L'umile, il povero, il reietto non partecipa della stratificazione
storica e culturale della città: la storia della città borghese non è la sua.
Suo è soltanto il numero nella sua asetticità, nella sua neutralità culturale.
Ogni retorica è programmaticamente estranea alla città alternativa [“un luogo
dove buongiorno vuole veramente dire buongiorno »...]; non c’è storia, tradizione,
costume che la fondi, che stratifichi sul povero la polvere delle convenzioni
{e si pensi, in questo senso, anche alla formidabile carica di estraneità del CoIosseo
sullo sfondo della triste marcia del muratore scacciato con il suo materiale e
le sue cose in II tetto. La bellezza
non si misura sul terreno della funzionalità architettonica e della complessità
estetica, ma sul fascino della giovinezza, della grazia, della purezza (la
statua). Ma anche quello spazio mostra presto il suo risvolto. La città alternativa non si libera dal vizio delle regole sociali di classe; e se pure
differenze reali di classe non sussistono, ne permangono però le
sovrastrutture, le apparenze. Il conflitto stesso per la statua è una sorta di
preannuncio della fine, cosi come l'arrivo della famiglia borghese con tanto di domestica
[e non a caso Totò —- un vero e proprio Galahad del Graal
della umiltà — si innamorerà di quest'ultima), o, ovviamente, la presenza del
petrolio, un petrolio, però, che ha la stessa trasparenza dell'acqua, a sottolinearne
il valore simbolico di elemento essenziale, naturale che esso ha per i semplici
abitanti dell‘Anticittà. Ed è proprio alla natura che faranno ricorso i
poliziotti di Mobbi mimetizzati con fili d'erba mentre avanzano sullo sfondo
lontano, imponente e maligno della metropoli, chiamati dal sicofante Rappi,
altro catalizzatore della sconfitta inevitabile della nuova comunità. L'unico,
vero spazio alternativo allora è il cielo, l'infinito, il superamento totale,
assoluto della dimensione stessa della città, lo spazio che soltanto la favola
di Miracolo a Milano può elargire ai
diseredati. Ma nel cinema di De Sica solo Miracolo
a Milano impiega la dimensione della favola. E anche una città che tanto di
favola potrebbe avere [sia pure nei termini corposi, sapidi, nervosi e
gesticolanti che le sono propri], Napoli, rientra invece nel quadro dolente e
sofferto, spesso tragico, che è la dominante del cinema di De Sica. La città di
L‘oro di Napoli (1954) potrà anche
assumere aspetti colorati, sgargianti — secondo una tradizione narrativa che va
almeno da Mastriani a Marotta — ma la sua più sincera realtà è rinchiusa nei limiti
angusti e profondissimi del dolore, dell'umiliazione. L‘episodio del “pazzariello”
ne è ottimo esempio. In esso il dramma è giocato una volta ancora sull'opposizione
fra spazio chiuso e spazio aperto, sulla perdita del proprio luogo che rivela
la sostanza umana e morale dello spazio e, dall'altro lato, sull'apparenza
gioiosa, festiva dello spazio esterno, lo spazio della città e della tradizione
[sia pure una tradizione tutta partenopea] che è in realtà specchio perfetto
della propria miseria e della propria sconfitta. Non c'è libertà, non c'è
affrancamento dalla propria umiliazione nel pover’uomo bardato a festa più di
quanta non ve ne sia fra le mura della sua casa usurpata. La sua festività è
falsa come la sua remissione; anzi, essa “è” la sua remissione. E solo un
rifiuto di essa potrà riscattarne la vergogna. Per non dire della complessa
dialettica spaziale e — occorre ormai aggiungerlo? — psicologica e morale dell'episodio
della prostituta. Da un Iato la strada, la città nel suo aspetto più triste e
degradante, la vergogna, la miseria, l'abiezione, dall‘altro la casa sontuosa
dell'aristocratico, lo spazio antitetico della salvezza, del riscatto, la
promessa di un decoro, di un orgoglio che permetta di dimenticare. Ma i due
spazi morali sono inconciliabili, il disegno dell'uomo si rivela per quello che
è, un solco ancor più profondo tracciato fra i due: e la donna, che ha
partecipato, conosciuto il superamento morale e umano dell'antitesi dopo averne
vissuto fino in fondo il dramma, si ritrova al punto di partenza dopo
un'ultima, finale umiliazione. In questo contesto la risoluzione non può essere
altro che la morte dell'altra vita, o più specificamente, l'accettazione del
disegno dell'uomo come superamento del limite stesso cui la vita della donna è
giunta: insomma, una morte metaforica del vecchio “sé” per rinascere nell'odio
come donna e non come prostituta 13. Ecco quindi che l’antitesi
fra spazio aperto e spazio chiuso non si presenta secondo una precisa e
limitante direzione univoca, ma articolata a sua volta secondo una piccola grammatica
dei valori: Io spazio aperto e Io spazio chiuso di Sciuscià è evidente, non sono affatto comparabili, ma anzi sono
direttamente antitetici, a quelli testé indicati in L’oro di Napoli. Da un Iato, infatti, sta lo spazio aperto in quanto
spazio naturale, termine inconfondibile di libertà e umanità; dall‘altro, Io
spazio aperto della città, Io spazio cioè della sconfitta e dell’umiliazione,
della solitudine e dell'incomprensione, Io spazio della prostituta di L'oro di Napoli, delle peregrinazioni di
Umberto D., del Ricci di Ladri di biciclette, della coppia di Il tetto. A sua volta lo spazio chiuso
si articola secondo un'opposizione chiara e sofferta: Io spazio-salvezza della casa,
del riscatto, il rifugio della propria vita (la camera di Umberto, la casa di Il tetto e quella di certi personaggi di
L'oro di Napoli, ecc.) e Io spazio
chiuso inteso come la dimensione della segregazione che non è solo la prigione
di Sciuscià o il cellulare dello stesso
film, di Miracolo a Milano, di Umberto D., ma anche la dimensione
claustrofobica di certe strade, di certi portoni, delle istituzioni stesse
della città-società. Serie di opposizioni che schematicamente si configura:
dove, naturalmente, i
termini di spazio privato e spazio istituzionale si presentano volta a volta secondo
una serie di varianti. Rispettivamente: camera, casa, ecc. e prigione,
cellulare (ma anche spazio angusto, ristretto della città), ecc. (continua)
13 Per una breve ma
profonda analisi dell'aspetto psicologico della scelta di Teresa cfr. André
Bazin: “Qu'est-ce que le cinéma? »,
cit., p. 11.
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