giovedì 19 marzo 2020

CINE ma POPolare - Cattivo gusto e classi popolari


Assodato che il pubblico popolare non va al cinema soltanto per scompisciarsi dalle risa, poniamoci questo interrogativo: l'attuale produzione di film cosiddetti popolari risponde effettivamente alle esigenze e ai gusti degli spettatori cui è destinata? Prima di tentare una risposta attendibile. e ragionata, occorre una messa a punto a proposito di gusti ed esigenze popolari. Scriveva Vito Pandolfi nel numero di agosto 1953 della "Rivista del cinema italiano": «C'è un cattivo gusto delle classi popolari che essi (certi produttori e certi registi) conoscono sufficientemente per ottenere a volte, quando l'imbroccano, sbalorditivi risultati finanziari». Proprio cosi: c'è un cattivo gusto dei vasti pubblici popolari, retaggio di antica ignoranza e di incivili condizioni di vita, che li sospinge sulle facili strade del melodramma lacrimogeno e delle distensive evasioni bassamente comiche. La naturale ed istintiva tendenza verso un mondo diverso da quello in cui abitualmente si vive, la perenne tensione dell'essere al dover essere, si trasforma, presso le moltitudini (operai, contadini, braccianti, impiegatucci, bottegai, artigiani ecc.), in preferenza per situazioni e personaggi semplicistici e convenzionali; sia nel comico sia nel drammatico, la loro simpatia è tutta per i buoni, i deboli, gli innocenti e gli ingenui e, in genere, per le vittime della soperchieria dei malvagi e dei furbi senza scrupoli. Mentre comprendono - e dalla comprensione nasce l'interesse - certe situazioni radicali (contrasto fra amore ed odio, amore e dovere, candore e malizia), mal comprendono invece le sfumature, i mezzi toni. gli stati d'animo complessi, Insomma l'autentica e poliedrica realtà umana, che raramente è tagliata con l'accetta.
Come sempre, il problema della diffusione dell'arte e della cultura è anzitutto un problema di educazione popolare: non si tratta di abbassare l'arte del film al livello di certo mal gusto popolare quanto di elevare gradualmente lo spettatore comune al livello dei film d'arte. Così facendo, si obbliga la produzione a cambiare gradualmente indirizzo in conformità dei nuovi orientamenti della "clientela"·
Dal canto loro, gli artisti possono e debbono maturare dallo spettatore popolare un insegnamento di alto valore: arte e sobrietà, bellezza e sincerità, buon gusto e sanità morale sono termini che, lungi dall'escludersi, si richiamano e si intrecciano nell'unità dell'opera. Un meccanico di Sulmona ci confidava che lui, al cinema, vuole innanzi tutto capire e, quando non ci riesce, il film non gli piace. Questo desiderio di chiarezza è molto diffuso nel pubblico popolare, che rifugge dal cerebralismo e dalle costruzioni sofisticate: In nome della legge e Due soldi di speranza vengono senz'altro preferiti a Miracolo a Milano ed Europa '51.
Sviluppando un motivo accennato dal Pendolfi e dal Chiarini, crediamo di poter affermare che, oggi in Italia, non esiste ancora una cinematografia largamente popolare, che salvi al contempo le ragioni dell'arte e della cultura. Tuttavia è doveroso e gradito riconoscere che le opere migliori del realismo hanno indicato la strada buona e ne sono un valido esempio i due film citati. Rammentino i nostri registi di maggior talento che i film di Matarazzo, Brignone, Costa ecc., il cui successo è dovuto ad un'abile speculazione sui temi e sentimenti perenni dell'anima umana, hanno, se non altro, il pregio di non essere difficili: muovendo dagli stessi temi, ma percorrendo ben altri itinerari, è certamente possibile produrre opere dignitose e largamente popolari. La lezione di Chaplin è sempre valida: tutti i suoi grandi film (dall'epoca del muto al recente Luci della ribalta) hanno saputo in tutto il mondo interessare e commuovere milioni di spettatori di ogni categoria sociale, in particolare quelli delle classi popolari; la stessa convenzionalità di alcuni temi e situazioni. è sempre riscattata dalla finezza delle analisi psicologiche, dal preciso mordente delle annotazioni di costume, dalla rigorosa coerenza dello svolgimento narrativo.
Per concludere, la responsabilità della carenza di una buona cinematografia largamente popolare non può farsi risalire esclusivamente all'ignoranza e al mal gusto del pubblico e alle dure leggi della "cassetta ". Le stesse non trascurabili difficoltà di ordine censorio non sono bastevoli ad assolvere completamente i nostri registi di maggiore impegno e valore; probabilmente, come scriveva Fernaldo Di Giammatteo (" Rassegna del film", n. 15 del giugno 1953), essi si sono piegati un po' troppo ai compromessi esterni ed interiori, abdicando, talvolta, alla propria personalità.
CARLO SANNITA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie  Anno VII 1954 10 Novembre

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