lunedì 30 marzo 2020

A difference




It might be true that there are six billion people in the world and counting.
Nevertheless, what you do makes a difference.
It makes a difference, first of all, in material terms.
Makes a difference to other people and it sets an example.
In short, I think the message here is... that we should never simply write ourselves off... and see ourselves as the victim of various forces.
It's always our decision who we are.

Ci sono sei bilioni di persone nel mondo.
Eppure quel che fai fa una differenza.
Fa una differenza in termini materiali e per altra gente. Dà un esempio.
Il messaggio è che non dovremmo mai sottovalutarci … e vederci come vittime di varie forze.
Chi siamo è sempre una nostra decisione.
Richard Linklater, Walking Life, 2001

domenica 29 marzo 2020

Un leone a Culver City - Un director impegnato



Il caso di King Vidor indice di un sistema

Il caso di Vidor può servire a illustrare forse meglio di tanti altri - data la personalità del regista e l'indiscutibile fiducia che si doveva fin da allora avere in lui - l'implacabilità di un metodo ormai divenuto sistema: può infatti apparire curioso che l'autore di La grande parata abbia potuto dirigere subito dopo due film nettamente plateali e di assai relativo impegno: La Bohème (1926), ispirato a " La vie de Bohème " di Murger (in cui la Gish, Gilbert e la Adorée vestivano rispettivamente i panni di Mimi, Rodolfo e Musetta), un film tuttavia alla cui ambientazione non mancava un certo profumo; e Bardelys the Magnificent (Bardelys il Magnifico, 1926) da un romanzo di Sabatini, con John Gilbert e Eleanor Boardman, una volgare e  poco convinta replica dei film di Douglas Fairbanks, assolutamente indegna della firma del regista. Ma basta osservare ad esempio con attenzione un "si gira" di La Bohème  in cui il giovane Thalberg, a braccia conserte, " controlla " affettuosamente la ripresa di un primo piano della protagonista (Vidor è il secondo da sinistra), per rendersi conto dell'importanza acquisita in quegli anni dalla figura ormai determinante dell'executive producer. Solo con The Crowd (La folla, 1928), uno degli ultimi e più convincenti esempi di cinema muto, Vidor riuscirà a prendersi una netta rivincita sulla produzione in serie. La folla, film palesemente influenzato dai migliori prodotti del realismo psicologico tedesco, narrava con spoglio vigore l'umile vicenda di una coppia di sposi (James Murray e Eleanor Boardman), soffocati dal bisogno e incapaci di elevarsi al disopra dell'anonima marea di gente che popola la grande città: l'ingenuità di certi sviluppi e la schematica struttura dello scenario (avvilito per giunta da un posticcio quanto detestabile " happy end ") venivano tuttavia riscattate dalla toccante attualità del tema, dalla coraggiosa impostazione dei personaggi e degli ambienti costruiti e descritti con inusitata obiettività, e infine dal sapientissimo uso della macchina da presa. Nonostante l'accoglienza entusiasta della critica, il film ottenne un mediocre successo: il pubblico americano - distratto e volubile - pareva poco propenso a interessarsi di problemi umani e sociali che lo riguardavano direttamente e preferiva piuttosto evadere dalla realtà quotidiana attraverso le avventure impossibili, gli amori travolgenti e le "revues " in bicromia. E mentre i primi rintocchi della crisi (la cui dura realtà, le poco gradevoli immagini di La folla con il loro eloquente silenzio, mettevano straordinariamente a fuoco) venivano sopraffatti dal gracidare del " Vitaphone " e del " Movietone '', Vidor era costretto a tornare alle esperienze minori dirigendo Marion Davies in Patsy (1928) e Show People (Maschere di celluloide, 1928).(continua)
Fausto Montesanti
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

In apertura King Vidor e Irving Thalberg osservano Lilian Gish sul set de La Bohème, di seguito James Murray e Eleanor Boardman in The Crowd

giovedì 26 marzo 2020

CONFIDENZE DI LUIGI COMENCINI


Il fenomeno del divismo
non ha raggiunto i registi
«La finestra sul luna park» l’ultimo film da lui diretto - Esordì
con documentari, uno dei quali gli procurò il «Nastro d'argento»
Roma, febbraio
QUANDO Comencini non è dietro la macchina da presa e non lavora alla sceneggiatura di un film o alla moviola in una sala di montaggio, è materialmente impossibile trovarlo. Inutile telefonargli a casa. Risponderanno che non c'è e che non sanno quando ritorna. E se qualcuno si illude di incontrarlo in via Veneto o nei salotti mondani della capitale, perde inutilmente il suo tempo. La verità è che questo regista tanto dinamico ed eclettico ha sempre qualcosa cui pensare. Se talvolta egli si concede brevi pause di riposo in compagnia di amici, non si mette mali come suol dirsi, in vetrina, ma trova il modo di isolarsi, stando lontano dai soliti pettegolezzi sul mondo cinematografico.
Per parlargli è stato necessario andarlo a scovare nella sala di uno stabilimento, dove seguiva il lavoro di sincronizzazione di «La finestra sul luna park», il tuo ultimo film con Giulio Rubini, Gastone Renzelli, Pierre Trabaud ed altri. Dapprima. Comencini non voleva saperne di concedere interviste, anche perché - come egli dice - il tentacolare divismo dei nostri giorni per fortuna non ho ancora raggiunto i registi, e quindi il miglior modo per stabilire un confidenziale colloquio col pubblico o pur sempre rappresentato dai loro film. Tuttavia le parole sono un pò come le ciliegie. Una tira l'altra.
L'ormai celebre regista di «Pane, amore e... fantasia» e «Pane,` amore e... gelosia», sul cui esito positivo è superfluo dilungarsi in quanto gli stessi film hanno battuto il record degli incassi, toccando rispettivamente l’iperbolica cifra di circa un miliardo e mezzo -- ha vissuto per molti anni a Parigi dove si laureò in architettura. Egli confessa però che fin dagli anni del liceo aveva cominciato ad interessarsi attivamente di cinema, sognando di dedicarsi alla regia. Un sogno piuttosto singolare ed ambizioso, ma destinato comunque a realizzarsi. Prima di affrontare la macchina da presa, Comencini si dimenticò di essere architetto e svolse altre attività: tra l'altro fece anche il giornalista, come inviato speciale e fotoreporter dei settimanale «Tempo».
Esordi quindi con alcuni documentari, il primo dei quali gli valse un «Nastro d'argento» nel 1946. E dai documentari ai film il passo è -relativamente breve. Due anni dopo, infatti, egli diresse «Proibito rubare», cui seguirono «Persiane chiuse». I due film con la Bersagliera ed il maresciallo Carotenuto, e «La bella di Roma», fino a «La finestra sul luna Park», la sua ultima  fatica che ora il regista definisce una storia in chiave romantica fatta di amore e di vicende profondamente umane tra gente umile, non priva di momenti umoristici e guai.
Convinto che è un errore distinguere a priori il genere dei films in «drammatico», «comico» o «sentimentale», in quanto uno stesso racconto cinematografico può contenere, alternandole, le caratteristiche di ognuna di queste definizioni. Comencini dice tra l'altro: «Credo che per realizzare dei buoni film, atti a suscitare l’emozione e la commossa, o divertita curiosità del pubblico, bisogna tendere alla narrazione di fatti che appartengono un pò alla vita di tutti i giorni. Ma occorre anche inserirsi, specie per quanto riguarda il nostro pubblico, nel costume tipicamente italiano, in modo che lo spettatore possa riconoscersi in certi personaggi. Questi miei intendimenti sono validi soprattutto per la «Finestra sul luna park» che ritengo sia il mio film migliore e più impegnativo, anche perché non mi sono valso di interpreti dai nomi molto celebri e altisonanti, ma ho cercato di mettere a fuoco il carattere dei singoli personaggi ed i motivi umani che ne informano la storia commovente e suggestiva...».
Di fronte all'imperversare di soggetti cinematografici impostati sull'eterno richiamo del sex-appeal, questa volta Comencini ha ritratto una vicenda estremamente semplice, «pulita», che ha una sua implicita morale.
«Protagonista di questo dramma a lieto fine - dice il regista - è un bambino di sette anni. Sua madre, Ada, muore in un incidente stradale. Era la moglie di Aldo, un operaio che da anni lavora all'estero. Tornato a casa. per i funerali, egli non riesce ad accattivarsi la simpatia del piccolo Mario, suo figlio, il quale si mostra. invece affezionato ad un certo Righetto, che dorme nel magazzino e fa un pò tutti i mestieri. Convinto di essere stato sempre un buon padre, Aldo ora sta per ripartire, ma prima intende mettere in un orfanatrofio il bambino. Questi però confessa a Righetto che scapperà di casa se il padre persisterà nella sua idea. Nel frattempo la gelosia di Aldo per Righetto, che gode tutto l'affetto di suo figlio, sfocia in una scena violenta, alimentata dal dubbio che tra quest'uomo e sua moglie vi sia stato qualcosa di poco chiaro. Ma tale sospetto scompare subito, per evidenti ragioni. Ora però, di fronte alla minacciata fuga del bambino, Righetto affronta coraggiosamente il padre. Gli fa intendere che anziché rinchiudere Mario in collegio, deve stargli vicino e guadagnarsene l'affetto. Gli confessa inoltre che tra lui e la donna scomparsa vi era semplicemente della simpatia, per il fatto che si occupavano in due dello stesso bambino. La aveva aiutata, come un devoto servitore alleviandone le preoccupazioni e la solitudine. Così «La finestra sul luna park» si conclude felicemente: il padre si rende conto che non è troppo tardi per riconquistare l’affetto del figlio.
Quando parla del suo lavoro, il regista Comencini sembra vivere in un altro mondo. Per lui esiste soltanto quella determinata vicenda e quei personaggi di cui parla con tanto calore e convinzione come se fossero reali. Ne descrive talvolta anche le più riposte sfumature e, ciò che più importa, li rende credibili a tutti gli effetti. Attualmente tra i suoi progetti c'è un film tratto da due racconti di Moravia, che sarà interpretato da Anna Magnani. Appena si trova alle prese con un nuovo film che intende realizzare, egli corregge e rifà più volte la sceneggiatura. Nulla e nessuno potrebbero mai distoglierlo da questo suo lavoro. Poi tutto questo tormento creativo esplode con il primo giro di manovella. Allora Comencini riprende la sua calma l’abituale buon umore che lo distingue. Ogni singolo fotogramma prima ancora che sulla pellicola della macchina da presa è ormai fissato sullo schermo della sua estrosa e poetica fantasia.
Piero Pressenda
GAZZETTA DEL SUD, 28 febbraio 1957

In apertura Luigi Comencini ed Eleonora Rossi Drago sul set di Persiane chiuse del 1951

mercoledì 25 marzo 2020

Directed by De Sica


Vittorio De Sica, Caccia alla volpe (After the fox), 1966

lunedì 23 marzo 2020

Vincent Price a Messina





Messina, Arena Savio, summer 1985

domenica 22 marzo 2020

Giovanna Ralli sogna

 


UN’ATTRICE CHE ATTENDE FIDUCIOSA L’ORA FATALE
I sogni si avverano
per Giovanna Ralli
Dal teatro al cinema con crescente successo – Aspetta il matrimonio

Roma, giugno

Riveli pure la mia età - ha cominciato col dirmi Giovanna Ralli – Sono nata a Roma nel 1935, e perciò posso ancora permettermi il lusso di certe indiscrezioni. Forse col tempo ciò non mi sarà possibile, e allora dovrò fingere che le lancette del mio quadrante vadano indietro anziché avanti. E se ci tiene a saperlo, le dirò anche che io ai sogni ci credo.
Insomma, questa giovane attrice che ha soli vent'anni può già vantare una buona notorietà in Italia e all'estero, chiacchiera volentieri e non attende che le si facciano molte domande. Ricordate la romana alquanto sbarazzina di «Villa Borghese» accanto a -De Sica? Bene, fu appunto con quella interpretazione che Giovanna si guadagnò definitivamente del pubblico, ma non fu quello il suo primo film.  L'esordio sullo schermo, infatti, avvenne quando era appena una ragazzina quattordicenne con la serie della «Famiglia Passaguai» in cui sostenne il ruolo della figlia di quella coppia mattacchiona che rispondeva ai nomi di Ave Ninchi e Aldo Fabrizi. In seguito fu chiamata in Francia dal noto regista Christian Jacques che le affidò una parte di rilievo in «Madamè Bovary». Tra i suoi ultimi film si ricordano particolarmente «Le signorine dello 04» e «Le ragazze di San Frediano», attraverso i quali il suo «personaggio» di ragazza ingenua e bella, credulona e sognatrice, si è imposto all’attenzione della critica del pubblico come una delle migliori promesse del nostro cinema.
I genitori di Giovanna Rulli che in un primo tempo non volevano assolutamente permetterle la carriera artistica, si sono ormai ricreduti, ma vorrebbero che si sposasse e desse loro di nipotini. Questo però è un aspetto della vita cui Giovanna per il momento non può pensare. «Bisognerebbe che avessi un pò più di tempo libero - ella dice – ma il lavoro non me lo permette. Anche in queste ultime settimane sono stata molto occupata perché «Un eroe dei nostri tempi» con Alberto Sordi e Franca Valeri, mi ha tenuta costantemente impegnata, costringendomi a rinviare la soluzione di quello che i miei genitori definiscono «il problema».
Diretta da Monicelli, Giovanna ha ritrovato ii suo abituale personaggio: ragazza del popolo, commessa di un parrucchiere per signora e fidanzata di un giovane disoccupato, per aiutare il quale sfrutta la simpatia che nutre, per lei Alberto Sordi, il quale le dà ad intendere di essere «dottore» e capoufficio. Giovanna rappresenta, il tipo di ragazza che ogni uomo ha incontrato almeno una volta in vita sua. «Marcella - afferma Giovanna Ralli - è una ragazza bella, dolce, un tantino sguaiata, innamorata e pronta a sacrificare tutto al suo uomo. E' un ruolo che mi piace più d'ogni altro, e spero di renderlo al massimo».
Le prime esperienze artistiche di Giovanna risalgono al teatro, in quanto 'prima di debuttare nel cinema recitò alcuni mesi nella Compagnia di Peppino De Filippo, i cui insegnamenti -- ella dice - le si dimostrarono oltremodo preziosi.
Giovanna è ormai un'attrice che sa quello che vuole. Preferisce i ruoli brillanti perché vi si, trova perfettamente a suo agio, ma anche perché interpretandoli, si diverte: «Ritengo che il miglior segreto di un'attrice, sia appunto quello di vivere la pro pria parte, cercando di renderne anche le più riposte sfumature.  D'altra parte è evidente che il soggetto del film deve piacere, anche sotto questo aspetto sono molto soddisfatta per «Un eroe dei nostri tempi», nel quale accanto ad Alberto Sordi, divento protagonista di una singolare vicenda. Il film narra la storia di un giovanotto, impiegato in una fabbrica di cappelli. La sua vita, apparentemente tranquilla e monotona, si svolge sotto il segno della paura; la paura di mettersi nei pasticci con ragazza che ama, Marcella, perché è minorenne; paura di trovarsi coinvolto in guai immaginari. Tutti i suoi gesti sono dettati dalla preoccupazione di non compromettersi, e quindi non ha mai il coraggio di affrontare alcuna difficoltà. Naturalmente egli tenta di nascondere la sua inettitudine e la viltà che lo  distinguono ostentando una certa superbia, ma proprio per quel suo morboso timore di trovarsi - come egli dice -- «incastrato» in grossi guai, finirà con l'esservi coinvolto veramente, attraverso tutto un susseguirsi di imprevedibili vicende, sottolineata dalla comicità dello stesso Sordi nelle vesti del povero impiegato Menichetti».
Sugli ammiratori di Giovanna Ralli, uno scrittore umoristico potrebbe ispirarsi, per scrivere un volumetto molto curioso. Dal timido e giovane poeta romano che, ogni mese le manda pochi versi a lei dedicati, ad alcuni focosi siciliani che le inviano continuamente cassette di arance e bottiglie di marsala, dal pingue ed anziano industriale milanese che le ha proposto di sposarla, allo studente liceale di Trieste che le ha suggerito per iscritto una romantica fuga in un'isola dei mari della Sonda! Nel frattempo, in attesa che giunga anche per lei l'ora fatale del matrimonio, Giovanna non si monta la testa e lavora sodo. 
Piero Prossenda 
GAZZETTA DEL SUD, Mercoledì 20 aprile 1957


giovedì 19 marzo 2020

CINE ma POPolare - Cattivo gusto e classi popolari


Assodato che il pubblico popolare non va al cinema soltanto per scompisciarsi dalle risa, poniamoci questo interrogativo: l'attuale produzione di film cosiddetti popolari risponde effettivamente alle esigenze e ai gusti degli spettatori cui è destinata? Prima di tentare una risposta attendibile. e ragionata, occorre una messa a punto a proposito di gusti ed esigenze popolari. Scriveva Vito Pandolfi nel numero di agosto 1953 della "Rivista del cinema italiano": «C'è un cattivo gusto delle classi popolari che essi (certi produttori e certi registi) conoscono sufficientemente per ottenere a volte, quando l'imbroccano, sbalorditivi risultati finanziari». Proprio cosi: c'è un cattivo gusto dei vasti pubblici popolari, retaggio di antica ignoranza e di incivili condizioni di vita, che li sospinge sulle facili strade del melodramma lacrimogeno e delle distensive evasioni bassamente comiche. La naturale ed istintiva tendenza verso un mondo diverso da quello in cui abitualmente si vive, la perenne tensione dell'essere al dover essere, si trasforma, presso le moltitudini (operai, contadini, braccianti, impiegatucci, bottegai, artigiani ecc.), in preferenza per situazioni e personaggi semplicistici e convenzionali; sia nel comico sia nel drammatico, la loro simpatia è tutta per i buoni, i deboli, gli innocenti e gli ingenui e, in genere, per le vittime della soperchieria dei malvagi e dei furbi senza scrupoli. Mentre comprendono - e dalla comprensione nasce l'interesse - certe situazioni radicali (contrasto fra amore ed odio, amore e dovere, candore e malizia), mal comprendono invece le sfumature, i mezzi toni. gli stati d'animo complessi, Insomma l'autentica e poliedrica realtà umana, che raramente è tagliata con l'accetta.
Come sempre, il problema della diffusione dell'arte e della cultura è anzitutto un problema di educazione popolare: non si tratta di abbassare l'arte del film al livello di certo mal gusto popolare quanto di elevare gradualmente lo spettatore comune al livello dei film d'arte. Così facendo, si obbliga la produzione a cambiare gradualmente indirizzo in conformità dei nuovi orientamenti della "clientela"·
Dal canto loro, gli artisti possono e debbono maturare dallo spettatore popolare un insegnamento di alto valore: arte e sobrietà, bellezza e sincerità, buon gusto e sanità morale sono termini che, lungi dall'escludersi, si richiamano e si intrecciano nell'unità dell'opera. Un meccanico di Sulmona ci confidava che lui, al cinema, vuole innanzi tutto capire e, quando non ci riesce, il film non gli piace. Questo desiderio di chiarezza è molto diffuso nel pubblico popolare, che rifugge dal cerebralismo e dalle costruzioni sofisticate: In nome della legge e Due soldi di speranza vengono senz'altro preferiti a Miracolo a Milano ed Europa '51.
Sviluppando un motivo accennato dal Pendolfi e dal Chiarini, crediamo di poter affermare che, oggi in Italia, non esiste ancora una cinematografia largamente popolare, che salvi al contempo le ragioni dell'arte e della cultura. Tuttavia è doveroso e gradito riconoscere che le opere migliori del realismo hanno indicato la strada buona e ne sono un valido esempio i due film citati. Rammentino i nostri registi di maggior talento che i film di Matarazzo, Brignone, Costa ecc., il cui successo è dovuto ad un'abile speculazione sui temi e sentimenti perenni dell'anima umana, hanno, se non altro, il pregio di non essere difficili: muovendo dagli stessi temi, ma percorrendo ben altri itinerari, è certamente possibile produrre opere dignitose e largamente popolari. La lezione di Chaplin è sempre valida: tutti i suoi grandi film (dall'epoca del muto al recente Luci della ribalta) hanno saputo in tutto il mondo interessare e commuovere milioni di spettatori di ogni categoria sociale, in particolare quelli delle classi popolari; la stessa convenzionalità di alcuni temi e situazioni. è sempre riscattata dalla finezza delle analisi psicologiche, dal preciso mordente delle annotazioni di costume, dalla rigorosa coerenza dello svolgimento narrativo.
Per concludere, la responsabilità della carenza di una buona cinematografia largamente popolare non può farsi risalire esclusivamente all'ignoranza e al mal gusto del pubblico e alle dure leggi della "cassetta ". Le stesse non trascurabili difficoltà di ordine censorio non sono bastevoli ad assolvere completamente i nostri registi di maggiore impegno e valore; probabilmente, come scriveva Fernaldo Di Giammatteo (" Rassegna del film", n. 15 del giugno 1953), essi si sono piegati un po' troppo ai compromessi esterni ed interiori, abdicando, talvolta, alla propria personalità.
CARLO SANNITA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie  Anno VII 1954 10 Novembre

mercoledì 18 marzo 2020

Citizen Laura




Do you know how many times you've been arrested for hazardous vapor inhalation
in the last year and a half, Miss Stoops?
Do you know how many times we've given you substance abuse treatment in the state hospitaI instead of jail?
Alexander Payne, Laura Dern, Citizen Ruth, 1996



lunedì 16 marzo 2020

Belle, Bête & Cocteau




Jean CocteauLa Belle et la Bête, 1946

domenica 15 marzo 2020

Un leone a Culver City - The Divine Woman



GRETA GARBO: 
LA PIU' SPETTACOLARE ATTRAZIONE DELLA METRO GOLDWYN MAYER

Assonnata e scontrosa, giunse un bel giorno del 1926 a Culver City una timida ragazza svedese che aveva preso parte ad un paio di film in Europa e che il grande Mauritz Stiller (invitato ad Hollywood dalla Metro dopo i successi di Sjostrom) aveva portato con sé, obbligando la casa a farle un contratto. Al suo arrivo nessuno avrebbe mai supposto che nel giro di un anno o due l'insignificante ragazza - il cui nome era Greta Garbo - con i suoi lunghi e lisci capelli biondi, il languore delle palpebre pesanti e la piega amara delle labbra pallide, avrebbe dato il colpo di grazia alla "garçonne" sbarazzina, allo sguardo petulante e bistrato alla bocca a cuore all'inchiostro di China di Clara Bow e di Colleen Moore, di Billie Dove e di Lya De Putti. D'altra parte il tipo della " vamp " tradizionale, la donna bruna e vogliosa, destinata a sconvolgere la mente e i sensi degli uomini, la rovina delle famiglie, insomma, era ormai in pratica tramontato con Theda Bara che era stata la prima e più autorevole rappresentante del genere. Tracce affievolite di quell’impostazione - anche allora considerata fuori moda - erano apparse ad esempio in Nita Naldi e in Barbara La Marr: ma la prima, afflitta da un'incipiente pinguedine, era partita per l'Europa a fare dei film, e la seconda, dopo una serie di successi (anche alla Metro, fra cui The Prisoner of Zenda del 1921), che l'avevano fatta soprannominare "la troppo bella", era morta da poco, a soli ventotto anni. La Murray era in declino; la Swanson e Pola Negri, entrambe all'apice della carriera, erano più che mai orientate verso la "sophistication"; mentre Alla Nazimova - che del resto non era stata mai una " vamp " - era tornata al teatro. Mancava insomma al cinema americano una figura d'eccezione, dal fascino indiscutibile, la cui sola presenza in un film fosse capace di determinare il successo, (come era accaduto forse solo per Valentino, che moriva improvvisamente proprio nel 1926). Che cosa spinse i dirigenti della M.G.M. a puntare tutto sulla Garbo? Nel suo primo film americano, The Torrent (Il torrente, 1926) di Monta Bell, tratto da un romanzo di Ibanez, la sua personalità non era ancora facilmente definibile, e pareva uniformarsi al tipo "latino", di cui Dolores Del Rio era allora il "cliché" ufficiale. Nel film successivo, The Temptress (La tentatrice, 1927: tolto di mano a Stiller alle prime scene e finito da Fred Niblo) vi era già qualche cosa di più: la Garbo assisteva - fra l'altro - con un sinistro sorriso d'indifferenza (e forse di sadismo) ad un duello alla frusta fra due uomini che se la contendevano a torso nudo: ma a parte questa episodica reminiscenza dei fasti di Theda Bara, il film ricavato anch'esso da un romanzo di Ibanez - non dava ancora un'idea precisa e inequivocabile della personalità della nuova attrice. Tuttavia il pubblico, per ragioni forse indefinibili logicamente e dettate solo dall'infallibile intuito della psicologia collettiva, aveva cominciato a drizzare le orecchie. L'eco dei primi incassi e i commenti della stampa specializzata, fecero capire alla M.G.M. che la protetta di Stiller poteva essere un grosso affare, pur non essendo ancora possibile individuare con esattezza in quale precisa direzione. Non era certo prudente rispolverare per lei la formula della "vamp" ma semmai tentare di rimodernarla, rendendola più sottile e complessa: il calcolo -· di cui non è dato oggi conoscere l'astuto responsabile: ma giurerei che c'era lo zampino di Thalberg - riuscì alla perfezione. Flesh and the Devil (La carne e il diavolo, 1927) presentava una Garbo dibattuta fra John Gilbert e Lars Harson, vittima lla medesima del proprio fascino, una " donna fatale " sfortunata e per nulla odiosa, la cui tragica fine fra i ghiacci non faceva tirare un sospiro di sollievo agli spettatori, ma anzi versare fiumi di lacrime. Da quel momento, la Garbo, passò avvolta in una nube di inguaribile stanchezza e di tristi presagi, dlle braccia di Gilbert e di Hanson, a
quelle di Conrad Nagel e di Nils Asther, destinati a struggersi invano per lei, irraggiungibile e incontaminata. Love (Anna Karenina) di Edmund Goulding, The Divine Woman (La donna divina, 1928) di Seastrom, The Misterious Lady (La donna misteriosa, 1928) di Niblo, The Single Standard (La donna che ama, 1928), A Woman of Affairs (Destino, 1929), di Clarence Brown, Wild Orchids (Orchidea selvaggia, 1929), di Sindney Franklyn, e The Kiss (Il bacio, 1929) di Jacques Feyder, furono le tappe della sua fortunata carriera fino alle soglie del sonoro. Con la Garbo, la Metro Goldwyn Mayer aveva trovato senza volerlo la più spettacolare attrazione di tutti i suoi trent'anni di vita. (continua)
Fausto Montesanti
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954  25 NOVEMBRE 

In apertura Greta Garbo in The Torrent,1926 di Monta Bell