lunedì 9 marzo 2020

Carlo Campogalliani

I REGISTI (senza peli sulla lingua)
CARLO CAMPOGALLIANI
DI EUGENIO GIOVANNNETTI
Toc, toc …,
Chi è là?
Fasulein, a barbir, il barbiere.
Aspetta ben un monumento.
Risata dei bimbi innanzi il casotto dei burattini, sotto il voltone del Podestà, la volta nera dei secoli nel centro di Bologna. Come dimenticare questo trillo d’argento nel segreto della metropoli rutilante dell’ Emilia?
I burattini avevano tanto da dire nella Bologna di cui eravamo studenti, e non soltanto sotto il voltone del Podestà! Ricordo una festa in cui il casotto dei burattini celava la contessina Isolani e Alfredo Testoni improvvisanti innanzi ad un elegante uditorio: e quei singolari “burattini in persona”, specialità tutta bolognese, per cui attori talvolta eccellenti rappresentavano, burattineggiando alla perfezione, drammi e farse.
Campogalliani! Era il sovrano di quel mondo: un burattinaio celebre, che i bolognesi consideravano come la cioccolata Maiani, insuperabil vertice della squisitezza. Il culto per quel nome s’è allora così approfondito in me, che ad esso sento ancor congiunto il fiore delle mie feste galanti ed il mio amore per la truculenza burattinesca, la sola che io tolleri in quanto non retorica dell’orrido, come la truculenza ordinaria, ma brivido fantastico e trillante sicumera.
Campogalliani: è ancora per me la festa dell’assurdo, che mi carezza il cuore: la bionda tedesca che mi traeva al centro d’un immenso cortile bolognese, perché le sedessi accanto e le interpretassi le facezie d’un Fasulein che imperversava nei freddi bagliori di una lampada ad acetilene. Ah, festa magica d’argento, degna d’un Piazzetta o d’un Guardi, innanzi ad un drammone burattinesco, in cui Fagiolino, tra lazzi gioviali, accumulava cadaveri, sul banco dei giudici, in nome della giustizia popolare!
Il regista Carlo Campogalliani, emiliano anch’esso, ha, senza dubbio, qualcosa del genio della famiglia: la truculenza inventiva, la popolaresca faraggine. Quante volte i suoi film hanno riscosso in me la nostalgia delle mie feste galanti burattinesche di Bologna, o, più precisamente, per un eccesso di truculenza, mi hanno costretto a rifugiarmici! Il Campogalliani regista dà un po’ troppo nella truculenza ordinaria, nella retorica dell’odio, in quel ch’io non amo. Mi spiegherò con qualche esempio.
Carlo Campogalliani è un uomo che, dal 1914 ad oggi, in ventotto anni, ha diretto una settantacinquina di film; ma egli stesso, modesto quanto laborioso, ci fa capire che non val la pena di ricordar tanti titoli e, dando un esempio di spiritosa discrezione, si limita a rammentarcene una mezza dozzina. Sulle orme di qualche storico, noi dovremmo limitarci a ricordarne uno solo, del 1914: Maciste contro la Morte . E’ un titolo perfettamente rappresentativo del genere campogallianesco e ci ricongiunge col Campogalliani bolognese, col genio della famiglia, in quanto, con un Fasulein al posto di Maciste, potreste trovarlo annunciato, in uno stampatello maiuscolo, sotto il volto del Podestà o presso un altro casottino celebre, ove un forzuto e gioviale eroe stia per accumulare cadaveri sul banco dei giudici.
Ma non è questo ancora il regista ch’io conosco. Io ricordo d’avere imparato a conoscere il regista Campogalliani nel film La lanterna del diavolo (1934). Era là la più orripilante storia di malfattori, montanari, e, poiché allora non c’era film senza un tabarin, anche quei malfattori d’alta cima avevano voluto il loro tabarin e la loro vampira. Che cosa fosse quel “paradiso artificiale” d’alta montagna, quel covo di sinistre raffinatezze, è cosa ch’io non vi saprei dire. Era un tal vertice dell’assurdo, che, per tollerante ch’io fossi, mi rivoltava e “mi ripigneva là dove ‘l sol tace”: alla prima giovinezza, cioè, al Campogalliani più vero e maggiore, quello riposante, ch’aveva lumeggiato di tanto sorriso e di tanta argentea luce i miei ricordi. Quella vamp montanara in calze di seta, dalle occhiaie bistrate, golfi della lusinga e dell’orrore! Ahi, quanto diversa dalla rosea bionda che m’aveva appreso come Fagiolino sapesse essere gaio anche ammonticchiando cadaveri, e come due amici possano amare la stessa donna e dividersela in perfetta pace, quale tenero crafen o croccante kiffel. Adorabile e profonda saggezza del Campogalliani bolognese, come mi parevi tradita dalla tetraggine, dal lugubernio del Campogalliani regista!
Fedel in questo al genio bolognese della famiglia, il Campogalliani regista è. Innanzi tutto, l’uomo che ha bisogno d’inventare il suo drammone, la sua grossa macchina: è l’uomo che ha ancora la fantasia dell’orrido: o meglio, che la ritrova in sé, sempre più infantile ed imperiosa col passare degli anni. Da giovane, si rassegnava a filmeggiare tele drammatiche come Romanticismo (1914) e, sino a pochi anni or sono, anche tele brillanti come I quattro moschettieri (1936): ma nell’ultimo cinquennio il regista Campogalliani ha bisogno di farsi un soggetto di suo gusto, di montare un gran truculento macchinone, di lugubrrizzarselo a suo talento. Quest’esigenza è diventata indeclinabile, atavica, oseremmo dire. Ma finché fantastica e soggettizza, il Campogalliani regista può dirsi ancora ispirato dal demone familiare. Il guaio serio comincia quando deve tradurla in cinema, la sua macchina, e non trova più che un’infilata d’oleografie senza colore, una più arruffata e grigia dell’altra. Piccolo, nitido boccascena dell’atavito teatrino, tutto colore, tutto scintille! Aurora sfringuellante della fantasia anche attraverso i gelidi abissi dell’orrido, dove, dove sei fuggita?
Il lugubre, il macchinoso di cotesti drammoni illividentisi scheletrizzanti nell’Artide filmistica, come cercasse di vecchie navi, fa talvolta una gran pena al cuore ansioso di farfalle solari e memore dell’antico Eliso. Eppure, anche cotesto sperduto della festa burattinesca padana, cotesto grigio naufrago dell’Artide cinematografica, ha i suoi felici momenti.
Io ho seguito con simpatia cordiale il drammone campogallianesco e più rappresentativo, Il bravo di Venezia: o, meglio, l’ho seguito con la stessa attenzione ultravigile con cui avrei potuto seguire il dramma faragginoso d’uno dei tragici elisabettiani minori. Ebbene: debbo dire che la mia attentissima simpatia ha avuto il degno premio.
Ad un certo punto, il drammone, affastellato e torvo nel suo grigiume, s’illumina. Si è nella casa del Bravo, del tremendo boia: ed il vecchio servo, che teme in ogni rumore la voce satanica d’un denunciatore che porti una nuova vittima, è pervaso da un folle orrore. Non so neppur io per quali vie del senso o dello spirito, o dell’uno e dell’altro insieme, ma è certo che la scena filmistica raggiunge qui d’improvviso l’altezza d’un vero tragico orrore. Un felice caso, forse, ha voluto che il sovraccarico d’effetti, sotto cui il lugubrizzatore stava per soffocare questa scena, non si avvertisse. Mi dicono che quel servo dovrebbe essere cieco e che questo, secondo le intenzioni del regista, dovrebbe giustificare il terrore. Ma nessuno avverte, per fortuna, cotesta cecità di cui non c’era affatto bisogno: ed il terrore, appunto perché naturale e candido, può diventar persuasivo. Una squisita lezione di semplicità attraverso quest’affastellatore ampolloso, che ha disertato il nativo piano dell’orrido infantile e trillante.
Restare infantili: è il suo imperituro segreto della forza e dell’allegria, sia, tremenda o sia leggera. Avere anche in faccia ai pedanti che riformano la lingua, il coraggio delle proprie cantonate, perché la vita è tutta una cantonata che soltanto col coraggio si raddrizza e ritrova un significato. Ecco quel genere di saggezza che manca al nostro troppo lugubre Campogalliani. Portare qua e là, accanto ai crocevia solatii, o per viali popolosi o per cortili festanti, il proprio casottino leggero, e improvvisare a cuore ugualmente leggero: ecco una gloria che il nostro regista non dovrebbe mai dimenticare quando s’accinge a coprir di negrofumo le cinematografiche superfici. Più semplicità, più festa, più sole, la semplicità del vero infantile e del vero tremendo, è quel che occorre ai suoi film. Modena e la Ghirlandina, Bologna e il Podestà: tutta a forza e la soavità della pianura padana, attraversata da un cuore in festa: ecco quel che dovrebbe sountare un certo giorno, in un film di Carlo Campogalliani.
Nel regista Campogalliani, presso alla torbida e soverchiante vena drammatica, mi par di scorgerne una più umile, più limpida, in film come Stadio e Montevergine. Questa limpidità, più franca, più scorrevole, dovrebbe, un certo giorno, prevalere. Aver tanto lavorato e non veder mai chiaro, dev’essere pur penoso anche per un lavoratore paziente come questo.
Nessuno vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva: e, soprattutto, che vada verso il popolo con una più schietta semplicità, con un più ingenuo orrido, con una più leggera fantasia.
Eugenio Giovannetti

Opere rappresentative di Carlo Campogalliani: Romanticismo, Maciste contro la Morte (1914) – Il medico per forza (1930) – La lanterna del diavolo (1931) – Stadio (1934) – I quattro moschettieri (1936) –Montevergine, La notte delle beffe (1939) – Cuori nella tormenta (soggetto e regia), Il cavaliere di Kruia (1940) - Il bravo di Venezia (soggetto e regia) (1941) – Perdizione (in lavoro).


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 5  31 GENNAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Voglio vivere così  di produzione Sangraf –Pegoraro con Silvana Jachino, Ferruccio Tagliavini, Luigi Almirante, Carlo Campanini, Giovanni, Grasso, Nino Crisma.

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