lunedì 20 aprile 2020

QUESTO E’ CINEMA QUESTO NON E’ CINEMA



NEL suo saggio su Welles. Jean Cocteau fa coraggiosamente merito al 'autore di aver voluto conservare al Macbeth, il suo stile teatrale cercando di mostrare che il cinema è persino capace di disprezzare anche quello che si immagina debba essere il proprio ritmo cinematografico. « Cinema», dice Cocteau, «è un'abbreviazione, che io riprovo a causa di ciò che rappresenta. A Venezia, noi sentimmo ripetere questo "leit-motiv" assurdo: E' cinema questo oppure questo non è cinema? E allora Welles  ed io rispondevamo che sarebbe bello apprendere ciò che è un film-cinema, lieti di possedere la ricetta per metterla in pratica». Bisogna riconoscere che il preteso problema dei rapporti tra cinema e teatro non poteva essere piú lucidamente impostato. Per una curiosa coincidenza, una recente inchiesta di Les Nouvelles littéraires, nel constatare quanto siano arbitrarie le frontiere della specializzazione, reca proprio l'esempio di Cocteau, affermando che quando questi suddivide la sua opera in poesia di teatro, poesia di romanzo, poesia di cinema, egli non fa che affermare la comune filiazione di questi generi arbitrari, la quale coincide col desiderio di esprimersi in cui propriamente consistono l'orgoglio e l'onore degli uomini. Il numero di sequenze sul letterato e il cinema, mi offre l’occasione di riprendere, quanto prima, il discorso a  proposito dei rapporti tra il romanzo e lo schermo, scegliendo all'uopo il romanzo di un moderno scrittore, Guglielmo Petroni - La vita è una prigione - ove per converso appare evidente la assimilazione, da parte dell'arte narrativa, della stessa tecnica del racconto cinematografico. La verità è che l'estetica dello "specifico filmica" appare sempre più sorpassata e perciò, mantenere fermi certi postulati, «significa considerare il progresso della tecnica come un ostacolo e non ammettere la possibilità d'un ulteriore sviluppo di essa». Il che vale a fare ancora di più sentire la necessità di una revisione dell'attuale indagine critica, a proposito della quale Guido Aristarco non ha mai abbastanza il merito di insistere.
Premesse dunque queste considerazioni (sulle quali non sarebbe neanche il caso di soffermarsi se la giovinezza della esperienza cinematografica, non rimettesse di continuo in discussione problemi, già risoluti sul piano delle altre arti), io non riesco a capire perché un artista non possa fare del teatro sullo schermo, servendosi della "camera", secondo la cruda espressione di Marcel Pagnol, come d'una macchina tipografica, per stampare parecchie edizioni della rappresentazione originale. Perché quello che interessa è il risultato e cioè il vedere, se questo teatro in scatola, è o no opera d'arte. Ho citato l'esempio di Shakespeare, ma questa volta voglio approfondirlo a dovere. Poniamo, io dico, il caso che un giorno si faccia annunciare agli studi di Londra, Roma o Hollywood un personaggio, il quale dichiari di essere Guglielmo Shakespeare, tornato sulla terra per una speciale concessione divina, allo scopo di metter su una tragedia, ch'egli avrebbe certamente composta in versi, se la morte gliene avesse lasciato il tempo. Poniamo ora il caso che un produttore bene intenzionato come ha detto di essere, su queste colonne, il signor Filippo Del Giudice, conceda a Shakespeare, un teatro ancora caldo del fuoco dei proiettori e che Shakespeare, ignaro di tutte le leggi del vero cinema, faccia semplicemente registrare, con la "camera" immobile e inquadratura fissa, la rappresentazione teatrale. Io domando cosa faremo se, dopo che Shakespeare, sarà tomato in paradiso, noi dobbiamo constatare di trovarci di fronte ad un altro capolavoro del genio di Strafford: diremo che esso non è tale, perché non rispetta le leggi del vero cinema, o riterremo che la sua opera supera abbastanza tutti gli Oscar, le coppe e i primi premi di Venezia?
Questa è ancora una dimostrazione per assurdo. Noi però sosteniamo che a risultati non diversi si può giungere se si prende in esame il lato strettamente cinematografico della questione. «Questo è cinema, questo non è cinema», sentenziano ad ogni passo molti critici. Ed allora sorge naturale il desiderio di Cocteau di appurare cosa sia un film veramente cinematografico. Conosciamo la risposta: il cinema è arte di movimento, inteso naturalmente il movimento come "movimento ornato", secondo una vecchia definizione di Béla Balázs e cioè come composizione danzante, ovvero come movimento associativo (montaggio). E allora noi rispondiamo che tutto questo sta assai bene scritto, ma che contro il cinema arte di movimento, Chaplin aveva già obiettato che forse il vero segreto di un'arte consiste proprio nel porsi al polo opposto della sua apparente vocazione e c e quella del cinema potrebbe risiedere altrove che nel movimento. Anche Delluc aveva intuito questa posizione (pretesa) anticinematografica che può assumere il vero cinema, proclamando contro quella ch'egli chiamava la "estetica Westem", e cioè del movimento a tutti i costi, che i registi di avanguardia volevano applicare, ovunque e per ogni dove, la possibilità di un cinema di "immobilità". E come il meglio dell'emozione musicale, egli dice può esser racchiuso nelle pause dì silenzio, il meglio del cinema può consistere nella fissità e nel riposo dal movimento. Certamente noi siamo convinti che, di fronte all'indipendenza dell'opera d'arte, questo schema del cinema d'immobilità vale l'altro del cinema arte di movimento, e che entrambi sono inutili di fronte alla libertà dell'artista. Ma ciò non toglie che anche la teorica del cinema d' immobilità, possa essere valida (pertinente ai fini di classificare le tendenze degli artisti. E allora e sulla base di certe recenti esperienze non si può negare alla "camera" il suo diritto alla immobilità, abbattendo la principale frontiera che la separa dal teatro. Ricerche in tale senso sono state effettuate da von Stroheim e da Dreyer, e previste letteralmente, forse prima di ogni altro, da Jean Renoir, il quale sin dal 1925 aveva pensato che invece di far muovere continuamente la "camera", era il caso di svolgere la messa in scena, in profondità, allo scopo di dislocare i personaggi, contemporaneamente, su diversi piani, avanti l’apparecchio di ripresa immobile. (continua)
ROBERTO PAOLELLA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica  Anno III – Dicembre 1950





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