I REGISTI (senza peli sulla lingua)
CARLO
CAMPOGALLIANI
DI EUGENIO
GIOVANNNETTI
Toc, toc …,
Chi è là?
Fasulein, a barbir, il barbiere.
Aspetta ben un monumento.
Risata dei bimbi innanzi il casotto dei burattini, sotto il voltone del
Podestà, la volta nera dei secoli nel centro di Bologna. Come dimenticare
questo trillo d’argento nel segreto della metropoli rutilante dell’ Emilia?
I burattini avevano tanto da dire nella Bologna di cui eravamo
studenti, e non soltanto sotto il voltone del Podestà! Ricordo una festa in cui
il casotto dei burattini celava la contessina Isolani e Alfredo Testoni
improvvisanti innanzi ad un elegante uditorio: e quei singolari “burattini in
persona”, specialità tutta bolognese, per cui attori talvolta eccellenti
rappresentavano, burattineggiando alla perfezione, drammi e farse.
Campogalliani! Era il sovrano di quel mondo: un burattinaio celebre, che
i bolognesi consideravano come la cioccolata Maiani, insuperabil vertice della squisitezza. Il culto
per quel nome s’è allora così approfondito in me, che ad esso sento ancor
congiunto il fiore delle mie feste galanti ed il mio amore per la truculenza
burattinesca, la sola che io tolleri in quanto non retorica dell’orrido, come
la truculenza ordinaria, ma brivido fantastico e trillante sicumera.
Campogalliani: è ancora per me la festa dell’assurdo, che mi carezza il
cuore: la bionda tedesca che mi traeva al centro d’un immenso cortile
bolognese, perché le sedessi accanto e le interpretassi le facezie d’un
Fasulein che imperversava nei freddi bagliori di una lampada ad acetilene. Ah,
festa magica d’argento, degna d’un Piazzetta o d’un Guardi, innanzi ad un
drammone burattinesco, in cui Fagiolino, tra lazzi gioviali, accumulava
cadaveri, sul banco dei giudici, in nome della giustizia popolare!
Il regista Carlo Campogalliani, emiliano anch’esso, ha, senza dubbio,
qualcosa del genio della famiglia: la truculenza inventiva, la popolaresca
faraggine. Quante volte i suoi film hanno riscosso in me la nostalgia delle mie
feste galanti burattinesche di Bologna, o, più precisamente, per un eccesso di
truculenza, mi hanno costretto a rifugiarmici! Il Campogalliani regista dà un
po’ troppo nella truculenza ordinaria, nella retorica dell’odio, in quel ch’io
non amo. Mi spiegherò con qualche esempio.
Carlo Campogalliani è un uomo che, dal 1914 ad oggi, in ventotto anni,
ha diretto una settantacinquina di film; ma egli stesso, modesto quanto
laborioso, ci fa capire che non val la pena di ricordar tanti titoli e, dando
un esempio di spiritosa discrezione, si limita a rammentarcene una mezza
dozzina. Sulle orme di qualche storico, noi dovremmo limitarci a ricordarne uno
solo, del 1914: Maciste contro la Morte
. E’ un titolo perfettamente rappresentativo del genere campogallianesco e ci
ricongiunge col Campogalliani bolognese, col genio della famiglia, in quanto,
con un Fasulein al posto di Maciste, potreste trovarlo annunciato, in uno
stampatello maiuscolo, sotto il volto del Podestà o presso un altro casottino
celebre, ove un forzuto e gioviale eroe stia per accumulare cadaveri sul banco
dei giudici.
Ma non è questo ancora il regista ch’io conosco. Io ricordo d’avere
imparato a conoscere il regista Campogalliani nel film La lanterna del diavolo (1934). Era là la più orripilante storia di
malfattori, montanari, e, poiché allora non c’era film senza un tabarin, anche
quei malfattori d’alta cima avevano voluto il loro tabarin e la loro vampira.
Che cosa fosse quel “paradiso artificiale” d’alta montagna, quel covo di
sinistre raffinatezze, è cosa ch’io non vi saprei dire. Era un tal vertice
dell’assurdo, che, per tollerante ch’io fossi, mi rivoltava e “mi ripigneva là
dove ‘l sol tace”: alla prima giovinezza, cioè, al Campogalliani più vero e
maggiore, quello riposante, ch’aveva lumeggiato di tanto sorriso e di tanta
argentea luce i miei ricordi. Quella vamp montanara in calze di seta, dalle
occhiaie bistrate, golfi della lusinga e dell’orrore! Ahi, quanto diversa dalla
rosea bionda che m’aveva appreso come Fagiolino sapesse essere gaio anche
ammonticchiando cadaveri, e come due amici possano amare la stessa donna e
dividersela in perfetta pace, quale tenero crafen o croccante kiffel. Adorabile
e profonda saggezza del Campogalliani bolognese, come mi parevi tradita dalla
tetraggine, dal lugubernio del Campogalliani regista!
Fedel in questo al genio bolognese della famiglia, il Campogalliani
regista è. Innanzi tutto, l’uomo che ha bisogno d’inventare il suo drammone, la
sua grossa macchina: è l’uomo che ha ancora la fantasia dell’orrido: o meglio,
che la ritrova in sé, sempre più infantile ed imperiosa col passare degli anni.
Da giovane, si rassegnava a filmeggiare tele drammatiche come Romanticismo (1914) e, sino a pochi
anni or sono, anche tele brillanti come I
quattro moschettieri (1936): ma nell’ultimo cinquennio il regista
Campogalliani ha bisogno di farsi un soggetto di suo gusto, di montare un gran
truculento macchinone, di lugubrrizzarselo a suo talento. Quest’esigenza è diventata
indeclinabile, atavica, oseremmo dire. Ma finché fantastica e soggettizza, il
Campogalliani regista può dirsi ancora ispirato dal demone familiare. Il guaio
serio comincia quando deve tradurla in cinema, la sua macchina, e non trova più
che un’infilata d’oleografie senza colore, una più arruffata e grigia
dell’altra. Piccolo, nitido boccascena dell’atavito teatrino, tutto colore,
tutto scintille! Aurora sfringuellante della fantasia anche attraverso i gelidi
abissi dell’orrido, dove, dove sei fuggita?
Il lugubre, il macchinoso di cotesti drammoni illividentisi scheletrizzanti
nell’Artide filmistica, come cercasse di vecchie navi, fa talvolta una gran
pena al cuore ansioso di farfalle solari e memore dell’antico Eliso. Eppure,
anche cotesto sperduto della festa burattinesca padana, cotesto grigio naufrago
dell’Artide cinematografica, ha i suoi felici momenti.
Io ho seguito con simpatia cordiale il drammone campogallianesco e più
rappresentativo, Il bravo di Venezia:
o, meglio, l’ho seguito con la stessa attenzione ultravigile con cui avrei
potuto seguire il dramma faragginoso d’uno dei tragici elisabettiani minori.
Ebbene: debbo dire che la mia attentissima simpatia ha avuto il degno premio.
Ad un certo punto, il drammone, affastellato e torvo nel suo grigiume,
s’illumina. Si è nella casa del Bravo, del tremendo boia: ed il vecchio servo,
che teme in ogni rumore la voce satanica d’un denunciatore che porti una nuova
vittima, è pervaso da un folle orrore. Non so neppur io per quali vie del senso
o dello spirito, o dell’uno e dell’altro insieme, ma è certo che la scena
filmistica raggiunge qui d’improvviso l’altezza d’un vero tragico orrore. Un
felice caso, forse, ha voluto che il sovraccarico d’effetti, sotto cui il
lugubrizzatore stava per soffocare questa scena, non si avvertisse. Mi dicono
che quel servo dovrebbe essere cieco e che questo, secondo le intenzioni del
regista, dovrebbe giustificare il terrore. Ma nessuno avverte, per fortuna,
cotesta cecità di cui non c’era affatto bisogno: ed il terrore, appunto perché
naturale e candido, può diventar persuasivo. Una squisita lezione di semplicità
attraverso quest’affastellatore ampolloso, che ha disertato il nativo piano
dell’orrido infantile e trillante.
Restare infantili: è il suo imperituro segreto della forza e
dell’allegria, sia, tremenda o sia leggera. Avere anche in faccia ai pedanti
che riformano la lingua, il coraggio delle proprie cantonate, perché la vita è
tutta una cantonata che soltanto col coraggio si raddrizza e ritrova un
significato. Ecco quel genere di saggezza che manca al nostro troppo lugubre
Campogalliani. Portare qua e là, accanto ai crocevia solatii, o per viali
popolosi o per cortili festanti, il proprio casottino leggero, e improvvisare a
cuore ugualmente leggero: ecco una gloria che il nostro regista non dovrebbe
mai dimenticare quando s’accinge a coprir di negrofumo le cinematografiche
superfici. Più semplicità, più festa, più sole, la semplicità del vero
infantile e del vero tremendo, è quel che occorre ai suoi film. Modena e la Ghirlandina,
Bologna e il Podestà: tutta a forza e la soavità della pianura padana,
attraversata da un cuore in festa: ecco quel che dovrebbe sountare un certo
giorno, in un film di Carlo Campogalliani.
Nel regista Campogalliani, presso alla torbida e soverchiante vena
drammatica, mi par di scorgerne una più umile, più limpida, in film come Stadio e Montevergine. Questa limpidità, più franca, più scorrevole,
dovrebbe, un certo giorno, prevalere. Aver tanto lavorato e non veder mai
chiaro, dev’essere pur penoso anche per un lavoratore paziente come questo.
Nessuno vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva: e,
soprattutto, che vada verso il popolo con una più schietta semplicità, con un
più ingenuo orrido, con una più leggera fantasia.
Eugenio Giovannetti
Opere rappresentative di Carlo Campogalliani: Romanticismo, Maciste contro
la Morte (1914) – Il medico per forza
(1930) – La lanterna del diavolo
(1931) – Stadio (1934) – I quattro moschettieri (1936) –Montevergine, La notte delle beffe (1939) – Cuori
nella tormenta (soggetto e regia), Il
cavaliere di Kruia (1940) - Il bravo
di Venezia (soggetto e regia) (1941) – Perdizione
(in lavoro).
film SETTIMANALE
DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 5
31 GENNAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Voglio vivere così di produzione Sangraf –Pegoraro con
Silvana Jachino, Ferruccio Tagliavini, Luigi Almirante, Carlo Campanini,
Giovanni, Grasso, Nino Crisma.
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