domenica 12 febbraio 2017

Racconto letterario e racconto iconico


«Per šukšin letteratura e cinema erano in sostanza un unico processo. E proprio in questa unità veniva alla luce, nella sua forza dirompente, il suo talento››.
La testimonianza di Sergej Gerasimov («lskusstvo kino», 1975, 1, p. 146-149, passim) sancisce la triplice modulazione espressiva della Erlebnis dello scrittore siberiano: interpretazione scenica, letteratura, cinema d'autore.
Un’interpretazione scenica è però accidentale rispetto al suo ruolo di autore, sulla pagina e sullo schermo. Accidentale nel senso di mediativa: la letteratura - testimonia ancora Gerasimov - è stata per lui il tramite più prossimo e immediato per spiegarsi col proprio lettore sugli avvenimenti che turbavano il suo animo: ed
ecco perché le sue pagine si distinguono per l`inconsueta leggerezza e libertà, sia nella scelta del tema e del materiale, sia nella forma dell'espressione artistica ››. E sono sceneggiature, racconti e romanzi (verbali e iconici), quelli di šukšin, che mancano totalmente di letterarietà, nel senso sveviano del termine: inutile e dannoso orpello, raffinata tautologia.
Essi sono scanditi in una lingua quella paesana arcaica, nella sua regione del'l'Altaj - cosi diversa da quella standardizzata del cittadino medio che vive in città: una lingua «bella, flessibile a cantilena », come lui la chiamava (intervista con C. Benedetti in « Nuova 'Generazione ››, n. 179, 28.9.1975, passim) e serrati in una sintassi essenzialmente paratattica. Hanno una struttura piana, elementare, quasi salmodica, cioè rincalzante, mai ellittica. Una struttura che da un lato ripropone i moduli della cultura contadina, lineare e continuativa, fatta di esperienze sedimentate nei secoli e prolungata e accresciuta di generazione in generazione con metodica chiarezza; e che dall'altro espone le condensazioni dell'Erlebnis, cioè la somma del vissuto di Vasilij Makàroviö: e non solo il vissuto “storico”,l'agglutinamento già sciolto delle sperimentazioni culturali, istituzionali, immaginative, oniriche, sentimentali; ma tutto quanto alla fine converge, attraverso il filtro della sensibilità, nella coscienza e che diventa _-per usare parole di šukšin -«forza del cuore » (C. Benedetti, int. cit.)
E la sensibilità, instimolata dall'ispirazione, torna ad attivare le fondazioni della coscienza e le « risolutive » forze del cuore nell'espressione artistica. In šukšin avviene con maturità e interdipendenza di manifestazioni - il racconto verbale e iconico e la mediazione drammaturgica - e con una piana saggezza che possiamo definire esiodea.
Di Esiodo šukšin ha la stessa forza di convinzione. La convinzione profonda di chi si sente portatore e custode d'una saggezza antica e insieme di una fede nuova che esige però mediazioni prudenti.
Per Esiodo il termine di fede fu la dike democratica che sottentrava alla società omerica, aristocratica, feudale e guerriera; per šukšin è la metanoia socialista che ha sgominato la società aristocratica feudale e guerrafondaia degli zar: e di questo fa argomento di discorso, e infine di poesia.
Come il sistema teologico-morale che Esiodo annuncia «è agganciato alla dike -personificazione numinosa del costume che fonda un ordinamento sociale come necessità, e insieme personificazione giustificatrice della vittoria di Zeus, che è il nume della serenità pacificatrice, tutore delle leggi tradizionali, della liberta politica e delle norme morali - così il sistema etico di šukšin verte sulla riconferma del valore decisamente storico e storicamente decisivo del socialismo nella terra russa; e sulla necessità di comporre e armonizzare, nel quadro di cambiamento di mentalità che ogni rivoluzione comporta, nuove forme di vita associata in cui la saggezza secolare degli uomini della terra «[nei primi anni della rivoluzione ancora l`ottanta per cento dei russi eran contadini) non sia travolta e guastata dalle irrequietudini e dagli scompensi che seguono all'inurbamento e al brusco aggiornamento industriale e tecnologico.
Ma non c’è antagonismo - šukšin ha ripetutamente insistito su questo anche nella intervista pubblicata postuma da Benedetti, proprio per rintuzzare quei critici che lo censuravano con queste motivazioni [in: «Nuova generazione ››, n. 179, cit., passim) - tra città e campagna. E' una semplificazione di comodo, dice Vasilij Makàrovic. Una riduzione che non regge.
« Quando i critici mi chiamano “scrittore contadino" non hanno ragione perché con una etichetta del genere rendono più stretto del reale il senso e l'importanza di questo fenomeno. Comunque a me piacciono quei cosiddetti "scrittori contadini" perché sono persone oneste. So bene che se arrivano in alto, ad occupare posti di scrittore o letterato, è perché hanno talento. Cioè la loro promozione non avviene a caso. Anzi, mi sembra che si possa parlare di un vero e proprio corso obbligatorio. L'arrivare, nel campo della letteratura, è una conclusione logica e necessaria. Forse, per questo, sono scrittori più naturali e piacciono al nostro lettore di oggi. Certo, ora, io non voglio fare dei confronti. Non sostengo intatti che gli scrittori "cittadini" non sono in grado di creare veri valori letterari. E del resto non voglio nemmeno usare questo termine di “scrittori cittadini" che, come quello di “scrittori contadini" è troppo stretto, offensivo ››.
Epperò -- fatto salvo questo "distingue" - è presente indubbiamente in šukšin, nella sua opera letteraria come in quella cinematografica, una tenace e appassionata “religione”. La religione tutta esiodea della terra che nasce dall'amore per essa e che la madre terra nutre di generazione in generazione a misura del sudore ch'essa riceve.La fertilità della terra insemina questa religione - religione intesa nel senso di una struttura solidale di credenze e di valori vissuti che hanno il potere di religare una certa comunità umana - la quale nutre, accanto alla custodia di tradizioni vetuste, una profonda esigenza di giustizia, e l'amore al lavoro, e la costanza della fatica; ed anche quel sobrio e burbero portamento, che questa gente si reca addosso e che Vasilij Maikàrovië allega alla quieta faccia dolorosa dei suoi ultimi anni, quando già il male mortale lo insidiava e quando una tranquilla inquietudine gli trascriveva sul viso la domanda più volte ripetuta: «perché vivere se non si sa quando si muore? ”
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

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