mercoledì 12 febbraio 2020

Carmine Gallone



I REGISTI (senza peli sulla lingua)
CARMINE GALLONE
DI EUGEGIO GIOVANNETTI

Ecco finalmente la testa di Jokannan innanzi a me, nel bacile d'argento. Debbo proprio confessare che non so più che farne? Debbo proprio ammettere che nella commedia umana ci sia posto anche per una figura, o un figuro, di Salomè disillusa?
Tutto sommato, che m'aveva fatto quest'uomo, perché io ce l'avessi tanto con lui? Era stato sempre cortesissimo con me le rare volte in cui c'eravamo incontrati. In fondo, assai più che la sua persona, m'era forse ostica la baracca della Cines, in cui si esibiva: quella baracca in cui l'intellettualità di Emilio Cecchi non era che incompetenza ed il dilettantismo di Ludovico Toeplitz non era che la leggerezza pesante d'un «figlio di papà» cui papà aveva assegnato per i minuti filmistici piaceri i milioni della Banca Commerciale.
Ora che ho la sua testa sul bacile, posso pur confessarmi con perfetto candore al mio Jokannan. Ero sempre incline a giudicare con asprezza i suoi film, per due mie segrete intolleranze, contro cui, senza saperlo, egli aveva dato del capo: intolleranza per il cosmopolitismo linguistico, intolleranza per il marcantonismo estetico.
Contro la prima, egli aveva urtato col primo colpo di manovella ai tempi di «Casta diva», verso il 1935, quando, ritornato in Italia dopo una esperienza franco-tedesca che a mio parere non l'aveva messo affatto più in alto d'un Righelli o d'un Malasomma, era stato salutato improvvisamente dagli incompetenti e dai dilettanti della Cines come l'uomo dei grandi fiIm, come l'uomo del domani.
Per qual mai ragione, io mi chiedevo allora, questo regista va tanto a genio a quella gente? E fui allora invitato con molti altri al primo colpo di manovella per «Casta diva», che voleva significare una specie di giornata storica. Tutto il bel mondo era infatti là, ministri, deputati, letterati, banchieri, dame.
Dirigendo operatore e tecnici tutti a nuovo, irti e sgargianti come coleotteri, Carmine Gallone sfoderava un suo gergo da studio, franco-tedesco-inglese, col fasto con cui in altri secoli un dottore della Sorbona avrebbe sfoderato il suo scolastico latino. Quanto quella iattanza di sorbonico portiere d'albergo mi ferisse il lettore non può immaginare. Non già che io non ami il cosmopolitismo portuale a i grandi capricci orchestrali del letterario come l'«Ulysses» di Joice. Lo conosco le lingue europee e le conosco assai meglio di Carmine Gallone, ma adoro come incantevoli amanti, per le cose mirabili di cui arricchiscono la mia solitudine: e le parlo il meno possibile, perché, prima di tutto, mi rivolta l'idea che un uomo possa trovar grossolana la sua lingua nella mia bocca, e poi perché mi par che, parlandole e non essendo più creative prettamente strumentali, elle si sessualizzino e si prostituiscano.
Insomma, quell'orgia linguistica tecnico-officiosa cui il regista Gallone mi faceva assistere, mi repugnava profondamente e mi spiegava, forse a torto, perché del suo impensato troneggiare alla Cines. Ecco - io pensavo ed avevo forse torto - quel che ha dato nel genio al dilettante Toeplitzche parla anche lui familionarmenete le lingue colte d 'Europa e che concilia così floridamente nella sua persona, i quattrini d'un ebreo ed il badiale d'un frate.
Posso avere avuto torto, ripeto, e concesso troppo alle apparenze da un Iato, alle mie fobie dall'altro.
Psso aver dato troppa importanza a quel gergo da studio, necessariamente borioso quanto servile, giudicandolo dall’altezza d'una Europa adorabile di cosmopolitismo morale, qual' è quella cui io respiro: quella che va dal Montesquieu al Principe di Ligne. Ma debbo pur confessare che la sgradevolissima impressione s'acutizzò in me sino all violenza arbitraria d'un pregiudizio e che, da allora in poi, io non ho più saputo giudicare con la debita serenità un film di Carmine Gallone. Questa troppo estetica, troppo sensitiva impressionabilità, non dovrei metterla in piazza adesso, perché
mi si ritorce e m'abbaia contro come una ridicola debolezza: ma che ci fareste voi? Sono un po’ come quel barbiere bolognese, giudice ipersensitivo di cantanti, che di una celebre mezzo-soprano, di cui era infatuato, diceva: «Ha una voce ch'è una palazzina a quattro piani, col belvedere", e, quando qualche avventore, per giuoco, si provava a contraddirlo, cedeva di colpo pennello e rasoio al garzone e usciva gridando: «Continua tu, perché io non rispondo più di me».
La faccenda del marcantonismo è un po' più seria e ci porta in pieno «Scipione».
lo odio d'un odio fanatico il marcantonio, il greve, l'energetico che, sforzandosi, si teatralizza e si scorpa.
Ho scritto tulto un libro noioso sulla religione di Cesare, in odio a cotesta estetica tumefatta del Romanticismo alessandrino, che fu, ahimè, per tanti lati, la romana, e che i tempi vorrebbero ricacciarmi sott'occhio. C'è un certo ponte romano, ornato di colossali carciofi marmorei, che vorrebbero essere gruppi statuarii ed al mio stomaco danno, senza iperbole, l'oppressione e la sottile nausea d'una scorpacciata.
Per me il divino, e l'eroico stesso nel divino, è leggerezza, è luce, è quella compenetrazione dell'intelligenza e della carità, della grazia e del fuoco, che io chiamo in senso trascendente «discrezione». Nel romanesco, tuffo posso tollerare tranne il culto del forzuto smargiasso, del «greve», quel culto che la statuaria barocca, ben congiunta in questo con la decaduta imperiale, ha impercettibilmente educato e mi par di sentir rispuntare persino nel malinconioso Pinelli che s'è pur così nobilmente studiato dì veder classico e romano nel plebeo romanesco. Sì: cotesto culto del «greve», che soltanto il Belli aveva superato nel suo realismo veramente abissale, era rispuntato nella cinematografia romaneggiante del Guazzoni come nell'architettura baroccheggiante del Brasini, ed il mio incolpevole Jokannan, il mio pluriloquente Gallone, trovandolo ancora nell'aria di Roma, ci aveva dato dentro a corpo morto, lo aveva respiralo a pieni polmoni, regalandoci «Scipione».
lo so che qui il tetrarca Doletti comincerà a strillare come una gazza, altamente dolendosi d'avermi concessa la testa di questo povero Jokannan: ma io m'impegno qui onestamente di scusare la mia vittoria, di dimostrare che cotesta estetica aberrante del marcantonio non era affatto un errore suo: che ella era già nell'aria, che bisognava inalarIa dovunque, transitando pei ponti, leggendo un giornale, vedendo o rivedendo un film di soggetto romano.
Come avrebbe potuto questo disgraziato Jokannan sottrarsi alla tremenda, universa suggestione? Elefanteggiare era necessario: non vivere. Ed egli elefanteggiò, nincheggiò. marcantonizzò sino ai limiti supremi del marcantonizzabile.
Per me lo «Scipione» davvero trionfante, quello che un'arte della luce e della discrezione avrebbe sola potuto creare e mandar per tutto il mondo, non chiedeva neanche un elefante, neanche uno; ed, invece d'un energumeno, invece del solito marcantonio romanesco dei film guazzoniani, voleva un attore fine, supremamente fine, uno schermitore tra lo sdegnoso e l'elegante.
Sicuro! Tutto ci assicura che il vincitore di Zama era proprio questo: uomo di raffinatissima cultura, un sognatore supremamente discreto e singolare d'aristocratici disdegni: un uomo fine e sovrano nel fisico come nel morale, una lama d'acciaio, uscente dalla più vasta isola del sogno eroico e dell'orgoglio divino, che i tempi avessero mai creata in seno alla romanità.
Ma sento che il mio tetrarca è su tutte le furie, e mi richiama fieramente all'ordine. «Carmine Gallone - egli tuona - è un uomo che, quando vuole, sa usare mirabilmente la chiave dei grandi successi filmistici. Questo è innegabile: ed io non tollero insinuazioni su questo punto ch'è, in fondo, per un regista, l'essenziale».
Perfettamente d'accordo io mi guarderei bene dal negare che Carmine Gallone conosca le chiavi del successo e che, volendo, sappia «girarle e rigirarle sì soavi» da imprigionare il pubblico. Quel che io gli rimprovero è precisamente di non volerle mai volerle girare abbastanza, quelle famose chiavi, tant'è la sua fretta d'imprigionare il pubblico. La sua esperienza, la sua finezza, la sua duttilità, il successo di cassetta almeno, sono sempre incontestabili: ma è quasi sempre una piccola fretta smaniosa di riscuotere il successo ultrasicuro, quella che impedisce la perfetta girata di chiave, l'attenzione cioè dovuta alle arie, alla squisitezza vera, alle vere solidità e durevolezza del successo.
E' un po' la situazione di quel benemerito impeccabile mirabile sacerdote che, vantando immensi crediti, dimenticava quasi sempre i suoi piccoli debiti, e di cui un poeta romanesco diceva:
è tanto indaffarato in der riscote.
che non ci ha più un minuto per pagà.
Insomma, le grosse virtù del regista sono anche per me innegabili: quelle che mi paion dubbie sono le virtù minori, le leggere e le squisite.
Vediamo, alla prova dei fatti, nell'ultimo film «L'amante segreta».
Ecco, a primo sguardo, una virtù di primissim'ordine, che il Gallone possiede come pochi: l'arte di far figurare un'attrice. Il Gallone è il primo, tra i nostri registi, che sia riuscito a scoprire, con «Manon Lescaut», la bellezza di Alida Valli, ed anche oggi è il solo che sappia farla brillare, Nell'«Amante segreta» ha saputo veramente vagheggiarla, acconciarla con finezza. Ma è un successo da «Figaro» direte voi. Piano! E' riuscito perfino a far pettinare e vestire e gestire Vivi Gioi, e questo è un autentico portento.
Insomma, Carmine Gallone, che abbiam voluto così pervicacemente far decollare, è un regista di molte e diverse e pregevoli qualità, che non vale affatto meno d'un altro e che vorremmo ora, dopo tanto truculento e vano salomeggiare, restituire cordialmente alla vita.
Eugenio Giovannetti

Opere di Carmine Gallone: Il bacio di Cirano (1919); Amleto e il suo clown (1920); Cavalcata ardente, Terra senza donne (1929); li figlio della strada, Una notte a Parigi (1932); Una notte a Venezia (1933); E lucean le stelle, Casta diva (1935); Scipione l'Africano (1937); Solo per le, Un dramma al circo. Marionette, Giuseppe Verdi (1938); Sogno di Butterfly, Manon Lescaut (1939); Oltre l'amore, Amami Alfredo, Melodie eterne (1940); L'amante segreta, Primo amore (1941); La Regina di Navarra (1942).


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 8  21 FEBBRAIO 1942 XX

La testata si riferisce al film Fedora interpretato da Luisa Ferida, Amedeo Nazzari, Osvaldo Valenti, Rina Morelli (Prod. Consorzio Icar – Escl. Generalcine)

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