martedì 30 aprile 2019

Neorealismo in Calabria - Corrado Alvaro nascosto


La sequenza d'apertura di Patto col diavolo vale assai più come presupposto per definire un'atmosfera e per stabilire l'importanza determinante degli elementi naturali (il paesaggio vive prima ancora che ci si accorga della vita degli uomini dentro  di esso, ma quale sarà il carattere di questa vita già lo si intuisce) che non per porre le basi del dramma. L'azione - si comprende - dovrà essere regolata da questo clima di solenne compostezza e dovrà mirare a tradurlo in termini umani, in modo che fra uomo e ambiente si crei un significativo rapporto di necessità: il conflitto fra i ricchi e i poveri nasce sotto il segno d'una natura aspra e selvaggia che non sembrerebbe consentire una diversa soluzione. E, infatti, non la consente, ma non possiede peraltro la forza bastevole a imporre la sua soluzione, che è soluzione tragica e disperata. Il rapporto fra uomo e ambiente, che avrebbe dovuto essere impostato e risolto con una esattezza rigorosa, stenta a delinearsi, ed emerge solo a tratti dalla materia narrativa svolta nel lm.  Difetto, questo, non imputabile - come altri vorrebbe - alla statìcità psicologica dei personaggi, ma alla lacunosa giustificazione della presenza di questi personaggi nell'ambiente scelto.  Non risponde al vero l’affermazione che il conflitto non si sviluppi e non si concluda secondo una necessaria progressione psicologica; è piuttosto vero  il contrario, nel senso che proprio la (comprensibile) preoceupazione di evitare la statícità di cui s'è detto ha impedito di inserire adeguatamente - secondo le premesse - l'uomo nella natura e la natura nell'uomo. Il linguaggio da allusivo come avrebbe dovuto essere si fa talvolta rninutamente analitico, troppo concedendo allo scrupolo delle osservazioni particolari (senza, con questo, rifugiarsi nella cosiddetta calligrafia, in Patto col diavolo superata), e non soddisfa che in parte le esigenze del fondamentale rapporto da istituire. Cosi, l’amore tra i figli delle due famiglie antagoniste in alcuni punti si isola in se stesso e insiste su schermaglie dialogiche non opportune né risolutive; così, d'altro canto, i fattori ambientali risentono degli squilibri dell'azione e cedono, in certe pause del racconto alle lusinghe del suggestivo folclore calabrese (nel ballo all'aperto, per esempio, e nel corteo nuziale). L'inserzione del coro nello sviluppo del dramma appare, perciò, forzata e, qualche volta, dannosa al dramma stesso.  Pur essendo, sul piano assoluto dei risultati raggiunti, inferiore a La bella addormentata (che rimane, a tutt'oggi, il migliore lm di Luigi Chiarini), Patto col diavolo rappresenta un progresso sostanziale nel quadro complessivo dell’opera del regista. Il suo atteggiamento è, dopo questo lm, più facilmente individuabile, e può essere senz'altro accolto alla luce delle affermazioni che Chiarini stesso fece e sulla linea lungo la quale il suo credo estetico tende all'espressione compiuta.  Annullato il sospetto di un esperienza calligrafica fine a se stessa, illuminata meglio di quanto prima non fosse la materia più congeniale all'animo del regista, Patto col diavolo potrà costituirà una premessa per il lavoro ancora da compiere. Per quanto non riuscito nel senso che Chiarini si proponeva, il lm già mostra la possibile soluzione dei problemi espressivi che questa tendenza comporta. Primo fra tutti, quello della recitazione, che è forse il più arduo. Gli attori qui sono stati nettamente inferiori al loro compito e non hanno saputo adeguarsi (chi per mancanza di forze proprie e sufficienti, chi per palese incomprensione) al tono che si voleva imprimere al lm: la contenutezza cui hanno cercato dì ispirarsi, li soffoca e a tratti lì svuota d'ogni capacità d'emozione.  Dietro ogni espressione sfocata si intuisce quale avrebbe dovuto essere la espressione giusta, quella cui il regista mirava, e si indovina perché proprio a quella, e in quel modo, egli vi  mirasse.
FINE
Fernaldo Di Giammatteo BN BIANCO E NERO RASSEGNA MENSILE DI STUDI CINEMATOGRAFICI ANNO XI N.10 OTTOBRE 1950

giovedì 25 aprile 2019

Neorealismo in Calabria - arte?

Non essendo esaurienti le due spiegazioni che comunemente si danno, diversa e meno superficiale è la linea direttrice che dev'essere cercata nell'opera del regista. E per scoprila non sarà inutile ritornare su un motivo  polemico contingente che Chiarini ha  illustrato in un editoriale di Bianco e  Nero {e si vedrà come da questo  particolare si potrà risalire ad una posizione generale trasferibile anche sul  piano creativo): «Il neorealismo è un fatto dell'arte del lm, ma non è tutto  il lm... Non tutti sentono quella polemica, non tutti sono portati a muoversi dentro i suoi limiti, non tutti  si ispirano a quel particolare mondo che è il suo tipico mondo. Per questi artisti, che hanno altro temperamento, altre origini, altro stile, altra estetica, la legge è evidentemente un'altra ed è legge corrispondente alla loro interpretazione del fatto filmico, alla loro maniera di concepire e di esprimersi, cioè e una legge propria, egualmente legittima sul piano dell'arte e censurabile soltanto in base ai risultati estetici maggiori o minori che sa raggiungere».
Ora, se Patto coi diavolo è nato con la funzione esplicita di opporre al neorealismo inteso come fatto d'arte  (si osservi: non al neorealismo come maniera, come derivazione programmatica da un fatto d'arte) un'altra posizione che giustichi la possibilità di costruire un lm esteticamente accettabile, non sarebbe logico credere che questo fenomeno accadesse di punto in bianco, per una sollecitazione momentanea o per un semplice capriccio. L'analisi dei precedenti sta ad affermare il contrario, poiché già nella Bella addormentata lo sforzo del regista s'indirizzava, attraverso le esperienze calligrafiche di valore secondario, verso una forma d'arte di carattere meno immediato e istintivo di quella che poteva trovarsi allora in  Quattro passi fra le nuvole di Blasetti  o in Uomini sul fondo di De Robertis.  La calligrafia, intesa nel senso in cui  l’intese Chiarini, non era soltanto una  esigenza culturale ma anche un desiderio di raggiungere, (e di suscitare)  l’emozione estetica mediante un linguaggio allusivo, volto a ricreare ambiente e personaggi con un procedimento di lenta e accurata elaborazione  dei dati materiali, con una costante ricerca di un ti “effetto” complessivo che  non si esaurisse nei singoli momenti  dell'opera ma che da questi momenti  ricavasse il necessario per precisarsi meglio e per acquistare una propria  validità. Nella Bella addormentata si ebbero risultati convincenti ed a tale proposito mi sembra notevole il divario tra questo lm e Via delle cinque lune.
Su questa stessa strada si è posto Chiarini per Patto col diavolo, non senza tener conto delle mutate condizioni in cui si svolgeva il nuovo lavoro, per cui si può dire che la polemica contro il neorealismo e servita a chiarire quanto restava di oscuro e di incerto nelle sue intenzioni. (continua)

Fernaldo Di Giammatteo BN BIANCO E NERO RASSEGNA MENSILE DI STUDI CINEMATOGRAFICI ANNO XI N.10 OTTOBRE 1950

Nella foto: Saro Urzì, Umberto Spadaro, Anne Vernon, Annibale Betrone

mercoledì 24 aprile 2019

Neorealismo in Calabria - controllare la regia


Che cosa significa controllare troppo la regia, e che cosa significa che ogni sequenza è impostata sulla scorta di una rigidità piú critica che creativa? Non significa nulla. Un giudizio di tale genere non è un giudizio, è la ripetizione di un equivoco che impedisce qualsiasi esame obbiettivo, della materia di Patto col diavolo. Si ragiona pressappoco cosí: Luigi Chiarini è un teorico del cinema che nei suoi libri ha lucidamente risolto, sulla base di una concezione estetica coerente, i problemi più importanti dei lm come opera d'arte ed ha perciò dato prova, nei confronti di questi problemi, d'un acume critico indiscutibile. Per conseguenza, i suoi film non possono non essere impregnati di questo atteggiamento che con la creazione vera e propria non ha molti punti di contatto. 
«Controllare troppo la regia» equivarrebbe, dunque, a porsi in una strana posizione di indifferenza verso il film, quasi che fosse possibile comporre un racconto cinematografico ed esserne allo stesso tempo estraneo. Ma il controllo della regia non può, evidentemente, mai essere troppo o troppo poco, poiché l’autore impegna nella sua opera tutto se stesso, e questa totalità di partecipazione creativa non ê condizionata da restrizioni di quantità. Controllo può, semmai, essere sinonimo di autocritica, ma neppure l’autocritica esula dal processo creativo, ne costituisce anzi uno dei componenti essenziali. E le cosiddette «impennate che sono proprie del creatore» non debbono essere giudicate come movimenti assurdi, sfuggiti a un ipotetico controllo critico, perché nell'opera d'arte assurdità e controllo sono, in fondo,  termini senza senso. Tutto può essere, contemporaneamente, assurdo e controllato, a seconda dell'umore di chi osserva l'opera, e con questo metro non è nemmeno pensabile un’indagine critica. Maggiori probabilità di cogliere nel segno parrebbe avere l'esame di quella che nei riguardi di Chiarini si suole da parecchio tempo chiamare «calligrafia››. Fu relativamente facile parlarne al tempo della Via delle cinque  lune e della Bella addormentata, e il  rilievo non era del tutto fuori posto, allora. Ma risolve poco anche il concetto della calligrafia, troppo vago per poter spiegare la personalità di un regista. Anche qui, tirate accuratamente le somme; si scopre la persistenza (anzi, in questo caso, ia nascita) del luogo comune di cui si diceva più sopra e del semplicistico ragionamento sulla teoria e la creazione. Se per la Via delle cinque lune si poteva sostenere che la calligrafia era ne a se stessa, per La bella addormentata il discorso andava in molte parti rovesciato: l'assillo formale sottintendeva, o anche soltanto preludeva ad una precisa esigenza tematica, continuamente presente nel film. Dire che quelle due opere (e, in particolare, a mio avviso, la seconda) facevano parte di una tendenza di avanguardia in seno al cinema italiano d'anteguerra, può essere esatto soltanto se si attribuisce alla cosiddetta calligrafia una funzione in un certo modo rivelatrice di un mondo non chiuso nella contemplazione dei fronzoli stilistici. Altrimenti, l’avanguardia di quei film sarebbe stata ben poca cosa, e il concetto tornerebbe a girare a vuoto, intorno al solito equivoco della posizione teorica di Chiarini.
Fernaldo Di Giammatteo BN BIANCO E NERO RASSEGNA MENSILE DI STUDI CINEMATOGRAFICI ANNO XI N.10 OTTOBRE 1950

lunedì 22 aprile 2019

Neorealismo in Calabria


Patto col diavolo:  Origine: Italia - produzione: E.N.I.-C.  1949 - produttore: Albert Salvatori -  regia: Luigi Chiarini – soggetto: Corrado Alvaro - sceneggiatura: C.  Alvaro, L. Chiarini, Mario Serandrei, Sergio Amidei e Suso Cecchi D’Amico - fotografia: Carlo Montuori -  scenografia: Guido Fiorini - musica: Achille Longo – costumi: Maria De Matteis – attori: Isa Miranda,  Eduard Cianelli, Jacques Frangois, Ave Ninchi, Camillo Pilotto, Umber to Spadaro, Ann Vernon, Checco  Rissone, Luigi Tosi, Annibale Betrone, Guido Celano, Fiore Davanzati, Lamberfo Picasso, Nico Pepe,  Oreste Fares, Alfredo Robert.

       Molti giudizi su Patto col diavolo (e parlo soltanto dei giudizi dettati la onestà critica) appaiono irrimediabilmente viziati dalla facile condiscendenza al luogo comune. Di questo lm si è discusso troppo, e disordinatamente, tanto che riesce malagevole, a distanza di tempo, sgombrare il terreno dalle erbacce che lo infestano. In sostanza l’opinione comune appare sintetizzata in alcuni periodi d’un capitolo sul «cinema italiano del dopoguerra», pubblicato da Sequenza, che non sarà fuor di luogo riferire integralmente. « La puntuale cultura cinematografica, e non solo cinematografica di Luigi Chiarini - si legge  in quel capitolo - controlla troppo la regia e non lascia scampo a nessuna  di quelle assurde impennate che sono  proprie del creatore. Ogni sequenza, ogni inquadratura è troppo freddamente impostata sulla scorta di una rigidità più critica che creativa, e il lm, nel suo complesso, risulta privo di sensibilità, meccanico, ed eccessivamente perfetto. Però intendiamoci, rilievi simili, è soltanto possibile farli su un lm eccezionale, che non può essere trascurato data la sua personalità e che pretende, in modo assoluto, in sede critica, un metro elevato e non alla portata di tutti. Alcune sequenze, come quella iniziale, sono di una rara potenza e si sviluppano con un ritmo rigorosamente visivo, creando, senza indugio, una atmosfera ben definita. L'opera di Luigi Chiarini resta, comunque, su una posizione di punta nella eterogenee produzione cinematografica italiana del dopoguerra.
Che cosa significa controllare troppo la regia, e che cosa significa che ogni sequenza è impostata sulla scorta di una rigidità piú critica che creativa? Non significa nulla. Un giudizio di tale genere non è un giudizio, è la ripetizione di un equivoco che impedisce qualsiasi esame obbiettivo, della materia di Patto col diavolo. Si ragiona pressappoco cosí: Luigi Chiarini è un teorico del cinema che nei suoi libri ha lucidamente risolto, sulla base di una concezione estetica coerente, i problemi più importanti dei lm come opera d'arte ed ha perciò dato prova, nei confronti di questi problemi, d'un acume critico indiscutibile. Per conseguenza, i suoi film non possono non essere impregnati di questo atteggiamento che con la creazione vera e propria non ha molti punti di contatto. (continua)
Fernaldo Di Giammatteo BN BIANCO E NERO RASSEGNA MENSILE DI STUDI CINEMATOGRAFICI ANNO XI N.10 OTTOBRE 1950

giovedì 18 aprile 2019

Calabria terra bruciata



Santo Stefano, Palizzi, Condofuri
rocce sassi greti.
Sabbie inumidite dal sudore dei nudi piedi
di donne gravide affamate
fiumare assetate
prati
ove la morte dal sole arroventata
ogni filo d’erba strappò
dal vostro cielo il paradiso vi guarda.
In questa terra
dalla fiamma di ogni dolore  
di ogni amare bruciata,
anima mia
negli occhi di un fanciullo affoga.

Isa Miranda (1909 – 1982), Una formica in ginocchio, Bologna, 1957. p. 23
ripresa in ISA MIRANDA di Orio Caldiron e Matilde Hochkofler, Gremese  Editore, 1978.

La foto riporta un’immagine tratta da Patto col diavolo di Luigi Chiarini del 1949 su soggetto di Corrado Alvaro.

mercoledì 17 aprile 2019

Andrej Tarkovskij in Sicily - Taormina & Castelmola


22 July 1980, Taormina
Sunbathed. Had lunch with Rondi and his wife (I've already lunched with them twice by the swimming-pool). Walked around the town, went to look at a delightful little town on a rock (next door to Taormina).
Taormina is a wonderful place too. The sun is not at all the same here as in Rome. It's hot! I'm not feeling particularly well.
Tilda brought my things over from Rome today and left a note saying she would ring.
Missing Lara and Tyapus and Dakus dreadfully. How do they keep going without me, the darlings!
Rondi said he would telephone Fichera again, in order to find out definitely what RAI intend to do about Nostalgia.
Andrej TarkovskijThe Diaries1970-1986

martedì 16 aprile 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Il furto di Ricci


Ciò che figurativamente colpisce nel cinema di De Sica è la cura straordinaria posta nella costruzione dell'inquadratura nel momento- fulcro relativo al problema umano e morale del protagonista. Ovvero, l'attenzione compositiva tutta tesa a creare un’immagine che sia di per sé eloquente correlativo oggettivo dell'isolamento del personaggio. Uno degli esempi più chiari è senza dubbio in Ladri di biciclette.
La sequenza è quella del furto di Ricci, vale a dire il punto d'arrivo verso il quale tutte le linee portanti del film avevano teso fino a quel momento. Disperato, il protagonista si imbatte in un deposito di biciclette fuori dallo stadio esultante. A lui il divertimento è precluso perché è precluso il lavoro, la speranza di una vita vissuta in modo più umano, la sicurezza che quel piccolo impiego gli aveva in un primo tempo concesso. Il furto subito è stato una sorta di ritorno alla realtà, o meglio, l’occasione di verificare l'indifferenza, l’ottusità, la brutalità, la menzogna, la crudeltà della città, del gruppo, della società. Lì, davanti allo stadio, la prima epifania, l'improvviso pensiero che un modo ancora c'è per risolvere la sua disperata situazione, il suo problema di uomo e di lavoratore: le biciclette se ne stanno ammassate l'una all‘altra, un groviglio di ferro inestricabile, basterebbe allungare una mano ed una di esse ne uscirebbe fuori senza che l'insieme ne venisse in qualche modo diminuito, senza che nessuno potesse accorgersi del furto. La trovata è di una formidabile profondità psicologica naturalmente il furto è impossibile, trattandosi di un deposito custodito, ma il momento è perfettamente la dimensione psicologica che rende possibile, fattibile il furto come atto in sé agli occhi del protagonista. Poi, il secondo momento. Ricci vede  una  bicicletta appoggiata all'esterno di un portone [e il pensiero dello spettatore corre subito al momento in cui, accompagnata la moglie dalla veggente, il protagonista aveva lasciato allo stesso modo la sua bicicletta sulla strada, chiedendo a un ragazzo di darle un'occhiata mentre lui si assentava e creando, fra l'altro, un momento di notevole suspense , subito ridimensionato dalla presenza del veicolo,  scoperto con calcolata indifferenza dalla macchina da presa che aveva accompagnato alla uscita marito e moglie già per le scale interne dell'edificio). Allontanato con una scusa il figlio, l'uomo si avvicina alla bicicletta: l’inquadratura è perfetta, gli elementi che la compongono, essenziali. L'ala dell‘edificio che sta alle spalle del protagonista presenta una sostanza geometrica non casuale: balconi, finestre, spigoli, grondaia, intelaiatura del portone, l'inquadratura è fatta di una serie di linee geometriche la cui funzione è quella di staccare il protagonista dallo sfondo, isolarlo nel gesto del furto, evidenziarne la situazione psicologica e morale. L'uomo non ha sullo sfondo una casa o un muro, ma, appunto, una serie di linee, verticali e orizzontali che si intrecciano in senso normale e che fungono da antitesi figurativa all'uomo e all'oggetto, al puro fine di isolarli nel momento culminante del problema di fondo, nella scelta etica imposta dalla disperazione. E‘ certo un momento di grande bellezza, poiché in esso la costruzione figurativa diventa, come si diceva, segno della situazione morale e umana (si noti, fra l'altro, che a differenza del ladro che gli ha rubato il suo veicolo, l‘uomo si dà alla fuga dirigendosi per una strada in leggera salita, ad indicare ulteriormente non soltanto la sua ingenuità, ma soprattutto, attraverso di essa, la sua sostanziale estraneità morale di fondo all’atto che ha compiuto].
Una scena simile è rintracciabile più di una volta nel cinema di De Sica. In Sciuscià, per esempio, quando la macchina da presa inquadra il ragazzo seduto insieme al malatino napoletano sulla panchina del cortile della prigione durante l'ora di ricreazione. Pasquale è stato appena accusato di tradimento da Giuseppe e il suo isolamento morale e ben indicato, secondo il medesimo procedimento compositivo della scena del furto in Ladri di biciclette, dalle linee geometriche della panchina e del muro di fondo dalle quali, per così dire, emerge   isolato il personaggio {qui, anzi, la presenza del malatino contribuisce a rafforzarne ancor più l'isolamento, dal momento che l'unica persona che ne accetta la vicinanza è un bambino che è l'immagine stessa della solitudine, e virtualmente un morto]. Oppure ancora, in Umberto D., in una scena che già abbiamo citato e che è uno dei culmini dell'atroce peripezia morale del protagonista, Umberto ha appena deciso di abbassarsi all'umiliazione della carità (lui, per anni è un funzionario dello Stato] e ad evidenziare la sua tragica decisione si innalza alle sue spalle la possente verticalità del Pantheon, a ridurne la figura a dimensioni microscopiche, a minacciarne la dimensione di uomo povero, afflitto, disperato.
Sono momenti esemplari, questi, nel cinema di De Sica, e momenti nei quali |'impiego dello spazio si svela come il protagonista figurativo di tutta l'opera in quanto suo catalizzatore emozionale, elemento compositivo che evidenzia, ingigantisce e finalmente fa esplodere la problematica dei protagonisti. (continua)
Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975


mercoledì 10 aprile 2019

Natural Born Killing


The Killing of America (1982) di Sheldon Renan e Leonard Schrader è un'opera crudele, come crudele è stata la vita con le vittime e i carnefici suoi protagonisti. Essa ancora è un'ulteriore conferma della genialità del cinema di Leonard & Paul Schrader da The Yakuza (1974) a Naked Tango (1990), da (1976) Taxi Driver a Fist Reformed (2017).
America is the only industrialized nation with a higher murder rate than countries ravaged by civil wars, like Cambodia or Nicaragua. There is an attempted murder every 3 minutes and murder victim every 20 minutes. Japan, England and West Germany with a combined population equal to America have 6,000 murders a year and America has 27,000 a year. https://topdocumentaryfilms.com/killing-america/
Opening with a juxtaposition of real-life footage of a man being shot to death by law enforcement and the flowing stars of the American flag. https://www.thefilmagazine.com/the-killing-of-america-1981-review/
"The project really was conceived by Leonard Schrader. It was his vision. He started it and he finished it. He didn't happen to direct it, because he wasn’t a director at the time". Shldon Renan https://thequietus.com/articles/21395-killing-of-america-interview

Nella foto Leonard Schrader con il pruliomicida di Santa Crus Ed Kemper http://www.leonardschrader.com/


Leonard Schrader
1946 - 2006

martedì 9 aprile 2019

Detective Thriller - Spellbound

Spesso le funzioni del «detective » e quelle dello psicanalista sono riunite in un personaggio unitario: la dottoressa Costance Peterson [Ingrid Bergman) di Spellbound (1945, lo ti salverò) di Altred Hitchcock. Non di rado la convergenza avviene in nome del dilettantismo esercitato in entrambi i campi il Mark Rutland [Sean Connery) di Marnie (1964), sempre di Alfred Hitchcock. E in un caso come nell’altro la loro funzione è quella di provocare la scarica emotiva o abreazione dei loro « protegés ››, rispettivamente John Ballantine [Gregory Peck), affetto da amnesia, e Marnie Edgar (Tippi Hedren), affetta dia cleptomania e frigidità. Si tratta dunque di interventi salutari.
Ma ci sono casi in cui conoscenza e teorizzazione non sanno di simulare la Iorio derivazione da Satana, in nome di queIl’anti-intellettualismo che costituisce una caratteristica prevalente del cinema hollywoodiano classico e dell'anima americana: fin dalla prima inquadratura Laura (1944, Vertigine) di Otto Preminger (da un romanzo di Vera Casparyl, con una panoramica lungo una serie di scaffali occupati da « objets d’art ››, ci introduce nell'universo del freddo e cinico « testa d’uovo›› divenuto assassino per gelosia, Waldo Lydecker [Clifton Webb). Così come il lato investigativo e deduttivo di ogni « detective story » ha bisogno di un apporto di violenza, così come un evento sanguinoso ha bisogno del contributo di un'intelligenza al lavoro che lo nobiliti, ogni rompicapo necessita di un talento sinistro e compulsivo [lo stesso investigatore di Laura, Dana Andrews, non è esente da una certa indulgenza nei confronti della necrofilia). (continua)
Franco Ferrini, I GENERI CLASSICI DEL CINEMA AMERICANO, BIANCO E NERO, 1974 Fascicolo ¾

giovedì 4 aprile 2019

Who is to judge?



A judge can do whatever he wants with the life of others.
Nobody is telling the truth here.
Who decides, who is to judge?
Hirokazu Koreeda, The Third Murder, 2017


mercoledì 3 aprile 2019

Uncertainty... Certainty



Uncertainty...
That is appropriate for matters of this world.
Only regarding the next are we vouchsafed certainty.
I believe certainty regarding that which we can see and touch, it is seldom justified, if ever.
Down the ages, from our remote past, what certainties survive?
And yet we hurry to fashion new ones.
Wanting their comfort.
Certainty ... is the easy path.
Just as you said.
"Straight is the gate...
And narrow the way."

L'incertezza... è appropriata, per le questioni di questo mondo.
Solo riguardo al prossimo ci è concesso avere certezze.
Credo che la certezza riguardo a ciò che possiamo vedere e toccare è di rado giustificata, se lo è mai.
Nel corso dei secoli, dal nostro remoto passato che certezze sopravvivono?
Eppure ci affrettiamo a crearne di nuove.
In cerca di conforto.
La certezza ... è il percorso più facile
Come hai detto.
"Stretta è la porta...
...ed angusta la via."
Joel & Ethan Coen,  The Ballad of Buster Scruggs, 2018

lunedì 1 aprile 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - spazio aperto, spazio chiuso


L'umile, il povero, il reietto non partecipa della stratificazione storica e culturale della città: la storia della città borghese non è la sua. Suo è soltanto il numero nella sua asetticità, nella sua neutralità culturale. Ogni retorica è programmaticamente estranea alla città alternativa [“un luogo dove buongiorno vuole veramente dire buongiorno »...]; non c’è storia, tradizione, costume che la fondi, che stratifichi sul povero la polvere delle convenzioni {e si pensi, in questo senso, anche alla formidabile carica di estraneità del CoIosseo sullo sfondo della triste marcia del muratore scacciato con il suo materiale e le sue cose in II tetto. La bellezza non si misura sul terreno della funzionalità architettonica e della complessità estetica, ma sul fascino della giovinezza, della grazia, della purezza (la statua). Ma anche quello spazio mostra presto il suo risvolto. La città alternativa non si libera dal vizio delle regole sociali di classe; e se pure differenze reali di classe non sussistono, ne permangono però le sovrastrutture, le apparenze. Il conflitto stesso per la statua è una sorta di preannuncio della fine, cosi come l'arrivo della famiglia borghese con  tanto di domestica
[e non a caso Totò —- un vero e proprio Galahad del Graal della umiltà — si innamorerà di quest'ultima), o, ovviamente, la presenza del petrolio, un petrolio, però, che ha la stessa trasparenza dell'acqua, a sottolinearne il valore simbolico di elemento essenziale, naturale che esso ha per i semplici abitanti dell‘Anticittà. Ed è proprio alla natura che faranno ricorso i poliziotti di Mobbi mimetizzati con fili d'erba mentre avanzano sullo sfondo lontano, imponente e maligno della metropoli, chiamati dal sicofante Rappi, altro catalizzatore della sconfitta inevitabile della nuova comunità. L'unico, vero spazio alternativo allora è il cielo, l'infinito, il superamento totale, assoluto della dimensione stessa della città, lo spazio che soltanto la favola di Miracolo a Milano può elargire ai diseredati. Ma nel cinema di De Sica solo Miracolo a Milano impiega la dimensione della favola. E anche una città che tanto di favola potrebbe avere [sia pure nei termini corposi, sapidi, nervosi e gesticolanti che le sono propri], Napoli, rientra invece nel quadro dolente e sofferto, spesso tragico, che è la dominante del cinema di De Sica. La città di L‘oro di Napoli (1954) potrà anche assumere aspetti colorati, sgargianti — secondo una tradizione narrativa che va almeno da Mastriani a Marotta — ma la sua più sincera realtà è rinchiusa nei limiti angusti e profondissimi del dolore, dell'umiliazione. L‘episodio del “pazzariello” ne è ottimo esempio. In esso il dramma è giocato una volta ancora sull'opposizione fra spazio chiuso e spazio aperto, sulla perdita del proprio luogo che rivela la sostanza umana e morale dello spazio e, dall'altro lato, sull'apparenza gioiosa, festiva dello spazio esterno, lo spazio della città e della tradizione [sia pure una tradizione tutta partenopea] che è in realtà specchio perfetto della propria miseria e della propria sconfitta. Non c'è libertà, non c'è affrancamento dalla propria umiliazione nel pover’uomo bardato a festa più di quanta non ve ne sia fra le mura della sua casa usurpata. La sua festività è falsa come la sua remissione; anzi, essa “è” la sua remissione. E solo un rifiuto di essa potrà riscattarne la vergogna. Per non dire della complessa dialettica spaziale e — occorre ormai aggiungerlo? — psicologica e morale dell'episodio della prostituta. Da un Iato la strada, la città nel suo aspetto più triste e degradante, la vergogna, la miseria, l'abiezione, dall‘altro la casa sontuosa dell'aristocratico, lo spazio antitetico della salvezza, del riscatto, la promessa di un decoro, di un orgoglio che permetta di dimenticare. Ma i due spazi morali sono inconciliabili, il disegno dell'uomo si rivela per quello che è, un solco ancor più profondo tracciato fra i due: e la donna, che ha partecipato, conosciuto il superamento morale e umano dell'antitesi dopo averne vissuto fino in fondo il dramma, si ritrova al punto di partenza dopo un'ultima, finale umiliazione. In questo contesto la risoluzione non può essere altro che la morte dell'altra vita, o più specificamente, l'accettazione del disegno dell'uomo come superamento del limite stesso cui la vita della donna è giunta: insomma, una morte metaforica del vecchio “sé” per rinascere nell'odio come donna e non come prostituta 13. Ecco quindi che l’antitesi fra spazio aperto e spazio chiuso non si presenta secondo una precisa e limitante direzione univoca, ma articolata a sua volta secondo una piccola grammatica dei valori: Io spazio aperto e Io spazio chiuso di Sciuscià è evidente, non sono affatto comparabili, ma anzi sono direttamente antitetici, a quelli testé indicati in L’oro di Napoli. Da un Iato, infatti, sta lo spazio aperto in quanto spazio naturale, termine inconfondibile di libertà e umanità; dall‘altro, Io spazio aperto della città, Io spazio cioè della sconfitta e dell’umiliazione, della solitudine e dell'incomprensione, Io spazio della prostituta di L'oro di Napoli, delle peregrinazioni di Umberto D., del Ricci di Ladri di biciclette, della coppia di Il tetto. A sua volta lo spazio chiuso si articola secondo un'opposizione chiara e sofferta: Io spazio-salvezza della casa, del riscatto, il rifugio della propria vita (la camera di Umberto, la casa di Il tetto e quella di certi personaggi di L'oro di Napoli, ecc.) e Io spazio chiuso inteso come la dimensione della segregazione che non è solo la prigione di Sciuscià o il cellulare dello stesso film, di Miracolo a Milano, di Umberto D., ma anche la dimensione claustrofobica di certe strade, di certi portoni, delle istituzioni stesse della città-società. Serie di opposizioni che schematicamente si configura:

dove, naturalmente, i termini di spazio privato e spazio istituzionale si presentano volta a volta secondo una serie di varianti. Rispettivamente: camera, casa, ecc. e prigione, cellulare (ma anche spazio angusto, ristretto della città), ecc. (continua)
13 Per una breve ma profonda analisi dell'aspetto psicologico della scelta di Teresa cfr. André Bazin:  “Qu'est-ce que le cinéma? », cit., p. 11.

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975