevedibile. In opposizione, si può intendere l' atteggiamento fin d'apprincipio ingordo di Leary il Rosso, rosso di capelli come di sangue caldo, personaggio che sogna appunto un Eldorado che gli sarà vano, uomo infantile nel suo rapporto con l'altro sesso, voyeur ma facile a sparare come nessuno, insomma, un tipico esempio di parodia. Quando, nella prima sequenza, Caribù ci viene presentato come sorto dal nulla, pantaloni di pelle nera, aria sbruffona e simpatica, ridanciana, capiamo che sta inscenando un handicap alla gamba destra per gabbare un venditore d' auto usate onde rubargliene una senza targa. Notare che alla fine del film Caribù morirà in seguito, come detto, ad un colpo alla testa datogli da Leary, emorragia che gli paralizzerà non a caso gamba e parte destra del corpo. L' incontro con l' Artigliere avverrà per puro caso, questi travestito da prete mentre fuggiva da un complice di Leary che lo aveva scovato nella chiesetta dove si era imboscato, ma una sbandata del giovane grazie a cui ucciderà, investendolo, Larsen, sarà il punto di non ritorno per cui le vite dei due diverranno indissolubili, da quel preciso istante.
Ecco che la stessa disarticolazione della sceneggiatura non prevede la probabilità di calcolo, ma lascia all'imprevisto, totalmente all'imprevisto, ogni successiva articolazione del narrato. Tanto per citare qualche 'occasionalità', pensiamo alla bella scena dell' inseguimento delle due vetture, una quella rubata dal Artigliere, l' altra quella del Rosso, ad un certo punto il salto nel vuoto intenzionale di Caribù salva i due dagli inseguitori che, non altrettanto pronti, cadranno male e romperanno l' auto. Ancora, molto più avanti, dopo il furto alla banca, all' ingresso al Drive-In, sarà la cassiera stessa ad accorgersi del lembo della camicia di Leary penzolare al di fuori del baule della vettura di Goody, sospetto corroborato dall' accidentale starnuto del Rosso, che spingerà a chiamare la polizia, già peraltro sulle tracce dei ladri. Lo stesso colpo alla testa a Caribù avrà conseguenze disastrose, colluttazione che non avrebbe avuto luogo se Goody non fosse rimasto ferito mortalmente da una pallottola dei poliziotti, scatenando le ire di Leary. Al termine, il ritrovamento della scuoletta dismessa avverrà casualmente, l' Artigliere la riconoscerà come sbucata dal nulla, quando l' avevano cercata razionalmente in quel luogo per tempo. Insomma, Cimino pare dirci: gli eventi accadono di per se stessi e a nulla serve l' impegno degli eroi per modificare il loro corso.
Ma esiste un corso, o la storia si inventa istante per istante? Caribù agonizzante, sorridendo, chiederà all' amico, sulla Cadillac decapottabile, se allora sarebbero stati in salvo, e l' altro gli risponde: "Per adesso, credo di sì". Proprio da questa semplicissima frase dubitativa si evince il succo di tutto il film. L' affetto che lega i due compagni è diverso da quello che lega gli altri due, fra Leary e Goody non c'è protezione, non c'è condiscendenza, non c'è amicizia tanto che, quando Goody diverrà un peso morto, Rosso non ci metterà due volte a scaricarlo, dandogli il colpo di grazia. Uno psicopatico che, nella sua immediatezza da bruto, giura vendetta a tutti i costi, ma mentre l' odio per l' Artigliere è odio finto, serie di scaramucce che alla fin fine celano un' amicizia complicata, contorta a tratti, l' odio per Caribù è reale, iniziato anche questo casualmente, solo perché il ragazzo si era dimostrato un po' troppo ricco di battute, e queste a Leary non piacevano, il sentirsi deriso significava per lui essere messo in discussione, non essere più temuto da qualcuno, non importa da chi, ma esser pur sempre temuto e allora rispettato. Paradossale, l' unico istante in cui Rosso e il giovane paiono in assonanza è quello in cui quest' ultimo riassume un bell' episodio capitatogli la mattina stessa al lavoro da manovale, quando una bella ragazza nuda gli si è parata innanzi, da dietro una porta a vetri, in una villetta per cui l' impresa ristrutturava. L'atteggiamento morboso del cinquantenne lo rende ancor più infantile, riassodato quando, durante la rapina, legherà in posizione da coito un uomo e una donna, dopo averne guardati ad occhi spalancati i due sessi, addirittura scoprendosi il volto rendendosi riconoscibile. Tante piccole sfaccettature di un odio per i giovani, per la sessualità, da notare soprattutto quando il colpo mortale a Caribù gli sarà inferto essendo il ragazzo travestito da donna, idea che serviva per un aspetto del piano d' assalto alla banca; tanto per citare un ultimo esempio a mo' di rafforzamento, l' urinare di Goody verrà interrotto da uno sparo di fucile di Leary, durante l' inseguimento degli altri due. Diciamo che tutti questi episodi, in cui viene ad articolarsi Una calibro 20 per lo specialista, sanno di improvvisazione, da un alto, ma anche di estrema fissazione per quel che concerne i rapporti interpersonali: non esiste la benché minima trasformazione degli affetti fra i quattro, se non un certo amore paternalistico dell' Artigliere per Caribù, ma anche questo sa di predica, è tutto sommato falsamente esternato, se il giovane morrà, allora 'pace all' anima sua' sembra dire l' Artigliere quando spezza il sigaro nel portacenere e fugge in macchina, sull' auto che Caribù aveva sognato, una Cadillac tutta bianca. Solo quest' ultimo era sincero ed immediato, e avrebbe pagata la sua voglia di conoscenza con la morte, una conoscenza che non si addiceva all' eroe americano finito che voleva far ruotare il mondo attorno a sé. Vivrà solo l' Artigliere, ma il sogno dell' auto bianca non era più tale, la stava già guidando quando l' amico se ne era andato per sempre...
Autore  critica:  M.Crovella (da IAC)
Fonte:centraldocinema.it

L'originale invece si trova qui:
http://www.comune.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitolo/36F501EFEE00ABEEC1256EFD0032F6F5?opendocument

questa è la canzone per il film di PaulWilliams


domenica 26 agosto 2012

Michael Cimino & Clint Eastwood


Numerosi sono stati i soggettisti e sceneggiatori che hanno scritto esclusivamente per Clint Eastwood. Il primo, Jo Heims – Brivido nella notte -, l’ultimo, Randy Brown – l’ancora inedito Trouble with curve.
Michael Cimino è stato il secondo, con John Milius scrisse Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan del 1973. L’anno dopo Cimino fece il suo felice debutto con il film che tutt’ora per me rimane il  suo capolavoro ed uno dei migliori film dell’uomo senza nome Leoniano e dei Hogan, Callaghan, Frank Morris  ed altri Siegeliani.
Eastwood regista ed Eastwood attore nella sua lunga carriera si è mantenuto identico dal primo all’ultimo istante, questa e la sua vera forza. Nelle mani e nella mente di Cimino non si è spostato più di tanto.
Thunderbolt, l’Artigliere, è un eroe disilluso che con sguardo distaccato guarda la scaltrezza e bontà di Lightfoot, così come è disilluso e distaccato davanti alla morte di quest’ultimo che aveva trovato in lui l’unico suo vero amico. Questo discorso vale anche  di fronte ai suoi ex amici e compari - Gary Busey, Geoffrey Lewis, Gerorge Kennedy -, che lo cercano per fargli la pelle. L’amicizia virile, l’aveva capito bene Cimino è uno dei fulcri su cui si basa il cinema dell’attore come del regista Eastwood.
Tutto questo discorso lo applico alla regia di Cimino che costruisce immagini dense di pathos quando ci conduce nello svolgersi della sua prima opera.
Infine voglio fare notare una costante del cinema di Cimino: il landscape. Il suo e un modo di riprodurre l’ambiente che mi riporta alle trasposizioni su tela fatte da Edward Hopper con l’aggiunta di carrelli e gru su cui è montata la Panavision dotata di lente anamorfica.
Dal Cacciatore in poi sarà tutto questo ed ancora un altro Cimino, e altro sarà il suo cinema!



giovedì 16 agosto 2012

C'era una volta il Vietnam, parte seconda



Se per un verso Apocalypse Now ha a che fare con la psichedelica degli anni ‘60/’70, ormai al tramonto, non per niente a me  il volto di Francis Ford Coppola richiama quello del defunto Jerry Garcia, Il Cacciatore – The  Deer Hunter ha che fare con certa letteratura europea che parte da Guerra e Pace ed arriva a Cuore di tenebra  continuando a camminare verso certi stati d’animo descritti da autori a noi contemporanei quali Camus o Malcom Lowry: parafrasando il testo di quest’ultimo viene sa scrivere Sotto le risaie.
Stranamente i migliori film post vietnam sono stai confezionati da autori italo-americani: a Coppola e Cimino va aggiunto Brian De Palma con Vittime di guerra, mentre Robert De Niro andava a spasso dentro il tema facendo ora il soldato ora il reduce. Nel film di Cimino ha però la possibilità di fermarsi e riflettere guardandosi negli occhi del  cervo, prima di decidere se premere o no il  grilletto.
Anteriormente ai film americani sul Vietnam, i soli ad occuparsi di quella guerra, inutile e capricciosa come i guerrafondai, furono gli autori francesi ed italiani a richiamare  le platee su quanto accadeva in Indocina e su tutti Jean-Luc Godard e  Bernardo Bertolucci che con spirito sessantottesco inscenavano l’impatto mentale che aveva sulle candide menti  intellettuali dell’epoca. E se a Godard bastavano i suoni di mitraglia o mostrare Belmondo davanti allo schermo che proiettava incendi e devastazioni, a Bertolucci bastava mostrare la bandiera vietnamita per additare ai giovani l’ora della rivoluzione.


martedì 14 agosto 2012

C'era una volta il Vietnam



Questo è il vero Conradiano Cuore di tenebra. Quanto detto, in un flashback in avanti, sul cinema di Cimino, qui trova la sua summa: etnie, natura, scontri razziali, conservatorismo e... De Niro con una fascia attorno alla nuca come un vero Navajo. La schiera di grandi attori, tra cui il grandissimo,prematuramente scomparso, all'epoca uomo della Streep, John Cazale, fa il resto, in una gara di bravura, che non si sa a chi dare la palma della vittoria.


martedì 15 maggio 2012

A waltz for Michael Cimino


Quanto scriverei su questo capolavoro sarebbe una ripetizione di quello che altri hanno scritto meglio, io vi propongo di vederlo come un film d'amore: quello di Michael Cimino verso David Mansfield, il giovane a cui di deve la partitura musicale, furono marito e moglie per molto tempo e si lasciarono batostandosi l'un l'altro/a.  In fine divenne uno spartiacque nella filmografia di Cimino, prima e dopo I cancelli del cielo si suddivide l'opera di un visionario architetto di emozioni.


David Mansfield ben prima fece parte della storica e più capace band, dopo La Band, di cui si servì Bob Dylan ai tempi di Desire: The Rolling Thunder Revue. Si servirono di lui, tra gli altri, anche Johnny Cash, Nanci Griffith, Roger McGuinnEdie BrickellLucinda Williams, Dwight Yoakam, Victoria Williams.

giovedì 26 aprile 2012

Il più faraonico dei registi

Lui non dorme mai. E’ una persona ossessiva. E’ il più faraonico dei registi con i quali ho mai lavorato … Il suo sguardo è fisso sul futuro. Non da importanza alle sottigliezze. Oliver Stone

Se parlando di Michael Cimino,  vale l’etichetta film di genere, questo è un film di genere, anzi di generi.
Tratto da un novel  di Robert Daley - non il produttore del suo film di debutto con Clint Eastwood -  e sceneggiato con Oliver Stone, ricalca il tema principale di tutta la filmografia di Michael Cimino: lo scontro tra le razze in America per un qualsiasi predominio. Qui abbiamo un polacco contro un cinese, perché poi lo scontro, frenetico,  vero è tra i due con il contorno della chinatown e la classica storia d’amore che coinvolge il polacco, un ex veterano del Vietnam,  e la bella cinesina, il cui compito è pure quello di risollevarlo dal matrimonio fallito.
I due protagonisti principali, Mickey Rourke e John Lone fanno il loro lavoro con coscienza e destrezza, rievocando il ricordo di tanti sceriffi e villain del cinema americano, ma, come, e mi ripeto, in tutti i film di Cimino è l’ambiente il vero protagonista di quanto racconta, qui il quartiere cinese e la sua comunità abilmente cinematografati  da Alex Thompson.
Accusare Cimino di razzismo per questo film è come accusare, tutto questo è accaduto, Eastwood ed il suo ispettore Callaghan di fascismo, accuse a cui non sfuggirono e sfuggiranno nemmeno Tolstoj e Dostoevskij;  la sua è una campagna  contro la perdita dei valori tradizionali su cui si basavano i rapporti tra gli uomini;  il nostro Michael, lo ripeto, è dotato di un proprio umanesimo lontano dagli schemi rigidi di molti conservatori e progressisti che si servono di questi modelli per definire una geografia interiore per non smarrirsi nello svolgersi quotidiano della vita.
Unica pecca nella versione italica del film è la voce di Vernellone che fa apparire Mickey Rourke una fotocopia  di quell’animale, letteralmente, di Silvester Stallone.


lunedì 9 aprile 2012

Turiddhu Giulianu non abita qui

Michael Cimino il siciliano, oriundo nella terra dei padri

Il Regno delle due Sicilie, l’unico paese al mondo assieme all’ovest americano, dove la realtà sconfina nella fantasia e la fantasia sconfina nella realtà. L. Sciascia

La storia la si può ribaltare – lo chiamano revisionismo -  come si vuole ed i personaggi storici pure; al cinema è accaduto spesso. Martin Scorsese ha riscritto, ammesso che sia esistito, Gesù di Nazareth, considerato fino ad allora un intoccabile; John Ford, maestro di scuola Michael Cimino, ha camuffato il generale George Armstrong Custer in un buon padre di gaie donzelle in età da marito.
Cimino reinventa un pezzo di storia sicula, ed uno dei suoi personaggi più famosi dopo Polifemo, ammesso che anche quest’ultimo sia esistito.
L’obiettivo dei nostri tre registi, come di altri, è stato quello di dare qualcosa in cui credere, a danno della realtà, agli americani.
Il Siciliano di Michael Cimino è un film per gli americani del New Jersey come per quelli di una qualsiasi Contea del Kansas.
Come il fordiano Massacro di Fort Apache il film di cimino è ottimo, per alcuni aspetti molto personale e ciò è dovuto alla sensibilità del regista.
Quello che mi piace di più e che il nostro Michael ha fatto vedere la Sicilia per come la vedevo io nei miei giri e rigiri: la terra del Mito. L’ha rappresentata come fosse l’altra terra del Mito, la sua patria, l’America, non quella urbana di Ore disperate ma quella della frontiera ne  I Cancelli del cielo, quella dei nativi, di cui lui è un cittadino onorario.
Di più: meglio di qualsiasi altro ha saputo ritrarre per il grande schermo la più bella città del mondo, Palermo.  Quella scena girata lungo la via Maqueda all’alba, con le camionette della polizia che in assetto di guerra, come uno squadrone del  7° cavalry, la percorrono rombanti e facendo tremare le tazzine di caffè, la poteva comporre solo lui con l’aiuto del fido Alex Thompson, nel prossimamente, sotto, ne appare qualche tratto.
Durante la visione del Siciliano mi tornava in mente Giuseppe Tomasi di Lampedusa che ne Il Gattopardo per bocca di don Fabrizio, principe di Salina, definisce l’isola, l’ America per Fenici, Ioni e Dori.



lunedì 26 marzo 2012


Molti registi hollywoodiani si sono cimentati con il remake, basta un origine sicura, un produttore che vuole un lavoro consegnato a breve scadenza, magari anche un regista a corto di idee o bisognoso di un contratto per mantenere un certo tenore di vita.
Steven Spielberg ha rifatto Joe il pilota, Jim McBride ha rifatto Fino all’ultimo respiro, più indietro nel tempo John Sturges aveva rifatto  I sette samurai.
Anche Michael Cimino per accontentare Dino De Laurentiis accetta di rifare Ore Disperate di William Wyler a suo tempo con Humphrey Bogart e per essere sicuro della riuscita richiama Mickey Rourke gia con lui ne I cancelli del cielo e L’anno del dragone.  A quell’epoca l’incostante Mickey era molto ricercato ma i due erano e sono molto amici.
Vorrei dire qui che quella di impossessarsi di lavori altrui e dargli nuova veste in America coinvolge anche il settore musicale. Un cantante, pure lui o per contratto o in un momento di calo di creatività, oppure una casa discografica, alle volte arrangiano in chiave contemporanea musiche e testi di altri cantanti o compositori, alle volte per raccogliere fondi come fu il caso di Red, hot & blue in cui si riproposero le musiche di Cole Porter, oppure sottoforma di tributo ad un artista universalmente riconosciuto; nemmeno Bob Dylan o Bruce Springsteen sfuggirono a questa prassi delle cover.
Ore disperate nella revisione di Michael Cimino è un thriller nostalgico, una visione del mondo un tantino conservatrice, molto direi, e certe volte sembra che Mickey Rourke (Michael Bosworth) diventi il portavoce del regista, che richiama ai saldi valori della tradizione, USA e getta, ed in questo senso si inseriscono i richiami al cinema ed ai personaggi di John Ford, come in quella magnifica sequenza, quasi fuori dal film, siamo nello Utah , nello Zion national park, con una canzone cara a John Ford, Red River Valley, quando David Morse (Albert) si lascia prendere e ridurre a niente da parte della polizia mentre sotto di lui scorre implacabile il fiume ed i cavalli non gli prestano alcuna attenzione .
Michael Bosworth è un perdente, non uno psicotico, in una società persa, tradito da Kelly Linch, una bionda che porta tacchi a spillo, nonché il suo avvocato, catturato da Lindsay Cruse, una poliziotta mezza donna  quasi uomo, la cui aspirazione è una vita tranquilla con una moglie come Mimi Rogers e il conto in banca come Anthony Hopkins .

lunedì 19 marzo 2012

Corsa per la vta

Michael Cimino ha diretto fino ad ora sette film, come Andrej Tarkovskij e Sergio Leone: Verso il sud (The Sunchaser) è del 19996 e come l’ultimo film del maestro italiano e stato prodotto da Arnon Miilchan.
A prima vista , era accaduto anche a me, sembra un soggetto che segue la moda New Age, in quegli anni molto in voga, come Grand Canyon di mastro Lawrence Kasdan. Non è così.
E’ un viaggio di purificazione ed è un incontro, come spesso è accaduto nel cinema di Cimino, tra due opposte culture; un incontro scontro con l’altro: qui un nativo, altrove uno slavo o un asiatico.
E’ pure una fuga, come Big Jane, verso territori ancora salvi dalla massificazione: le Montagne Rocciose ed i territori Navajo, dove per anni Edward Abbey, di cui ho parlato nei giorni precedenti, aveva svolto il  suo lavoro di ranger.
Possa la bellezza essere davanti a te!
Possa la bellezza essere dietro di te!
Possa la bellezza essere sopra di te!
Possa la bellezza essere sotto di te!
Possa la bellezza essere tutt’intorno a te!
Questo che sembra essere un salmo viene ripetuto varie volte durante il corso del film da Blue un mezzosangue, ripresa sicuramente da quella che ripeteva spesso il principe Miskin nell’Idiota  di Dostoevskij: “ la bellezza salverà il mondo “.
Per non diventar e noioso terminerò ricordando una scena molto significativa a tal proposito: accade quando i due protagonisti a bordo di una Cadillac che ha tutto il sapore di un brano spingsteeniano, per sfuggite all’inseguimento della polizia, sulle note della suite Appalachian Spring di Arnon Copland scritta per un balletto di Martha Graham, il bianco chiede aiuto ad un gruppo di Navajo che portavano al pascolo un branco di cavalli: mimetizzati dalla nuvola di polvere sollevata da questi riuscirà a sfuggire alla cattura e portare il compagno mezzosangue verso la montagna sacra, dove si dissolverà nella sua corsa verso la rinascita.


giovedì 8 marzo 2012

Big Jane & Big Michael




La retrospettiva che inizia oggi è dedicata al più grande emarginato hollywoodiano: Michael Cimino
Sarà un viaggio a ritroso, dalla sua opera più recente che risale al 1996 al debutto del 1974.
Per cominciare invece di un film vi presento un libro, l’unico ancora pubblicato dal regista. Si tratta di Big Jane uscito dapprima in Francia e successivamente in Italia. A suo tempo fu presentato, come un opera filmica, al festival di Venezia.
Il pregio di tutta l’opera di Michael Cimino è che lui sa raccontare le storie con la  Panavision e anche con la penna non difetta per niente.
Di solito è lo scrittore che passa dietro la cinepresa, vi cito solo due a cui sono affezionato: Pier Paolo Pasolini e Peter Handke, scusate se è poco. L’unico regista che conosco passato alla scrittura è stato Eric Von Stroheim che scrisse Paprika. Von Stroheim ha in comune proprio con Cimino l’ostracismo degli studios dopo un flop con gli incassi di un capolavoro.
E’ un road- book che narra le peripezie di una statuaria bionda, per giunta bella,  in un andirivieni da costa a costa, dalla Long Island di Lou Reed alla California dei Grateful Dead di Jerry Garcia, a cavallo di una Indian.
Sembrerà strano ma il libro sembra scritto alla moviola con tagli nervosi e stacchi quasi bruschi da un’inquadratura all’altra ed ogni capitolo è aperto da una citazione del Don Chisciotte di Cervantes
Non mi va di raccontarvi tutta la storia, dico solamente che Big Jane e Michael Cimino hanno in comune l’amore per la cultura dei nativi americani , presso cui il regista ama passare parte dell’anno.
Per Herman Melville il tema era lo spazio, per Jack Kerouac la velocità, per Jane Kiernan tutt’e due.



giovedì 19 gennaio 2012

Antoine e Colette

In questo secondo breve episodio Antoine è come sono stato io spesso e molte volte: attirato da  una per niente interessata a me, se son a confessarsi e sparire, e qualche, fugace, ritorno, e inviti da parte dei genitori a pranzo o a cena.
Sembrano passati mille anni da quando Truffaut ha girato questo episodio, lo stesso vale per i giradischi ed il vinile.







mercoledì 28 dicembre 2011

Rivoluzione?


Ultimo film di questo tributo a Sergio Corbucci. La rivoluzione si colora di commedia, diventa a tratti una farsa e i due guitti lo assecondano a dovere, come la colonna di maestro Morricone che richiama a seconda delle situazioni solo due temi riadatti di volta in volta.
Corbucci aveva un senso innato dello spettacolo e nei film qui comparsi lo da a vedere alla grande, forse gli possiamo incolpare uno smisurata incontinenza romana nei passaggi farseschi che non mancano mai nelle sue opere.

mercoledì 14 dicembre 2011

J & S


Sergio Corbucci soddisfatto da Tomas Milian per Companeros, lo richiamò per questo film che a prima vista, al Garden di via  Antonio Martino, non mi piacque molto,  lo rivalutai in seguito. Gli affiancò Susan, Cane di paglia, George e, al posto di Jack Palance, Telly Savalas, per quella che poteva essere una rivisitazione di Gangster Story in una ambientazione come Il Grande Silenzio ed una colonna di maestro Morricone molto poco western. Mi sorge il sospetto che Sergio Corbucci avesse qualche predilezione per le casse da morto, visto che compaiono spesso nei suoi lavori. Alla fine si può dire che questo è un western molto casareccio, dove prendono parte anche animali da cortile, maiali, pecore e mucche: Milian che si beve il latte direttamente dalle mammelle di una grossa mucca è uno spettacolo inedito.

mercoledì 30 novembre 2011

Levantando en aire los sombreros


Le tematiche sessantottesche furono spesso riviste in chiave western spaghetti, e questo film del secondo Sergio ne rientra “a pieno titolo”, con due anni di anticipo su quello del primo Sergio, Giù la testa. Il lavoro di Corbucci è il mio preferito della sua filmografia, sarà per Tomas Milian, la musica di maestro Morricone ed il Messico in Spagna. Quello che non mi piaceva era l’aria romanesca calata su Milian che la riprenderà con i film monnezzari. Lo visto quattro volte: due al Garden, una all’Aurora e una all’Astra in via Calapso con una copia appena visibile per causa dei passaggi nei cinema calabro-siculi e dei loro operatori che montavano e smontavano le bobine.



Levantando en aire los sombreros
Vamos a matar, vamos a matar, compañeros !

mercoledì 16 novembre 2011

Indiani nostrali



Burt Reynolds venne in Italia convinto che il Sergio fosse Leone, il contratto era firmato e lui lo fece a malincuore. Il film per me è  molto valido per Aldo Sambrell e la bellissima Nicoletta Macchiavelli che  è prima di tutte, seconda solo a Silvana Mangano, moglie, a quell'epoca, del produttore di questo film.
Maestro Morricone si prodigò per una colonna sonora memorabile, arrivando a rompere le corde vocali di Gianna Spagnulo e il solito Tarantino la riprese per il suo Bill. Lo vidi al cinema Garibaldi di via Palermo con una pellicola talmente macinata dai passaggi che si saltava di pie pari da una sequenza all'altra.




giovedì 10 novembre 2011

Silenzio, si gira



Il manifesto che vedete sopra lo ricordo nella dimensione, enorme per me ancora ragazzo, a 24 fogli affisso accanto al cinema Garden in via Antonio Martino, il film lo vidi invece all'Orfeo in via Nino Bixio, uscendone sbalordito e spaesato per quel finale amaro. A tutt'oggi per molti rimane il miglior film del secondo Sergio, anche per me, anche se non il mio preferito. Il capolavoro di Cormac McCarthy è Suttree ma il mio preferito è Cavalli selvaggi. Riprendendo la vita di Cristo e anticipando Scorsese, Corbucci lo trasforma in pistolero e amante di una vedova, per altro nera.
Gli esterni tutti bianchi di neve furono girati sulle dolomiti con gli indumenti creati da Enrico Job. Maestro Morricone gli fece una colonna, fuori dai soliti schemi western, personale ed indimenticabile. Il vero protagonista alla fine divenne Klaus Kinski, contenuto, sarcastico, implacabilmente in mano ai ricchi proprietari terrieri, come agli strozzini.