Con Le notti di Cabiria
Fellini, per la prima volta, ha saputo cucire una sceneggiatura con mano da
maestro, un’azione senza pecche, senza ripetizioni e senza lacune, in cui non
potrebbe operare gli oscuri tagli e le rettifiche di montaggio a cui furono
sottoposti La strada e Il bidone. Certo, Lo sceicco bianco e anche I
vitelloni non erano costruiti male, ma soprattutto nella misura in cui la
tematica specificatamente felliniana vi si esprimeva ancora nel quadro di
sceneggiature relativamente tradizionali. Con La strada queste ultime stampelle
vengono gettate via, la storia non viene più determinata che dai temi e dai
personaggi, essa non ha più niente a che vedere con quello che si dice un
intrigo, se pure la parola “ azione “ gli è ancora applicabile! Lo stesso vale
per Il bidone.
Le notti di Cabiria si situa
al di là de Il bidone, ma le
contraddizioni fra quella che definirei la tematica verticale dell’autore e le
esigenze “ orizzontali “ del racconto sono, stavolta, perfettamente risolte.
Nella Strada, come nel Bidone, il tempo esiste solo come
cornice amorfa degli avvenimenti che modificano, senza necessità esterna, il
destino dei protagonisti. Gli avvenimenti non “ succedono “, essi accadono, o
sorgono, cioè sempre secondo una gravitazione verticale e non per obbedire alle
leggi di una casualità orizzontale.
Fellini ha saputo dare al suo film la tensione e il rigore di una
tragedia, senza ricorrere a catgorie estranee al suo universo. Cabiria, la
piccola prostituta dall’anima semplice e
dalla speranza radicata, non è un personaggio del repertorio melodrammatico,
perché le motivazioni del suo desideri odi “ uscirne “ non hanno niente a che
vedere con gli ideali della morale o della sociologia borghese, almeno in
quanto tali. Essa non disprezza affatto il suo mestiere. E se esistessero dei
ruffiani dal cuore puro capaci di comprendervi e di incarnare non l’amore ma la
fiducia nella vita, essa non vedrebbe senza dubbio alcuna incompatibilità fra
le sue speranze segrete e le sue attività notturne. Una delle sue grandi gioie,
seguita da una tanto più amara delusione, non la deve forse all’incontro
fortuito di una celebre vedette cinematografica che, per ubriachezza e ripicco
amoroso, la porterà nel suo sontuoso appartamento? Di che far morire di gelosia
tutte le colleghe. Ma l’avventura finirà pietosamente, ed è perché, in fondo,
il mestiere di prostituta non riserva in pratica che delusioni, che essa si
augura, più o meno coscientemente, di uscirne attraverso l’impossibile amore di
un bravo ragazzo che non le chiederà nulla.
Le notti di Cabiria come La strada, come Il bidone ( e in fondo come I
vitelloni), sono la storia di un’ascesi, di una depurazione e , in
qualsiasi senso la s’intende, di una salvezza. La bellezza e il rigore della
sua costruzione derivano stavolta derivano
dalla perfetta economia degli episodi. Ognuno di essi, come ho detto, prima
esiste da e per se stesso, nella sua
singolarità e nel carattere pittoresco dei suoi avvenimenti, ma partecipa
stavolta di un ordine che fa sempre apparire, successivamente, la sua assoluta
necessità. Dalla speranza all’aspettativa, toccando il fondo del tradimento,
della derisione e della miseria, Cabiria segue un cammino di cui tutte le tappe
la preparano alla tappa che l’aspetta. A rifletterci bene, anche l’incontro col
benefattore dei mendicanti, la cui intrusione non sembra a prima vista che uno
splendido pezzo di bravura felliniana, finisce per rivelarsi necessario per
prendere poi Cabiria nella trappola della fiducia.
E’ assurdo e irrisorio pretendere di escluder(e) lo stile di Fellini
dal neorealismo. Il realismo felliniano, se è sociale nel suo punto di
partenza, non lo è nel suo oggetto, che è sempre altrettanto individuale che in
Cechov o in Dostoevskij. Ciò che De Sica
ha di comune con Rossellini e Fellini non è certo il significato profondo dei
suoi film – anche quando avviene che questi significati più o meno coincidano –
ma il primato dato negli uni come negli altri alla rappresentazione della
realtà rispetto alle strutture drammatiche. Più precisamente ad un “ realismo “
che deriva insieme dal naturalismo romanzesco, per il contenuto, a dal teatro,
per le strutture, il cinema italiano ha sostituito un realismo, diciamo, per
essere sintetici, “ fenomenologico “, in cui la realtà non è corretta in
funzione della psicologia e delle esigenze del dramma. Il rapporto fra il senso
e l’appartenenza si trova così in qualche modo ribaltato: questa ci è sempre
proposta come una scoperta singolare, una rivelazione quasi documentaria che
conserva il suo peso di pittoresco e di dettagli. L’arte del regista risiede
allora nella sua abilità nel far sorgere il senso di questo avvenimento, o
almeno quello che egli gli presta, senza per questo cancellarne le ambiguità.
Il neorealismo così definito non è dunque di una determinata ideologia o di un
determinato ideale, così come non ne esclude un altro, non più di quanto
appunto la realtà non sia esclusiva di qualcosa.
Ciò che non sono poi tanto lontano dal pensare che Fellini è il regista
che attualmente va più in là nell’estetica neorealista, tanto in là da
traversarla e dal trovarsi dall’altra parte.
Consideriamo innanzitutto fino a che punto la regia si è sbarazzata di
ogni sequela psicologica. I suoi personaggi non si definiscono mai per il loro
“ carattere “ ma esclusivamente per la loro apparenza. Evito volutamente il
termine divenuto troppo ristretto di “ comportamento “, poiché il modo di agire
dei personaggi non è che uno degli elementi di nostra conoscenza. Li cogliamo
da ben altri segni, non solo, beninteso, dal volto, dal passo, da tutto ciò che
fa del corpo la scorza dell’essere, ma più ancora forse da degli indizi più
esteriori, dalla frontiera fra l’individuo e il mondo, come i capelli, i baffi,
il vestito, gli occhiali (il solo accessorio a cui succeda a Fellini di abusare
come di un espediente). Poi, ancora oltre, è la scenografia allora ad avere un
ruolo, non certo in senso espressionista, ma per gli accordi o i disaccordi che
si stabiliscono fra l’ambiente e il personaggio. Penso in particolare agli
straordinari rapporti di Cabiria con la cornice in abituale in cui Nazzari l’ha trascinata: cabaret e appartamento di
lusso …
Ma è qui che tocchiamo la frontiera del realismo e che, spingendo
ancora più lontano, Fellini ci porta dall’altro lato. Tutto avviene infatti
come se, giunto a questo grado di interesse nei confronti delle apparenze,
cogliessimo adesso i personaggi non più fra gli oggetti, ma per trasparenza,
attraverso di essi. Voglio dire che insensibilmente il mondo è passato dalla
significazione all’analogia, poi dall’analogia all’identificazione col
soprannaturale. Mi dispiace questa parola equivoca che il lettore può
sostituire con poesia, surrealismo, magia o qualsiasi altro termine che esprima
la concordanza segreta delle cose con un doppio invisibile di cui esse non
sono, in un certo senso, che l’abbozzo.
Di questo processo di “ sovrannaturalizzazione “ prenderò un esempio,
fra altri, nella metafora dell’angelo. Fin dai suoi primi film, Fellini è
ossessionato dall’angelizzazione dei suoi personaggi, un po’ come se lo stato
angelico fosse nell’universo felliniano il riferimento ultimo, la misura
dell’essere. Se ne può seguire il percorso esplicito almeno a partire dai Vitelloni: per il carnevale, Sordi si
traveste da angelo custode; un più tardi
è come per caso una statua di angelo scolpito in legno che ruba Fabrizi. Ma
queste allusioni sono dirette e concrete. Più sottile, e tanto più interessante
in quanto probabilmente inconscia, è l’immagine in cui vediamo il frate
scendere dall’albero su cui lavorava e caricarsi sulle spalle una fascina di
legna. Questo gesto non era latro che una graziosa annotazione realistica anche
per Fellini, finché non vediamo alla
fine del Bidone, Augusto agonizzante
sul bordo della strada: intravede nella blanda luce dell’alba un corteo di
bambini e di contadine che portano sulle spalle delle fascine di legna: passano
gli angeli! Bisogna anche ricordare, nello stesso film, la maniera in cui
Picasso scende una strada facendo alucce con l’impermeabile. E’ inoltre lo
stesso Richard Basehart ad apparire a Gelsomina come una creatura senza
pesantezza, tutto brillante sul filo aereo nella luce dei proiettori.
Il simbolismo felliniano è inesauribile e tutta la sua opera potrebbe
senza dubbio essere studiata da questo solo punto di vista. Importa solo di
risituarla nella logica neorealistica, poiché è evidente che queste
associazioni di oggetti e personaggi con cui si sostituisce l’universo di
Fellini non traggono il loro valore e il
loro prezzo che dal realismo, o, per dir meglio forse, dall’oggettivismo della
notazione. Non è per assomigliare a un angelo che il Fratello porta così la sua
fascina, ma basterebbe vedere le ali nei ramoscelli per trasformare il vecchio
monaco. E’ così possibile dire che Fellini non contraddice il realismo, e
neppure il neorealismo, ma, piuttosto, che lo compie superandolo in una
riorganizzazione poetica del mondo.
Questo compimento rinnovatore Fellini lo opera anche al livello del
racconto. Certamente, da questo punto di vista, il neorealismo è anche una
rivoluzione della forma verso il fondo. Il primato dell’avvenimento
sull’intrigo ha portato per esempio De Sica e Zavattini a sostituire a
quest’ultimo una microazione, fatta di un’attenzione indefinitamente divisa
nella complessità dell’avvenimento più banale. D’un tratto veniva a essere
condannata ogni gerarchia, di ordine psicologico, drammatico o ideologico, fra
gli avvenimenti rappresentati. Non perché il regista debba rinunciare a scegliere ciò che decide di mostrarci, ma perché
questa scelta non si operi più in riferimento a una organizzazione drammatica a
priori. La sequenza importante può anche essere, in questa nuova prospettiva,
una lunga scena “ che non serve a niente “, secondo i criteri della
sceneggiatura tradizionale.
Comunque, anche in Umberto D,
che rap presenta forse la sperimentazione estrema di questa nuova drammaturgia,
l’evoluzione del film segue un filo invisibile. Fellini mi sembra aver
completato la rivoluzione neorealistica innovando la sceneggiatura senza alcun
concatenamento drammatico, fondata esclusivamente sulla descrizione
fenomenologica dei personaggi. In Fellini, sono scene di legame logico, le
peripezie “ importanti “, le grandi articolazioni drammatiche della
sceneggiatura a servire da raccordi, e sono le lunghe sequenze descrittive, apparentemente
senza incidenza sullo svolgimento dell’ “ azione “, a costituire le scene
veramente importanti e rivelatrici. Sono, nei Vitelloni, il girovagare notturno, le passeggiate stupide sulla
spiaggia; nella Strada la visita al
convento; nel Bidone la serata al
cabaret o la festa. E quando non agiscono che i personaggio felliniani si
rivelano meglio, tramite la loro agitazione,
allo spettatore.
Se comunque i film di Fellini comportano delle tensioni e dei
parossismi che non hanno niente da invidiare al dramma e alla tragedia, è
perché gli avvenimenti vi sviluppano, in mancanza della casualità drammatica
tradizionale, dei fenomeni di analogia e di eco. L’eroe felliniano non arriva
alla crisi finale, che lo distrugge e lo salva, perché le circostanze da cui è
in qualche modo colpito si accumulano in lui, come l’energia delle vibrazioni
in un corpo in risonanza. Egli non evolve, si converte, oscillando, alla fine,
come gli iceberg il cui centro di galleggiamento si è invisibilmente spostato.
Vorrei per concludere e concentrare in un’annotazione l’inquietante
perfezione delle Notti di Cabiria,
analizzare l’ultima immagine del film che mi sembra insieme la più audace e la
più forte dell’opera di Fellini. Cabiria,spogliata di tutto, del suo denaro,
del suo amore, della sua fede, si ritrova svuotata di se stessa, su una strada
senza speranza. Appare un gruppo di ragazzi e ragazze che cantano e ballano
camminando, e Cabiria, dal fondo del suo nulla, risale dolcemente verso la
vita; ricomincia a sorridere e dopo un po’ a ballare. E’ facile immaginare ciò
che questo esito potrebbe avere si artificiale e di simbolico, se,
polverizzando le obiezioni della verosimiglianza, Fellini non sapesse, con
un’idea di regia assolutamente geniale, far passare il suo film su un piano
superiore, identificandoci d’un tratto con la sua eroina. Si è spesso ricordato
Chaplin a proposito della Strada, ma
non sono mai stato convinto del paragone; per forza di cose pesante, fra
Gelsomina e Charlot. La prima immagine non solo degna di Chaplin, ma uguale
alle sue più belle trovate, è l’ultima nelle Notti di Cabiria, quando Giulietta Masina si volta verso la
macchina da presa e il suo sguardo incrocia il nostro. Unico, credo, nella
storia del cinema, Chaplin ha saputo fare un uso sistematico di questo gesto
che tutte le grammatiche del cinema condannano. E senza dubbio sarebbe fuori
posto se Cabiria, piantando i suoi occhi nei nostri, si rivolgesse a noi come
la messaggera di una verità. Ma il fine ultimo di questo tocco di regia, e quel
che mi fa gridare al genio, è che lo sguardo di Cabiria passa più volte
sull’obiettivo della macchina da presa senza mai esattamente fermarvisi. La
sala si riaccende su questa meravigliosa ambiguità. Cabiria è senza dubbio
l’eroina delle avventure che essa ha vissuto davanti a noi, dietro il
mascherino dello schermo, ma è anche, adesso, colei che ci invita con lo
sguardo a seguirla sulla strada che essa riprende. Invito pudico, discreto,
sufficientemente incerto perché noi si possa fingere di credere che essa si diriga
altrove; sufficientemente certo e diretto anche a strapparci alla nostra
posizione di spettatori.
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