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mercoledì 16 aprile 2014

Vittorio De Seta - Il mio viaggio in Calabria




“ … l'oggetto filmato, la Calabria perduta, si assenta e si sospende, scoprendo contemporaneamente la potenza utopica e ucronica del cinema. “ Jean-Louis Comolli

I film di Vittorio De Seta I dimenticati (1959) e In Calabria (1993), a cui si può aggiungere Lu tempu di lu pisci spata (1954), costituiscono nell'esplorazione che stiamo facendo sulla rappresentazione della Calabria nel cinema, uno spartiacque ma anche il cuore, o se volete, il centro, tra passato e avvenire. La parola futuro è sistematicamente esclusa. “ Il futuro non appartiene a noi altri “ recitava Henry Fonda in C'era una volta il west
Vittorio De Seta la Calabria l'ha sentita fin dal suo concepimento nel grembo della madre, che era calabrese. Il suo cinema cominciò altrove ma ebbe termine, come un viaggio, con il ritorno nel grembo materno, regalando alla Calabria un film stilisticamente perfetto pur nella sua brevità: Articolo 23.
Ne I dimenticati viene registrato, per la prima volta, il rito arcaico della festa dell'abete (pita) che si svolge ad Alessandria del Carretto. Oggi questo rituale, divenuto una sagra paesana, è esclusivamente rappresentato per  giovanotti e signorine cittadini che vi arrivano firmati dai loro zainetti a tracolla, scarpette da trekking e occhiali da sole. All'epoca Alessandria del Carretto era staccata dal contesto sociale, come lo era Polsi; si raggiungevano questi due posti solo a dorso di mulo e di questo animale, che conta meno di un asino, si faceva uso per il trasporto di qualsiasi necessità acquistata fuori.
In quest'opera, come nella successiva In Calabria, sotto i colori della Ferrania De Seta lascia parlare i volti delle persone siano essi grandi o piccoli ma essenzialmente  suoni e rumori carpiti e registrati in diretta: lo scroscio della pioggia con il conseguente scorrere dell'acqua per le vie del paese; i ferri calzati dai muli con il loro infrangersi sulle rocce del fiume; le voci, i canti ed i suoni, i colpi di mortaio, la banda dietro la processione; tutto questo determina un passato orribilmente cancellato.
La distanza tra  I dimenticati  e In Calabria è di trenta anni, “ alle soglie del terzo millennio “ ricorda la voce fuori campo. I colori Ferrania sono sostituiti da quelli del reportage televisivo e lo spazio comprende l'intera Regione, vista come il corpo di un grosso animale da macello appeso, a testa in giù, ai ganci per essere suddiviso in quarti.
Per mezzo dei canti della corale greco-albanese di Lungro, a cui si aggiunge la voce, invecchiata bene, di Riccardo Cucciolla, all'elegia fa eco il pianto per la perdita del fitto legame tra natura ed esseri umani se non anche dei rapporti tra gli stessi individui.
La natura, la terra, la Regione risultano visibilmente sovvertite dal caos creato per un immaginario progresso mai realizzato. E qui la dicono lunga i rumori industriali dei mezzi per il movimento terra o dei grossi TIR che sfrecciano lungo la Salerno-Reggio.
L'unico viatico è nella feste religiose di grossa rinomanza: quella coreografica di Polsi, Madonna da muntagna, quella multietnica dei Santi Medici Cosma e Damiano presso  Riace e quella di San Rocco ,una delle innumerevoli , a Gioiosa Jonica, vissuta dai giovani come una sorta di Woodstock paesana.


giovedì 27 marzo 2014

Un ragazzo di Calabria


Luigi Comencini
1916 - 2002

  Al  tramonto della vita Comencini conserva  intatta tutta la sua vitalità. Intraprende  due opere ambiziose intimamente legate al  suo universo stilistico ed emotivo, Un ragazzo  di Calabria (1987) e La Boheme (1987), poi,  dopo una riflessione sulla vecchiaia con Buon  Natale - Buon anno (1989), gira un'ultima  elegia sull’infanzia e il suo assoluto bisogno  di amore con Marcellino pane e vino (1992).
 Un ragazzo di Calabria, 1987
  Abbonato al Festival di Venezia, Comencini riceve un Leone  d'orno alla carriera nell'edizione  del 1987. In quell’occasione presenta Un ragazzo di Calabria.
  Uomo del nord, Comencini  ha privilegiato  nella sua opera la rappresentazione delle  grandi metropoli urbane , Roma in primo luogo ma anche Milano, Torino fa Napoli. Il sud  agricolo è relativamente assente dal suo lavoro, se si eccettuano film quali i Pane  amoreMio Dio, come sono caduta in basso!  e, ovviamente, alcuni episodi delle inchieste televisive, I bambini e noi e L’amore  in Italia. Il matrimonio di Caterina è ambientato in Campania ma  si ispirava già a un racconto di Mario La Cava  nel quale la storia di svolgeva in Calabria, la regione natia della scrittore. Così, il cineasta, con  l'intento di allargare il  suo universo figurativo, si è naturalmente interessato a una sceneggiatura sulla  Calabria miserabile, invischiata nelle pratiche  mafiose. Comencini, un po' come aveva fatto  Rosi per la Basilicata di Cristo si è fermato a  Eboli, da un'immagine abbagliante di colori e  di luce. Insiste cosi sulla bellezza di una natura generosa che, diversamente sfruttata,  potrebbe rendere quel luogo una terra fiorente  e non una zona di arretratezza economica e  di esclusione sociale. Il suo "ragazzo di Calabria' è un bambino che pensa solo a correre  per-ché quando, a piedi nudi, batte la campagna con la sua rabbiosa falcata, non pensa  più a niente, sogna. Per Mimì, la solitudine  del corridore di fondo rappresenta una porta  aperta verso un mondo dal quale viene cancellata ogni sofferenza. Contro il volere del  padre che preferirebbe vederlo studiare.  Mimi coltiva la sua passione marinando la  scuola. Appoggiato da un vecchio autista di  autobus che ha visto in lui la stoffa del campione,partecipa a delle corse regionali che  poco a poco lo conducono alla prova suprema, i Giochi della gioventù organizzati a Roma. La sua volontà ha spazzato via tutti gli  ostacoli. In una visione ottimista che attraversa tutta la sua opera, Comencini ribadisce la  sua fiducia in questi bambini ostinati che sono i protagonisti dl tanti suoi film. Un ragazzo di Calabria accoglie serenamente il partito  di un cinema romanzato dotato di una dimensione di suspense. La precisione della regia, la sicurezza della direzione degli attori  (in particolare Gian Maria Volontè), la scelta  sempre felice del giovane protagonista [Santo  Polimeno] permettono al regista di superare  tutti gli ostacoli e di fare del suo film una sorta di classico dei film sull'infanzia.  Mimi corre attraverso la campagna per  sfuggire alla sua condizione di bambino povero diviso tra la tenerezza della madre e |'ambizione del padre - un modesto impiegato  d'ospedale nella cittadina vicina - che spera,  facendolo studiare, che egli possa salire qualche gradino nella scala sociale. Durante quelle lunghe fughe campestri, Mimì dimentica i  vincoli quotidiani. L'incontro con un vecchio  autista di autobus, un uomo respinto dalla comunità perché comunista in una società  dominata dalla Chiesa, gli fa scoprire i suoi doni,  la possibilità di investire nella competizione  una speranza di realizzazione, altrimenti decisamente illusoria. Mimi partecipa a delle gare  regionali senza risparmiarsi, pagando a volte  con il fallimento un dispendio di energia che  non viene incanalata da nessuna strategia di  gara: Mimi e un essere generoso che corre per  piacere; dovrà imparare a dosare i suoi sforzi  se vuole vincere. Con i saggi consigli dell’ autista e nonostante gli impedimenti che il padre  cerca di mettere sulla sua strada – l’uomo tenta di spezzare una determinazione che gli pare assurda - Mimi poco a poco si afferma. E’  il corridore povero che senza nessun equipaggiamento comincia a battere i figli dei ricchi:  ha imparato a gestire le sue forze e, meglio  preparato degli altri e sicuramente più motivato,  sa soffrire per affrontare le corse di fondo. Cosi, selezionato per i Giochi della gioventù, arriva nella capitale con nella testa il  trionfo appena intravisto alla televisione -  siamo nel 1960 - di Abebe Bikila alla maratona dei Giochi Olimpici di Roma: Bikilia è  il corridore di una povertà e di un sud ancora più  lontano, l'Etiopia, un corridore eccezionale  che,anche lui, faceva le sue galoppate  a piedi  nudi prima di trionfare nella capitale dell'ex    potenza coloniale. Come Bikila, Mimi vincerà  anche per far parlare della Calabria.  Si vede bene quale elemento di questa storia ha sedotto Comencini: la volontà di un  bambino di affermare la sua autonomia nei  confronti degli adulti, la volontà di far riconoscere la sua identità il lungo offuscata da secoli di bambini sottomessi ai propri genitori  che decidevano al posto loro, la volontà di  sottrarsi alla condizione di bestia da soma alla  quale lo si voleva ridurre. A questo proposito.  la scena del lavoro di Mimi in una corderia, laboratorio che assomiglia più a un luogo di  esilio e di lavori forzati the a un’impresa creata per offrire un lavoro a degli essere umani,  la dice lunga sul desiderio di Comencini di denunciare uno scandalo: il lavoro dei bambini  che si sostituisce alla scolarizzazione, problema tipico di un Italia meridionale sottosviluppata e di un'economia sommaria che considera già il bambino dal punto di vista delle me  capacità produttive.    Per seguire l'affermazione del bambino, la  cinepresa dl Comencini si fa di una sorprendente leggerezza: segue le lunghe corse di  Mimì nella campagna o per strade tortuose., poi le gare nelle città su terreni o in riva al  mare con una serena precisione e una scelta  sempre azzeccata del paesaggio. Comencini  passa dai corridori agli accompagnatori, in  particolare il vecchio che aiuta Mimi a portare  a termine la sua impresa. La corsa decisiva dove è in palio la selezione per i Giochi della  gioventù e un grande momento di cinema  con l’autista che interviene di tanto in tanto  per frenare l'ardore di Mimi: quando il ragazzo passa la selezione, il vecchio accenna un  gesto di gioia nel quale - lui. lo storpio - si  prende una rivincita per tutta una vita fatta  di amarezze e di frustrazioni. Una misurata  emozione invade lo schermo, come sarà per il  finale con la vittoria a Roma e la sobrietà di  un racconto che si chiude all’improvviso, sottraendosi alla scena successiva del ritorno  trionfante del ragazzo nel tuo paese natale.  La notte cade sulla città eterna, lo speaker alla televisione annuncia la vittoria di Mimì e  dato che non sa niente del vincitore, si limita a  dire che si tratta di “un ragazzo di Calabria”. 
     
Tratto da Luigi Comencini, Jean Gili, Gremese ed., 2003

mercoledì 26 marzo 2014

Un enfant de Calabre, de Luigi Comencini

7 à Paris
« Un enfant de Calabre est un film d'espoir. Comencini a bien sûr parfaitement choisi son acteur enfant. En découle le bonheur du jeu. L'intrigue se noue... comme les  tripes du spectateur ému ».
Antoine Desrosières, 10/021988

Le Canard Enchaîné
« Luigi Comencini, dans la foulée, tire de tout cela un film sensible et juste. Pour trouver un cinéaste italien plus attentif à l'enfance et à ses problèmes, on peut toujours courir ».
Jean-Paul Grousset, 10/02/1988

La Croix
« Rien d'inattendu et pourtant, comme à chaque fois qu'il aborde l'univers de l'enfance ou de l'adolescence, Comencini réussit à nous charmer. Sa grande force est de ne jamais tomber dans la mièvrerie : toutes les annotations sociales (…) sont d'une grande finesse d'observation (…). Bien sûr, Un enfant de Calabre a les limites du mélodrame au dénouement attendu. Il n'est pas pour autant un Comencini mineur. Le plaisir que l'on prend à le regarder tient à l'humanité du regard d'un cinéaste qui a toujours trouvé le ton juste mais sait aussi surprendre ».
Jean-Luc Macia, 11/02/1988

Les Echos
« Il ne se passe rien et pourtant, évitant – parfois de peu – le mélo, le sirop de bons sentiments, esquissant, mine de rien, un tableau assez cruel de l'Italie pauvre d'il y a vingt-cinq ans, Comencini séduit et même, rend heureux. Parce qu'il plaide, en fait, sans appuyer, pour la liberté. Celle de faire ce qu'on aime plutôt que ce que l'on doit (…). Cette fable toute simple, toute dépouillée, et si délicatement émouvante (…) est, ce qui ne gâte rien, superbement interprétée ».
Annie Coppermann, 12/02/1988

Le Figaro
« - Est-ce que Mimi ne ressemble pas au jeune Comencini ?
- Oui, je l'avoue, et je ne m'en suis aperçu qu'à la fin du film (…). J'ai conscience que je donne une image idyllique de la Calabre. Elle n'est envahie ni par la Mafia ni par le béton, ni par les voitures ni par la télévision. La réalité, la misère, je ne fais que les suggérer. Je ne crois plus guère au cinéma de dénonciation 
».
Pierre Montaigne, 09/02/1988

Le Figaro Magazine
« Comme souvent chez Comencini, la modestie des héros, l'apparente simplicité des sentiments ne fait que mieux révéler l'ampleur de la parabole (…). Un enfant de Calabre est au cinéma ce qu'on appellerait, en littérature, une nouvelle, sans prétention mais pas sans ambition, comme chapitre révélateur dans l'œuvre d'un maître ».
Daniel Toscan du Plantier, 13/02/1988

France Soir
« Un film solide, classique, qui s'inscrit bien dans l'œuvre de Comencini ».
Robert Chazal, 13/02/1988

Gai Pied Hebdo
« Trois points forts au moins se dégagent de l'ensemble de l'œuvre : l'enfance (ou l'adolescence), le constat social sans illusion mais tempéré par sa tendresse pour les personnages, le merveilleux à la Pinocchio (…). Le conte de fées laisse la place à une autre lecture, celle d'une réalité sociale que Comencini restitue avec ce réalisme populiste (ce n'est pas péjoratif) dont il a le secret et qui est presque constante dans sa filmographie quadragénaire ».
Michel Cyprien, 12/02/1988

L'Humanité
« A plus de soixante-dix ans, Comencini est désormais tourné vers l'enfance, qui a au demeurant toujours été un de ses thèmes de prédilection. Une nouvelle fois, il parvient à nous mettre la larme à l'œil avec ce qui ne serait qu'une success story de plus s'il n'y avait là une telle conviction, un tel enthousiasme, une telle sincérité que le morceau finit par être emporté. Alors, on oublie que le film procède d'une trame romanesque assez lâche, qu'il suffirait de rajouter des scènes pour en faire une série télévisée, que le cadre n'est là que pour mettre en valeur les acteurs comme dans le cinéma des dialoguistes d'autrefois, que le montage est approximatif tant ce qui intéresse Comencini est l'adolescent et non le film qu'il lui consacre ».
Jean Roy, 13/02/1988

Le Journal du Dimanche
« J'ai pris en horreur les effets caméra qui pour moi correspondent aux effets de manche des avocats. Je filme le plus souvent possible en décors naturels. Avec peu de dialogues : priorité à l'image nue ». Ici, elle est superbe, avec ses couleurs violentes et tragiques. Aussi grâce au regard de cet enfant : « Je l'avais choisi très vite. Pour ce regard justement ».
Luigi Comencini, propos recueillis par Michèle Stouvenot, 07/02/1988

Le Journal du Dimanche
« Un enfant de Calabre est une chronique sur une époque à jamais révolue (…). Un film sur la passion, l'enfance incomprise et maltraitée, l'innocence et le rêve. Avec ce message que Luigi Comencini fait passer avec finesse et intelligence : aimer. Il faut toujours aimer quelqu'un ou quelque chose ».
[S.N.], 14/02/1988

Libération
« Le Comencini est un navet. Ça ne fait jamais plaisir d'écrire ça. Même s'il faut remonter à 1972 (L'Argent de la vieille) pour trouver un beau Comencini, on voudrait croire que ça dure encore, qu'il va retrouver la pêche, nous pondre un chef d'œuvre à pleurer de rire ou d'émotion. Qu'il va nous surprendre, en un mot. Comment pourrait-il avec un Ragazzo di Calabria, auto-parodie de tout ce qu'on a aimé chez lui avant ? (…). Ce gamin de Calabre se contente de se laisser filmer avec soin par une de ces équipes tout juste bonnes à produire du téléfilm de luxe ».
Louis Skorecki, 03/09/1987

Libération
« Luigi, vous nous avez rafraîchi, avec votre dernier film. Votre gamin qui tricote des gambettes, on dirait un Mickey Rooney à la Calabraise. Il y a des collines, du saucisson et des ruisseaux. Tous les vieux du coin prennent le gosse en charge. Ils aimeraient bien courir. Ils le font courir. L'enfant devenu adulte ne s'est pas reconnu. Il a oublié le goût des vraies tomates et de l'huile d'olive dense. Il se cache derrière des raisonnements inconnus en Calabre. De toute façon, c'est Comencini qui a gagné la course ».
Jean-Pierre Mocky, 10/02/1988

Libération
« On pourra toujours trouver quelques longueurs, regretter que le personnage de la jeune bourgeoise qui semble inspirer Mimi ne trouve pas vraiment sa place dans le film, il est indéniable qu'Un enfant de Calabre est le meilleur film de Comencini depuis 1972, cette somptueuse année où il offrit deux de ses chefs d'œuvre, L'Argent de la vieille et surtout Pinocchio ».
Christian Jaurena et Edouard Waintrop, 10/02/1988

Le Monde
« Comencini a réalisé là une de ses œuvres les plus dépouillées, les plus pures, chaleureuse et juste, sans esprit de démonstration morale, comme un conte. Et Santo Pomelino, qui interprète Mimi, sans affectation, sans effet, sans peser, met le film dans sa poche et nous avec. En petite foulée ».
Michel Braudeau, 16/02/1988

Nice Matin
« Sur cette histoire simple, Comencini a construit une chronique rude, ensoleillée, émouvante, sans doute un peu longuette, dans la veine du grand cinéma italien néoréaliste. Un cinéma qui apparaît aujourd'hui un peu dépassé : la vie court encore plus vite que Mimi, le petit Calabrais aux pieds nus ».
Maurice Huleu, 14/02/1988

Le Nouvel Observateur
« Comencini, qui aime les enfants bien coiffés, a décoiffé celui-ci au vent des mythes aimables qui illuminent parfois les biographies des champions. Dans le cinéma classique, on boxait. Ici, on court, mais on est tout aussi classique. Pourquoi pas ».
Michel Pérez, 05/02/1988

Le Parisien
« J'ai fait douze ou treize films sur ce sujet, mais celui-là est un peu différent car il se situe dans une époque et un lieu précis, où la solitude et le rêve étaient plus forts. En ce temps-là, il n'y avait pas la télévision ». A soixante et onze ans, après quelque cinquante films, Comencini n'a apparemment rien perdu de sa passion pour les enfants. Il en parle toujours aussi bien, que ce soit à l'écran ou à la ville : « Ce sont des témoins attentifs de notre vie. Ils voient le monde des adultes avec distance. Leurs réactions sont libres, originales et personnelles et par cela, ils mettent le monde des adultes en difficulté. Voilà pourquoi je les aime ».
Laure Joanin, 10/02/1988

Le Progrès
« Comencini signe ce qu'on peut appeler une œuvre de maturité avec ce que cela suppose d'aisance, de simplicité, de refus des séductions faciles et du spectaculaire. L'émotion n'en est que plus pure et l'on baigne constamment dans le charme de ce récit naturaliste qui évite le chausse-trappe du symbolisme lourd (…) et joue l'atout cœur sans aucune tricherie ».
François Cohendy, 10/02/1988

Le Provençal
« Comencini fait un film qui tient à la fois de la fable et du mélodrame populiste, une double nature qui lui porte par moments préjudice. Avec un tel sujet, il n'était pas nécessaire d'appuyer sur la corde sensible aussi fort qu'il le fait par moments. De même, la reconstitution maniaque des intérieurs et des costumes fait si « musée ethnographique » que ce trop d'authenticité se retourne parfois contre le film. Pourtant on ne lésine pas son émotion parce que les interprètes sont magnifiques ».
Jeanne Baumberger, 15/02/1988

Le Quotidien de Paris
« Il y a dans Le Garçon de Calabre cette inépuisable fraîcheur des univers de l'enfance si chers à l'auteur. En plus, la tradition d'un cinéma populaire oublié et qui fait la splendeur du cinéma italien des années cinquante (…). Deux heures, c'est sans doute un peu long, à regarder courir sans cesse, assis dans un fauteuil. Mais la beauté de la mise en scène vaut bien quelques fourmis dans les jambes. Le grand public a bien de la chance de posséder encore un cinéaste comme Comencini qui sait créer la fable sans courir vers les clichés à la mode ».
Anne de Gasperi, 03/09/1988

Le Quotidien de Paris
« - A priori, le sujet d'Un enfant de Calabre, cet enfant qui veut courir, pourrait laisser indifférent ; et vous réussissez un film à la fois émouvant et intelligent ; réflexion politique et sociale, discours sur l'imaginaire... Tout cela existait dès le départ dans le scénario ?
- Ce film a une drôle d'histoire. Lors d'un concours de scénarios originaux, l'histoire écrite par Demetrio Casile a eu un prix. Ugo Pirro me l'a signalée. On a beaucoup changé, adapté, ma fille a refait les dialogues. Par instant, on s'est découragé, et puis finalement le résultat nous a plu : on a beaucoup resserré ; les dialogues sont épais : chaque réplique donne plusieurs informations 
».
Luigi Comencini, propos recueillis par Aurélien Ferenczi, 08/02/1988

Révolution
« Sans avoir la force et les qualités de réussites de L'Incompris ou de PinocchioUn enfant de Calabre réussit pourtant à nous toucher par sa simplicité et son côté un peu mélo, même s'il force parfois sur l'émotion. Une fois de plus, Comencini parvient à nous faire partager ces instants privilégiés et merveilleux propres à l'enfance, à travers l'histoire secrète de Mimi et de son rêve de victoire ».
Antoine Tixeront, 12/02/1988

Témoignage Chrétien
« Par une sorte d'état de grâce où l'expérience compte pour beaucoup, Comencini a réussi et mélangé trois éléments dont le mariage fait la réussite du film ; le paysage, la musique et le sport ».
François Quenin, 06/02/1988

Télérama
« Quelles sacrées leçons de cinéma nous offrent coup sur coup Huston et Comencini ! Après Gens de Dublin, voici Un enfant de Calabre aussi éblouissant de maîtrise, de simplicité et d'évidence que le dernier film du vieux lion. Un scénario linéaire, une caméra dont la virtuosité nous comble sans qu'on la remarque jamais, un montage d'une précision telle que les raccords sont invisibles. Bref, une économie de moyens et un goût de l'épure qui sont ceux des grands au soir de leur vie ».
Claude-Marie Trémois, 10/02/1988

La Vie Ouvrière
« Avec cette réflexion sur le rêve et son envers – la folie – Comencini renoue avec les grands moments de la comédie à l'italienne. Équilibre subtil entre les larmes et le rire. Il n'oublie pas non plus qu'il fut l'auteur de féroces satires sur notre société et offre ici une peinture fidèle et terrible des rapports sociaux ».
Frédéric Théobald, 08/02/1988

L'originale è qui:
http://www.cinematheque.fr/fr/dans-salles/hommages-retrospectives/revues-presse/comencini/enfantcalabre.html

giovedì 20 marzo 2014

La Calabria, di corsa


In Calabria ho incontrato solo persone gentili “  Luigi Comencini


Télérama
« Quelles sacrées leçons de cinéma nous offrent coup sur coup Huston et Comencini ! Après Gens de Dublin, voici Un enfant de Calabre aussi éblouissant de maîtrise, de simplicité et d'évidence que le dernier film du vieux lion. Un scénario linéaire, une caméra dont la virtuosité nous comble sans qu'on la remarque jamais, un montage d'une précision telle que les raccords sont invisibles. Bref, une économie de moyens et un goût de l'épure qui sont ceux des grands au soir de leur vie ».
Claude-Marie Trémois, 10/02/1988


La notte cade sulla città eterna, lo speaker alla televisione annuncia la vittoria di Mimì e dato che non sa niente del vincitore, si limita a dire che si tratta di “un ragazzo di Calabria”.  Jean Gili


Benissimo! Alla fine ce l'abbiamo fatta a lasciarci indietro la Calabria arcaica, arretrata, indolente, sanguisuga, stiamo andando verso una nuova Calabria ed il film di Luigi Comencini è un capu cascia. Voi non sapete cosa è un capu cascia ed io ve lo spiego meglio che posso: è un termine usato nella costruzione delle armacie, come vengono designati i muretti a secco nelle campagne dell'ex Regno delle Due Sicilie. Il capu cascia è il punto di riferimento, un pesante masso di pietra, che indica da dove si partono i limiti della proprietà, un segnale per tutti quelli che vi transitano, braccianti e … ladri.
Luigi Comencini, con Vittorio De Seta, è stato il primo a rivelarci un'altra Calabria, con un filmare semplice che per altri è risultato svogliato. Solo in Italia però, in Francia da dove proveniva l'altra metà della parte finanziaria, hanno riconosciuto subito il valore, non solo artistico, socio-politico lontano da qualsiasi colore e clamore di facciata.
Lui stesso ha definito il film una favola. Nelle sue mani è arrivato per mezzo di Ugo Pirro, il soggetto è di Demetrio Casile,. Ora, Un Ragazzo di Calabria (1987) è intimante legato ad un altro lavoro dei due : Delitto d'amore (1974), un' altra favola ambientata nella brumosa Milano.
Comencini “ scopre “ la Calabria e scopre la voglia di lasciare dietro tutti i luoghi comuni e le etichette che l'hanno marchiata fin dentro il cuore, e dalla sua ha il rigore morale che ha contraddistinto tutta la sua opera cinematografica.
Nella storia di Mimì accanto ai personaggi è essenziale, ed è la prima volta, il ruolo che ha il paesaggio calabrese dentro cui si svolgono i fatti e principalmente gli allenamenti del ragazzo che corre a piedi scalzi come il suo idolo Abebe Bikila. In questo è stato aiutato anche dalla felice scopera dell' interprete, Santo Polimeno.
Mimì corre, la cinepresa lo segue e ridipinge per noi il paesaggio della nostra infanzia, quello che continuiamo ad amare su ogni altro.



lunedì 10 marzo 2014

Registi fantasmi in Calabria


Elio Ruffo 1921 - 1952

Elio Ruffo , definito il Visconti della Calabria, è oggi come i suoi film, un fantasma, si parla di S O S Africo, Tempo di amarsi, Una rete piena di sabbia, ma pochi li conoscono, pochissimi li hanno visti, tenuti sotto la naftalina chissà per quali motivi. A Bovalino qualche estate fa hanno proiettato i film citati alla sala Afrodite, come? in pellicola o supporto digitale? Si è redatto persino un libro su di lui.Da questo blog si chiede umilmente a chi detiene qualche copia di pubblicarla sul Tube, anche in formato 160 x 112, anche temporaneamente, rendendo l'omaggio che Elio Ruffo merita.

martedì 25 febbraio 2014

Mao Tse Tung in Calabria




All’interno dell’Unione dei marxisti-leninisti lavorai come regista nel settore della stampa e propaganda. Ho collaborato a due film: Paola, la storia di un’occupazione di case popolari organizzata e guidata da militanti Uci nella città di Paola in Calabria; e Viva il primo maggio rosso, documentario sulla manifestazione trionfalistica organizzata dall’Unione in varie città d’Italia il primo maggio.
Paola fu progettato da compagni artisti assieme a membri del partito (dirigenti centrali). Fu girato secondo un’idea che in teoria era giusta: protagonista del film doveva essere il popolo di Paola. Il popolo ha le idee giuste e dunque è il popolo che le deve esprimere. I membri del partito non devono parlare per il popolo, devono limitarsi a organizzare le idee per il popolo, a sintetizzarle, lo devono aiutare a risolvere le sue contraddizioni, ecc. ecc. Questi i propositi, che la realtà in parte contraddisse: nell’inchiesta che conducemmo nei quartieri più poveri di Paola documentammo soprattutto una grande sfiducia, nessun ottimismo, un fatalismo disperato nel presente e nel futuro, una scarsa coscienza politica.
Durante il montaggio, le immagini che rappresentavano i vecchi abbandonati, i malati, che indagavano, soffermandovisi, sugli aspetti più ripugnanti e disperati della miseria, vennero in gran parte tagliate, proprio perché il partito le considerava dei compiacimenti decadenti e perché, soprattutto, voleva dare un idea del popolo sfruttato e sofferente, ma attivo, ottimista, rivoluzionario. Tutti i discorsi disfattisti vennero mutilati, conservando per esempio quei punti in cui l’intervistato si scagliava contro i politicanti, i partiti, i parlamentari, in cui manifestava un odio attivo contro i suoi sfruttatori. E si mettevano  nella massima evidenza quei discorsi frammentari, e neppure completamente spontanei, di coloro che avevano già occupato le case popolari e decantavano lo stile proletario e altruistico che si era instaurato tra gli occupanti. (Marco Bellocchio)


Una volta siamo andati a girare un film sulla Sila per l’Unione! Con Franco Angeli, Marco, Lou Castel … Un continuo processo: no, questo fotogramma no, discussioni continue …  Mi guardavo intorno, e nonostante tutto mi divertivo, mi dicevo: guardiamo chi ci può cascare: io, per primo, Marco Bellocchio con quell’aria un po’ da prete, Lou Castel, Franco Angeli che è a ridosso di tutti, i quattro più predisposti! Marco, essendo la persona più nota, era quella più corteggiata. Ma loro poi al partito gli hanno dato due lire, l’unico che ha dato veramente i soldi sono stato io. Con la Sila ho raggiunto il mio culmine e ho lasciato perdere. Così me ne sono andato a Venezia a presentare Umano non umano. E a Venezia c’era un ricco dell’Unione, uno molto ricco che in Sardegna aveva motoscafi che si chiamavano Mao 1 e Mao 2, non scherzo. Mi affrontò e mi disse: “  Tu sei qui? “. E io “ E tu, dove sei? “.(Mario Schifano)

martedì 18 febbraio 2014

Un sincero suddito di Francesco II Borbone




Renato Terra ne Il brigante di Tacca del Lupo di Pietro Germi
con alle spalle le Rocche di Prastarà presso Montebello Ionico, e  Pentedattilo

domenica 16 febbraio 2014

undici mesi in Calabria, seimila comparse, 200.000 metri di pellicola


Il film che per me è il piú importante e  che la gente conosce meno è Il brigante. Nasceva da una proposta di Rizzoli. Il libro era  di Berto. Sono stato quattro mesi in Calabria a vedere e a parlare con la gente. Non  contento di questo ho portato con me Berto  perché mi mostrasse i posti che aveva de-  scritto e ho caricato in macchina anche Antonello Trombadori, perché è una persona  straordinaria per parlare con la gente. Ho  fatto un'inchiesta a fondo sulla gente del  crotonese. Quando sono tornato ho detto a  Rizzoli che volevo fare un'altra storia, quel-  la di un uomo che avevo conosciuto in Calabria, uno che viveva con due mogli e tanti  bambini, in una serenità straordinaria, uno  che aveva partecipato all'occupazione delle  terre. Lui fece un sacco di storie e io ebbi  l'ingenuità di pensare di mettere il mio film  nel film di Rizzoli, cosí venne troppo lungo.  Malgrado questo è stato il migliore film che  ho fatto. C'era anche il racconto storico del-  la grande speranza che il mondo cambiasse  in cinque o anche quindici anni, che è un'i-  dea sciocca, perché il mondo cambia in cento, duecento anni, è una questione di evoluzione di generazioni. Il film raccontava tutte  queste grandi speranze che a poco a poco si  sono infossate come nelle sabbie mobili.  L'ho girato in assoluta libertà, perché  non mi ha posto limiti: sono stato undici  mesi in Calabria ed ho amministrato personalmente il film. Il brigante è stato fatto nel  1960 ed è costato 98 milioni. Nelle scene  dell'occupazione delle terre ci sono 6.000  comparse. Non farò piú un'impresa del genere perché sono diventato matto. Ho girato  200.000 metri di pellicola, però avevo una  troupe piccolissima, questa volta con il sonoro, con tutta gente presa sul posto. Quando è finito, il film ha fatto impressione, la  gente stava lí tre ore e mezzo a vederlo. Poi i  distributori hanno cominciato con le loro richieste di tagli e anche Chiarini, che lo voleva per Venezia, mi ha chiesto di tagliarlo un  po'. È andata via quasi un'ora e il film si è  un po' squilibrato. A Venezia, appena si è  spenta la luce ed è cominciato il film (c'era  un pubblico molto elegante, era il boom), si  è sentita una signora lagnarsi di vedere ancora un film di straccioni. Questa era l'atmosfera. Mi era costato anni di fatica. A volte la gente si crede in diritto di liquidare  tutto con due parole. Io Il brigante lo difendo: c'è dentro un tale amore al lavoro, una  tale quantità di fatica. Tre anni interi! Ai  critici Il brigante non piacque. Lo trovarono  démodé. Nel clima del miracolo economico  certe istanze erano démodées. Ai critici del  miracolo andavano bene i film nebulosi,  sfuggenti, i famosi film con “la passeggiata”. (Renato Castellani)     

L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti  a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli op. cit.

giovedì 13 febbraio 2014

C'era una volta in Calabria


Con tutti i difetti che derivano dalla sceneggiatura, dello stesso regista, e dai tagli subiti nelle corso delle prime proiezioni, in origine superava le tre ore abbondanti, rimane ancora oggi il film più importante girato in Calabria. I temi che affronta, il brigantaggio e le lotte contadine finite con l’occupazione delle terre, lo collocano tra le poche pellicole che affrontano il meridionalismo con ardore.
La storia riprende quella che fu del Musolino di Mario Camerini innestandola con le rivolte agrarie nel crotonese ed a Melissa in particolare, insanguinate da parte della celere statale che uccise tre poveri braccianti i cui nomi qui si vuole ricordare: Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito.
L’opera rievoca quanto accadde nella Calabria  a partire dagli anni fascisti, anni di ruberie da parte di chi rappresentava il potere centrale a spese di chi lavorava la terra; al ritiro dei soldati tedeschi in fuga verso il nord; all’arrivo degli americani, che instillarono un barlume di speranza tra quanti subivano, inermi, lo strapotere dei latifondisti; sino al ritorno sotto nuove divise, questa volta bianche, degli stessi uomini con nuove promesse mai mantenute. Il film è una favola, in cui tutto resta uguale malgrado gli sforzi degli uomini ( Sergio Trasatti).
Oggi la pellicola ricorda i futuri Novecento di Bernardo Bertolucci, I cancelli del cielo di Michael Cimino e per certi aspetti della storia del ragazzo in crescita, spettatore di quanto accade, Malena di Giuseppe Tornatore.
Renato Castellani è saggio nel servirsi delle luci di Armando Nannuzzi, operatore Giuseppe Ruzzolini ; delle forbici di Jolanda Benvenuti e della partitura di Nino Rota che a tratti riecheggia quella composta per Il Padrino di Francis Ford Coppola dieci anni più tardi.
Il regista girando il film tra Santo Stefano d’Aspromonte ed il crotonese tenta di recuperare gli stilemi, ormai abbandonati, neorealisti, per l’uso che ne fa degli attori quasi tutti non professionisti: ora si menzionano Giovanni Basile, l’appuntato Fimiani, e Mario Jerard che interpreta Pataro, uomo di molte donne e di molti figli la cui storia era l’origine del film.
Ancora una volta, non si comprende bene perché, in un film di ambientazione squisitamente calabra, si fanno doppiare gli attori in ispanico-siciliano ,e, a livello più basso, si mette in bocca ad uno dei protagonisti maschili Ciuri ciuri, canzone sicula più che mai. Lasciamo da parte Calabrisella mia che in quanto a testo e musica sono quel che sono, che Mino Reitano era ancora un infante ed il Boss di là da venire con Bad Lands, ma a livello popolare qualche refrain verdiano doveva pur sempre serpeggiare. Cade così, infine, quell’adesione al neorealismo che abbiamo citato prima. Del resto Castellani era stato accusato, ai suoi tempi, di aver reso quel movimento cinematografico, di color rosa.


martedì 19 novembre 2013

The true story of the bandit Mittiga


Il critico Johnny Carteri di Bovalino  su Calabria Forever,  che si pubblica a New York, ritiene poco probabile questa storia girata in anni in cui il neorealismo italiano trapassava in realismo di maniera. Noi non siamo d’accordo. Girato in un contrastato bianco e nero, la famosa Pancro  C. 7 della Ferrania, da Leonida Barboni alla fine convince più del precedente  Tacca del  lupo. Questa volta più che alle opere fordiane della frontiera la direzione di Germi si rifà a La via del tabacco ma soprattutto a Furore, con  Raf Vallone che molto bene sottolinea lo sradicamento del protagonista. Ferdinando diventa brigante perché destinato. Al destino danno una mano i notabili latifondisti ed i loro sgherri passati dalla parte del nuovo padrone piemontese. Ferdinando sceglie la tradizione non il progresso che risulta un voltafaccia, un rimescolare più che un rinnovamento a vantaggio delle classi più umili.
Gian Luigi Rondi sull’Osservatore Romano lo definì di propaganda populista mente Guido Aristarco sull’Unità lo bollò come nocivo per le lotte contadine della Calabria.

Da notare che un decennio dopo fu ricavato un  remake da Antonio Margheriti con Rick Battaglia nelle vesti di Ferdinando.

venerdì 15 novembre 2013

Briganti?

Il brigante di Tacca del Lupo (1952) non dovrebbe rientrare in questa retrospettiva dedicata ai film che trattano della Calabria. I riferimenti che le azioni danno collocano la vicenda nella Lucania, a Melfi, nell’estremo nord di quella regione, accanto alla provincia di Foggia.
La lavorazione, invece, per gli esteri, si svolse nel reggino: riconoscibile tra tutti la fiumara di S. Elia presso Melito Porto Salvo con Pentedattilo , il cui sfondo ricorre spesso anche da angolazioni diverse. Ma anche S. Stefano d’Aspromonte, paese natale di don Peppino Musolino e ancora le Rocche Prastarà di Montebello Ionico. Senza notare che in quegli anni non si badava alla filologia e nei film gli attori che interpretavano personaggi calabresi, lucani o pugliesi  venivano doppiati tutti col siculo-partenopeo.
Le vicende di briganti, ex borbonici, contro i nuovi arrivati piemontesi è comune a tutto il Regno delle due Sicilie. Vi passò don Peppino Garibaldi, e con lui vi passarono le speranze; tutto rimase come sotto Francesco II. Questo lo aveva anticipato e chiarito meglio di me don Fabrizio, principe di Salina, noto come il Gattopardo.
Si è detto molto sulla pellicola di Germi, il primo a vedere il sud italiano senza abbellimenti di sorta, spartano, come lo era il regista nella vita e nella professione. Si è detto del meridionalismo come dei riferimenti filmici cui il lavoro rende omaggio : John Ford ed i film con il seventh Cavalry; su tutti il più noto, quello che qui si riprende, Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, 1948) interpretato da Henry Fonda e John Wayne, ambedue riveduti sotto la mano di Germi con i volti di Amedeo Nazzari e Fausto Tozzi.  Del resto il Regno delle due Siciliè è l’unico paese al mondo assieme all’ovest americano dove realtà, miti e leggende si confondono e impastano.
Non viene messa in luce, ancora oggi è così, nel film come nelle critiche ad esso rivolte, l’intera vicenda del brigantaggio come lotta dei poveri. Nell’opera di Germi, ed è quello che maggiormente dispiace e non convince, l’intero episodio è risolto con la vendetta-salvezza dell’onore coniugale che adombra il motivo per il ricongiungimento delle regioni italiane.
Forse il brigantaggio deve ricondursi alle lotte partigiane che scossero l’intero globo terrestre, dall’America del sud alla Russia, alla Cina e via col vento. Forse il brigantaggio deve essere associato al terrorismo che insanguinò ed insanguina le nazioni ed i terroristi manovrati ora da questo ora da quel governo, che se ne serve buttandoli infine in pasto ai tribunali se non vengono fatti tacere per sempre.
In Calabria dei briganti si servirono tutti, governanti e latifondisti, armando i poveri per difendere i loro interessi, per poi lasciarli ai boia. I poveri non si resero conto di niente, passarono di mano in mano, per essere sempre manovrati dai Borboni ai Piemontesi, dai bianchi (il papato) ai neri ai rossi, strumentalizzati per sempre. Così avvenne che il meridione italiano fu, con ingegno, fatto restare nell’arretratezza e sotto il giogo dei militari come della polizia di stato. Del resto questi signori in armi ( in questi ultimi tempi diplomati e laureati, senza contare le signorine )vengono dal proletariato e contro di esso mandati a soggiogarlo, come i bersaglieri nel film di Pietro Germi che erano contadini del nord scagliati contro i contadini del sud.

mercoledì 30 ottobre 2013

San Rocco patrono dell'Aspromonte

Rivalità in Aspromonte
Regia   Giuseppe De Santis
Sceneggiatura  Corrado Alvaro, Ivo Perilli, Steno, Vincenzo Talarico, Giuseppe De Santis
liberamente tratta  da La festa di San Rocco di Nicola Misasi.
Fotografia Aldo Tonti
Musiche Enzo Masetti
Montaggio Adriana Novelli

Amedeo Nazzari  massaru Giovanni
Silvana Mangano  Stella
Vittorio Gassman  Peppino
Jacques Sernas  Luigiuzzu
Rocco D’Assunta  massaru Peppe
Guido Celano  massaru Cola
Edoardo Nevola Santuzzu
Olga Solbelli moglie di massaru Giovanni

Dino De Laurentis propose a Giuseppe De Santis di riprendere il cast de Il Lupo della Sila visti i clamorosi risultati al botteghino di Riso amaro,del lo stesso Lupo, e de Il brigante Musolino.
De Santis convoca Corrado Alvaro ed assieme a Ivo Perilli, Steno e Vincenzo Talarico sceneggiano una novella di Nicola Misasi, La festa di San Rocco, scrittore cosentino della fine dell’800.
E’ la storia di Peppino e Luigiuzzo che rivaleggiano per la mano della bella Stella, con un finale rusticano il giorno della festa di S. Rocco, promessa sposa al primo sebbene avuta già dal secondo.
Gli attori nelle mani del regista si affannano quanto basta per portare a casa il dovuto, come da contratto. La Mangano in più cerca, in questo aiutata dal neo marito De Laurentis, di rafforzare la sua carriera con ruoli di tragica popolana.
Infine il direttore De Santis convinto di essere l’unico a saper manovrare  dolly ( all’epoca si chiamava gru ) e carrelli, li porta a spasso  a salire e scendere sugli altopiani aspromontani ed il dì della festa di San Rocco.
Il critico Johnny Carteri di Brancaleone sulla fanzine Calabria Forever, che si pubblica a New York incriminò il film di plagio ed affermò che Howard Hughes con Jane Russell aveva fatto di meglio ne Il mio corpo ti scalderà (The outlaw).  A suo sostegno André Bazin asserì a proposito del film di De Santis: Peppino e Luigiuzzu si contendono la stessa donna ma amano lo stesso San Rocco.


martedì 22 ottobre 2013

Le olive sono mature

In attesa di una fiction su una bella raccoglitrice di olive e sulla dura fatica che facevano segnalo questo bel documentario di Luigi Di Gianni. Il regista cattura e registra un  momento della storia calabrese al suo termine, consegnandoci immagini abbastanza realiste sulla fatica delle donne.


giovedì 17 ottobre 2013

Don Peppino Musolino




« Nd'ebbiru alligrizza chiddu jornu
quandu i giurati cundannatu m'hannu...
ma si per casu a lu paisi tornu
chidd'occhi chi arridiru ciangirannu »

Se avete mai assistito ad un’opera dei pupi vi potete fare un’idea di questo film, Il brigante Musolino di Mario Camerini. Il pupo protagonista muovendosi a scatti, voce grossa grassa, bastona tutti, ma è anche innamorato; i carabinieri fanno da contorno.
Nella realtà Giuseppe Musolino ( 1876 – 1956 ) accusato di un crimine non commesso, esasperato, non riconoscendo né la giustizia di Dio, tanto meno quella degli uomini, scappa e con un serbatoio di sangue freddo in corpo uccide quanti lo hanno fatto condannare. Compiuta la vendetta, povero ed infelice, comprende che l’unico posto dove può rifugiarsi è il carcere. Lo stato senza riaprire il precedente processo e riconoscere i torti commessi sulla sua testa, lo condannò all’ergastolo a vita, causandogli con ciò l’infermità di mente.
Nel film di Camerini, il secondo sulle gesta di don Peppino, dopo quello di Elena Notari del 1924, come nell’opera dei pupi, l’ambiente dove i personaggi si muovono è del tutto assente, nessuna descrizione che colloca in un contesto preciso le azioni sceniche, come riconosciuto a Il lupo della Sila, anche se vengono nominati, da Nazzari, San Luca e il Santuario.
Le pecche del film, recitato discretamente, provengono tutte dal soggetto e principalmente dalla sceneggiatura a cui prese parte un mucchio selvaggio di nomi che diventeranno molto attivi, in seguito, nella regia. Camerini in fase di realizzazione farà ulteriormente di testa sua mischiando il melodramma all’opera pupara. Questo non toglie che il film vada bene con gli incassi e le presenze nelle sale disseminate in tutta la penisola, isole comprese. Del resto in quegli anni il pubblico, fatto per la maggior parte, dal popolo delle periferie, di qualsiasi origine, urbana come della provincia, non chiedeva che fango, sudore e polvere da sparo, verniciati con un po’ di erotismo. Se cercate qualcosa di calabrese nel film ne troverete poca, anche la parlata è viziata di siculo-campano. Rimane Calabresella mia, accennata nella colonna sonora di Enzo Masetti e nella scena della vendemmia cantata dalle popolane, ma in realtà registrata in studio e sovraimpressa in bocca alle vendemmiatrici.
Tra gli attori voglio segnalare Gino Morisi nella parte del capo ‘ndranheta don Pietro Solemi. In certi momenti, per altro pochi, mi ricorda il Jason Robards di C’era una volta il west di mastro Sergio Leone, uno degli assistenti di Musolino. Pardon, di Camerini.

martedì 15 ottobre 2013

mercoledì 9 ottobre 2013

Brilliant trees


 “Molti anni fa nel paese di Satriano in Lucania alcuni uomini usavano ricoprirsi d’edera fino a diventare irriconoscibili, erano i romiti, uomini – albero, espressione di un antico culto arboreo, risalente al Medioevo. Camminavano con un bastone, al quale era legato un ramo di pungitopo o di ginestra e bussavano alle porte delle case per ricevere elemosina. Con il tempo il romito è diventato una maschera tra le tante, lentamente dimenticata dalle nuove generazioni”. “Alberi” è il nuovo film del regista di Calabrese Michelangelo Frammartino, che dopo “Le quattro volte” torna con i suoi racconti metafisici sulla natura meridionale.


lunedì 7 ottobre 2013

Old Calabria land of myth

Accanto ai lungometraggi andrò proponendo qualche vecchio documentario, tra i più significativi, che illustrano la terra calabra. La regista di questo, Aurelia Attili, è una che più volte ha visitato la regione per fissarla su pellicola per conto dell'Istituto Luce.
Sequenze:
1. una antica cartina geografica descrive la Calabria nel periodo della dominazione greca
2. sul promontorio Lacinio a Crotone una colonna del tempio di Era guarda verso il mare
3. i marosi s'infrangono contro le coste frastagliate
4. sulla cartina vengono individuate con quattro punti luminosi le città di Reggio, Crotone, Locri e Sibari
5. una clessidra descrive il passare del tempo
6. dopo la conquista romana le montagne calabresi vengono violate dai Goti conquistatori
7. sul Busento il loro re Alarico venne ucciso, le rovine della tomba di Alarico
8. un castello medioevale sul mare
9. l'oblio in cui cadde la regione calabra viene eufemisticamente rappresentato da una clessidra ferma
10. il periodo è disseminato da flagelli naturali che corrodono montagne e colline riducendo la terra in luoghi argillosi e aridi
11. un acquitrino stagnante spiega la scarsità di acqua
12. le genti calabre si ritirano sulle colline presilane e sull'altopiano, panoramica della zona
13. i paesi abbarbicati sulle alture si affacciano su terre che non offrono nulla
14. i grandi latifondi concedono misere particelle coltivabili: uno spinoso cactus
15. un castello feudale abbandonato, un territorio senza coltivazioni
16. un gregge di pecore che abbandona il pascolo di pianura per raggiungere la Sila
17. le mucche all'abbeveraggio, gli abbaii dei cani da caccia nelle folte radure
18. panoramica sulla vallata senza colture: i contadini con gli attrezzi in spalla
19. panoramica delle montagne con in lontananza il mare
20. il ritorno alla casa vuota ed angusta, i volti della gente sono il ritratto della fame e della disperazione, bambini vestiti di stracci e sporchi
21. la vita nel paesino con i giochi innocenti dei bambini, una donna culla il suo bimbo seduta fuori della porta di casa al sole
22. le donne lavano i panni al fontanile del paesino nato tra le macerie
23. una donna porta la brocca sul capo per prendere l'acqua alla fontana
24. due donne mettono ad asciugare dei fili appesi ad un bastone, una donna lavora al telaio per tessere
25. primo piano della stoffa preparata con semplici disegni, quasi infantili
26. un'anziana signora ha teso i fili di lana alla finestra
27. due donne usano il fuso in strada ed un bimbetto gioca con lo strumento
28. il segnale del cambiamento viene raffigurato con il suono di una campana di chiesa
29. la clessidra riprende a far scorrere il tempo
30. un aratro affonda la sua lama nella terra secca
31. la cartina mostra quale sia il territorio che viene diviso tra i contadini secondo la nuova legge Segni sulla riforma agraria
32. in una estensione di oltre 500000 ettari sono stati ritagliati 76000 ettari di terreno distribuito tra 20000 contadini senza terra
33. un manifesto dell'Opera per la valorizzazione della Sila spiega come si fa parte delle liste
34. squadre catastali ripartiscono, qualificano e valutano i terreni espropriati
35. panoramica della terra con un fiume e buoi al pascolo
36. Santa Severina, il suo castello medievale, è stato il primo centro in cui è stata fatta l'assegnazione dei lotti
37. una folla riempie la piazza per ascoltare il discorso di Segni, primo piano del politico
38. tre contenitori con la scritta delle quote di assegnazione
39. una bimba con grande fiocco in testa fa la scelta dentro i contenitori
40. uno degli assegnatari firma
41. giovani calabresi mangiano pane, primo piano di uno di loro con la coppola
42. una leggenda racconta che Alarico ha sepolto in Calabria il suo tesoro
43. perle ed ori bagnate di acqua paragonate alle spighe rigogliose di un campo
44. il futuro della Calabria nel giovane volto di un ragazzo e nelle messi fluenti al vento


mercoledì 2 ottobre 2013

Lupi ed uomini


La Lux Film torinese, casa di produzione “illuminata” e antifascista nei primi anni quaranta (come si è spesso notato), sostiene senza sorprese la causa israeliana: di fatto la cultura ebraica costituisce la punta avanzata di quel modernismo laico-massonico entro i cui confini agisce con coerenza la cinematografia capitanata da Gualino e Gatti e perfettamente inserita nell’universo ideale prevalente da decenni nella metropoli dei Savoia e degli Agnelli.
Ancora il binomio Lux-Duilio Coletti, per il tramite del produttore Dino De Laurentis, mette in cantiere un nuovo “attacco alla tradizione” con la pellicola Il lupo della Sila (dicembre 1949; 95 min.), ambientato tra gli aspri paesaggi della Calabria rurale. Come già in numerose altre pellicola finanziate dalla ditta piemontese (si pensi ad esempio al simile Notte di tempesta di Franciolini, 1945; vedi) l’astuto meccanismo consiste nel calare una vicenda fumettistica, degna di un romanzo d’appendice, all’interno di una cornice dal sapore documentaristico e perfino “neorealistico” (riprese in esterni che valorizzano in modo abile il paesaggio calabrese, utilizzazione della popolazione locale, una magnifica fotografia in un denso e contrastato bianco e nero). Al centro viene collocata una figura mostruosa che finisce con il divenire emblematica di quel luogo e di quella cultura che si vogliono dipingere con accenti “arcaico-medievali”, pieni di disprezzo. Così Rocco Barra (Amedeo Nazzari), il più stimato proprietario locale, è un fanatico, disumano e autoritario difensore dell’onore familiare: dapprima impedisce alla sorella (Luisa Rossi) di scagionare il proprio amante (Vittorio Gassman) ingiustamente accusato di omicidio, decretandone in definitiva la morte; anni dopo invece, follemente inamorato di una giovane, prosperosa lavorante (Silvana Mangano), decide di sposarla senonché, quando il figlio Salvatore (Jacques Sernas), a cui sembra sinceramente affezionato, gliela porta via, lo insegue e immediatamente, saltando ogni doveroso chiarimento verbale, cerca di ucciderlo a fucilate. Insomma una vera e propria bestia infernale, animata da un feroce egoismo dettato da un’interpretazione estremistica e artificiosa delle tradizioni familiari del meridione d’Italia.
Si noti, per finire, che l’unica figura totalmente positiva è quella di Salvatore, un presunto calabrese interpretato da un attore francese (privo del minimo tratto somatico meridionale), il quale ha abbandonato la propria terra e le proprie convenzioni per vivere e studiare in una imprecisata, lontana e popolosa città: ovvero un perfetto e astratto modello di meridionale assimilato alla cultura laico-modernista.
Il film di Coletti, basato su questo sciocco soggetto inventato da Steno e Monicelli (e da loro sceneggiato con altri), è dunque soprattutto una caricatura indecente del costume del sud ad opera dei noti settori laici della Torino “illuminista”, settori assorbiti dalla propria guerra di modernizzazione di un’Italia rurale (fin dai tempi delle guerre d’indipendenza, della repubblica romana e dei Mille garibaldini) considerata oscurantista e inutile. In questa “guerra di religione” ogni mezzo è valido e ogni risorsa viene mobilitata: la bellezza provocante di Silvana Mangano (subito spogliata nella prima sequenza), l’autorità attoriale di Nazzari, la accattivante, veloce struttura narrativa (un Coletti finalmente in forma) animata da un montaggio serrato e da eventi spettacolari che si susseguono in modo trascinante (sebbene totalmente inverosimile) e infine una indubbia capacità di fotografare in modo perfino poetico la natura montagnosa e solcata di torrenti della Sila. Il pubblico resta giustamente soggiogato dal lavoro e ne sancisce un imprevisto, largo successo. Il centro cattolico al contrario, meno sensibile a queste qualità linguistiche e più attento alla visione ideale che la pellicola reca con sé, bolla con il solito “escluso” il prodotto Lux.

L’originale è qui: