giovedì 16 aprile 2015

Le dive dei nostri nonni (3)


La grande epoca del film muto si può nettamente circoscrivere dal 1919 al 1929; furono dieci anni giusti in cui sbocciarono almeno venti capolavori. Dieci anni giusti: prima c’erano state l’invenzione, la ricerca tecnica, la guerra, e dopo ci fu la parola. Ma in quei dieci anni il cinema visse una vita intensissima e memorabile, in un’attività che lasciò il suo segno su tutta una generazione.
L'Europa politicamente era in pace, ma in compenso era ricca di tutte le nevrosi; il cinema ebbe la funzione di purificare l’ambiente, di immettere un soffio d'aria pura in un clima viziato anche intellettualmente dalla cocaina, dalle donne vestite da uomini e dagli uomini acconciati da donne, dalle più disparate avanguardie e dall’anarchismo degli snob. In compenso non era ancora stupido, ipocrita e borghese. Agì con straordinaria potenza sui ceti spiritualmente più liberi e puri della società, sul popolo e sugli intellettuali.
Sul popolo perché il popolo trovava finalmente, dopo il melodramma ottocentesco, uno spettacolo fatto per lui; sugli intellettuali perché il cinema veniva loro in aiuto, li liberava da complessi irreali o malvagi, fugava sentimenti corrotti e convenzionali, offrendo una nuova, rivoluzionaria dimensione della realtà.
Fu allora che i più inquieti tra gli intellettuali si rovesciarono sul nuovo mezzo espressivo: << clowns ›› mezzo falliti come Chaplin, giornalisti nauseati del lavoro notturno come Clair, pittori senza dipinti, musici senza ispirazione, tutti i refrattari dell'inquietissimo dopoguerra, i Murnau, gli Sternberg, i Pabst, gli Stroheim, i Dupont, i Feyder, si trovarono presenti all’adunata, fioriti dai climi spirituali più diversi, dalle geografie più appartate. Diventarono un gruppetto di maestri.
Come al tempo delle antiche poetiche, il limite (leggi, per il cinema, l’assenza della parola) servì l'arte egregiamente. Costretto a esprimersi senza le facili risorse verbali, il cinema fu rapido, allusivo, implacabile. Costretto al silenzio, trovò un suo originale linguaggio per esprimersi.
Intanto, dall'altra parte della barricata, assistevano al miracolo gli adolescenti cui la nuova civiltà, in mezzo a tante miserie, offriva un compenso che tutte le riscattava; la prima generazione cresciuta spiritualmente nel buio dei cinematografi, non perderà più quella impronta. La critica degli spettacoli cinematografici nacque molto tardi da noi; la ricerca del buon film richiedeva agli appassionati finezze che appartenevano più all’arte dei segugi che alla preparazione filologica, finezze che risulterebbero incredibili ai giovani esteti di oggi che discutono per colonne di stampa in corpo sei su De Sica come direttore artistico. Le pellicole arrivavano da fuori con titoli incredibili, con storpiati i nomi degli attori, mentre il nome del regista mancava regolarmente sui manifesti e sui cartelloni pubblicitari, e qualche volta anche al principio dell’opera. D'altra parte l'abbondanza del prodotto e l’estrema variabilità dei gusti del pubblico
creavano confusioni indicibili; mentre proprio da noi, con un gruppetto di splendide attrici, veniva inventato il divismo.
Oh, la patetica confusione che nasceva allora tra il prodotto di casa nostra, a sfondo letterario e sessuale, cui ci sentivamo legati come da un materno cordone ombelicale, e i liberi fantasmi di fuori! Anche recentemente una fotografia di Francesca Bertini, che abbiamo vista riprodotta su una rivista di lusso, ha avuto il potere di toccare un cuore che non è più tenero come allora.
                                                                                                                                                           1950

Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972


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