domenica 6 ottobre 2019

NUNZIO MALASOMMA

I REGISTI (senza peli sulla lingua)

                                                NUNZIO MALASOMMA
DI EUGENIO GIOVANNETTI

Nunzio Malasomma
1894 - 1974

Non sarebbe male cominciare con una piccola predica brillante sulla mediocrità, fiera crudele e diversa. Chi non fu mai mediocre nell'arte sua, scagli la prima pietra.
Oh sì, io scaglio la pietra, e sono mediocre tuttavia. Beate le arti dal climi estremi, che non conobbero mai la poltrida bestia dalla mille iridi: la pittura spagnola, per esempio, in cui non fu mai lecito esser nel mezzo e si fu sommi o si fu infimi. La nostra pittura? Troppi ingegni contenti di sé, equilibrati, espansi (un latinismo odioso quanto impeccabile, che traduce perfettamente il francese rêpandus).
Un pittore come Andrea del Sarto, un decoroso, un felice mediocre, non è immaginabile nel paese in cui lo spirito è alla bassura di Sancio o al delirio di Don Chisciotte. O sono El Greco o sono l’imbianchino: non vogliono bestia che sia tra l’asino di Sancio e l’alato Ronzinante.
 A galoppo per un'ora sulla mia chimera, dannato e povero. Il resto, che conta? In quasi tutte le arti la mediocrità è protetta? E che m’importa, se per un’ora almeno avrò respirato nella mia apocalisse? Beati, in arte, i fanciulli che precipitano al primo passo! Voleranno, un giorno, più alti del cherubino.
Non c'è che un’arte oggi, al mondo, in cui la saggia mediocrità sia di prammatica, sia proclamata e conclamata come una forza: l'arte del regista. Assicurarsi, a forza di saggie concessioni, il consenso di quell'oscura potenza multanime ch'è la folla, può parere ed essere una sana prudenza. Nel cinema, ritrovare l’aspirazione segreta degli innumerevoli e blandirla, per bassa e turpe che sia, è pur sempre al segreto d`un successo perfettamente legittimo in quanto l'industria cinematografica non se ne  proponga altri. Il cinema non sì fa pei soliti dodici o ventiquattro avanguardisti. E', al contrario, il più largo presente dei presentisti: e voi, artisti mancati e insoddisfatti, che non tollerare la mediocrità, rompetevi il collo altrove con la vostra chimera.
Il cinema è Sancio che si camuffa, se vuole, anche in cherubino.
Un troppo lungo preambolo, forse, per affrontar la mediocrità decorosa di Nunzio Malasomma, ma in non ho mai saputo in realtà da che parte prendere questo regista dignitosamente impersonale, che fa, ogni tanto, una comparsa soddisfacente e poi scompare senza mai lasciar detto né dove vada né quel che intenda di fare.
Dev`essere in lui qualche disdegno o qualche riserbo, perché, ed è sempre stato, il regista italiano che fa meno parlare di sé, avendo pur l`aria d’essere ben contento di sé. Poco si sa di lui, delle sue abitudini, dei suo passato. Sappiamo che ha viaggiato e che lavorava in Germania al tempo della dispersione, coi Righelli, coi Bonnard.
Ebbe, certo, in Germania la cinematografica ventura d’imbattersi in Luis Trenker, allora nel suo primo romantico fiore. Oggi Luis Trenker è un po' il Gigione delle vette. Allora, Nunzio Malasomma e Mario Bonnard potevano ancora combinargli un truculento e romanticissimo film: I cavalieri della morte.
Nel 1931 il Malasomma è con gli altri in Italia: ed eccolo alla Cínes con l'Uomo dell’artiglio e La cantante dell’opera. Il suo passaggio alla Cines non lasciò veramente segno alcuno: la mediocrità del Malasomma in cose come La telefonista era un po’ troppo grigia. Francesco Pasinetti ricorda nella cantante dell’opera un'interessante ricerca d`effetti contrappuntistici tra immagini e suoni. lo ho il ricordo ben vivo di quelle ricerche non tanto nella Cantante dell’opera quanto nella Vecchia signora d'Amleto Palermi.
Il merito di quelle ricerche va, del resto riconosciuto oggi al musicista Umberto Mancini assai più che ai registi. La trovata era quasi sempre essenzialmente musicale e seguiva e animava l'immagine. Il musicista Mancini aveva allora una fresca vena umoristica, che s'è perduta. Nella Vecchia signora la galoppata del vecchio sfiancato cavallo di botticella sui selciati di Roma era un capolavoro d'umorismo musicale, che vivificava d'un tratto, attraverso la suggestione ritmica soprattutto, una sequenza che sarebbe stata in sé grottesca e triste.
Un musicista che avesse oggi quella vena potrebbe rendere ancora servizi preziosi alla nostra commedia filmica. Ma la nostra mu sica filmistica è oggi così boriosa nella sua funzione di tappezzeria! Vuol mettere sempre arazzi dove basterebbe un caprifoglio rampicante sotto una dannata fuga di rondini.
Nelle successive comparse abbiamo sempre visto un Malasomma dal mestiere esperto, ben curato, soddisfatto, anche in cose di colore leggero come Nina, non far la stupida. La commedia è visibilmente il suo forte: e tutto in questo genere gli va. 
Eravamo sette sorelle: qualcuno gli ha manipolato per un film, per un titolo almeno, anche questa divina fiabetta che profuma tutta l’opera dannunziana, come un invisibile sacchetto di lavanda profuma tutto un guardaroba. Ci dovrebbe essere una censura dei titoli cinematografici, che punisse siffatte profanazioni. Eravamo sette sorelle: questo piccolo sacchetto di spigo, la sola cosa forse che, tra mill'anni, i poeti trarranno ancora odorante di sotto ai muffiti damaschi del guardaroba dannunziano, ecco che il cinema pretendeva calpestarla sotto i suoi zoccoli grigi. Il lettore si rassicuri. Nunzio Malasomma non è riuscito a seppellir la fiabetta sotto i passi spietati del suo film.
Ho visto or sono alcune settimane, Nunzio Malasomma nella sua novissima comparsa: Scampolo. Abile, accurato, ingegnoso, dignitoso più che mai. Vecchio teatro per la giovanissima Lilia Silvi. Ha saputo farla rendere, come nessuno saprà più. Non poteva dare più che tanto la piccola, ma quel tanto Io ha dato, e a meraviglia. Quando compare, Nunzio è sicuro di non fare uno sproposito. Se no, non comparirebbe.
Che cosa farà domani? Una cosa altrettanto ingegnosa e sicura. Non vi preoccupate. Quando l’eccellenza Cipriano Efisio Oppo abitava a villa Strohlfern, assentandosi soleva lasciare un laconico bigliettino sulla porta, in cui si leggeva: «sono uscito›› o «ritorno›› « non ci sono sino a lunedì ››. Nunzio Malasomma non lascia mai detto nulla sulla sua ermetica porta: ma potete star sicuri che quando meno ve l’aspettate, tornerà soddisfatto e se ne riandrà soddisfattissimo.  
Tutto sommato, o, meglio, tutto malasommato, io amo questa regista perché è, tra i nostri, quello che lascia far meno chiacchiere sul suo conto, quella insomma che importuna meno la gente con interviste e ciance e s'accontenta di fare meglio che può. Una media dignitosa? Vada. La sola insopportabile è la media boriosa, che, quando non vi seppellisce sotto le chiacchiere, tace per insoddisfatta superbia. 
Per avere scritto due parole gentili su d’un La Rochefoucauld, l`interessato s’affretterà a ringraziarvi con una lettera: ma raramente riceverete due righe di ringraziamento da un regista mediocre  da elogiato  in pubblico con la più ingegnosa cordialità. Un autista sarebbe, in casi simili, molto più gentile d’un insoddisfatto e  borioso manipolatore di film.
Ma la vera, la peggior mediocrità è forse proprio quella, che s`aspetta ringraziamenti o gratitudine. Bisogna far sempre le cose per quel tanto di buono ch'esse hanno in sé, e non pensar mai a quel che l’interessato ne dirà. Fummo mediocri perché volemmo troppo piacere: bisogna dir sempre quella che ci pare onestamente la verità; e regalarci anche, ogni tantino, quello che Baudelaire chiamava: «il piacere aristocratico di dispiacere››. 
Eugenio Giovannetti

Opere di Nunzio Malasomma: L’ uomo dell’artiglio, La cantante dell’opera (1931) - La telefonista,Sette giorni cento lire, La signorina dell’autobus(1932) – La cieca di Sorrento (1933) – Cleo robes et manteaux, Lohengrin, Non ti conosco più (1934) – Nina non far la stupida (1936) – Eravamo sette sorelle (1938)- Cose dell’altro mondo (1939) - Dopo divorzieremo (1940) - Scampolo (1941) – Giungla (in lavorazione).


film  SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V – N. 1 – 3 GENNAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film L’ultimo addio (Diagnosi) diretto da Ferruccio Cerio e interpretato da Gino Cervi,Luisa Ferida, Sandro Ruffini, Annibale Betrone (Produzione Inac - Sirena)

mercoledì 2 ottobre 2019

Max Ophüls, il "Barbiere" & Shakespeare




Parlando con Max Ophuels

Vedere Ophuels a 1700 metri, col Monte Rosa da una parte e la più bella prateria dall'altra, se mi ha fatto gradita meraviglia, mi à riportato subito nell'inferno delle inquietudini e dei dispiaceri, che il cinema ci procura! Ci eravamo salutati a Milano, in una fumosa sala da bar, alzando il bicchiere per augurio di non so quale opera sua. Max Ophuels è venuto infatti quassù per lavorare. Tutto il giorno se ne sta rinchiuso o col regista Kurt Alexander o col musicista Maestro Tullio Serafin e la sua segretaria in una specie di sotterraneo,
destinato a diventare la sala da ballo di questa specie di falso Grand Hotel …
In attesa delle note di un fox, i villeggianti, che spiano nel sotterraneo, sentono le note del «Barbiere», intorno a cui Ophuels sta immaginando le sue favole strabilianti.
Appena finita la colazione è il solo momento che l'itinerario della sua passeggiata sfiora il recinto della mia baita e ci possiamo scambiare saluti e propositi. Col naso in aria a prendere il sole e sdraiati sull'erba, è la 801a posizione rassicurante per discorrere dell'avvenire della cinematografia.
Tutte le altre posizioni sono troppo preoccupate e polemiche. Ophuels è pieno di fede nel cinema italiano. Ha trovato in Italia un clima cinematografico. «Ho visitato mi dice, la Mostra della Rivoluzione. Permettete a un regista di guardare le cose da un punto di vista particolare. Mi è parso che tutto fosse espresso con tale immediatezza, rapidità, precisione, da rivelare un linguaggio cinematografico già maturo. La stessa osservazione ho fatto anche nelle più piccole cose. Mi sono· guardato intorno per le vie della città. Ho trovato nei manifesti, nei cartelli pubblicitari un modo di espressione diretta, vivace, sollecita, molto più suggestiva che non siano i manifesti, tipo profumi Coty o cioccolatto Meunier, di altri paesi. La gran massa del pubblico è già disposta a capire un linguaggio cinematografico. Soltanto che la vostra cinematografia è ancora inferiore al vostro pubblico».
Speriamo che così sia. Gli domando degli attori, delle maestranze. Mi dice che non ha mai avuto interpreti così eccellenti. «L'attore italiano è intelligentissimo, pieno di volontà e di passione: ho potuto fare in Italia alcune esperienze che non ero riuscito ancora a fare altrove».
Poiché Ophuels sta lavorando intorno al «Barbiere di Siviglia» è naturale che si parli dei rapporti fra l'opera lirica e il cinematografo. Qui siamo, a tutta prima, di parere opposto. Ophuls è entusiasta dell'idea di dare espressione cinematografica alle nostre opere. Per lui è questo uno dei contributi più preziosi che l'Italia può dare al cinema e per la diffusione del cinema italiano in Europa e soprattutto in America.
Tormentato ancora dalle immagini dei nostri illustri tenori sullo schermo, faccio distrattamente le mie riserve. Ophuels scuote la testa e mi agita le braccia sul naso, col tono perentorio che supplisce alla poca conoscenza della nostra lingua. "Leggete lo scenario del "Barbiere" e poi mi direte il vostro parere».
Devo ritirare le mie riserve per quanto concerne almeno, questo caso specifico. Ogni scena è inquadrata in un tono di balletto, di féerie, che permette al buon gusto del regista di liberare i cantanti e gli sfondi da tutto ciò che gli uni e gli altri avevano di più immobile, mummificato, immutabile. E' stata anzi questa la sua trovata. Tutto si trasforma: si agita: vive. Un venticello acuto e assillante soffia nel fuoco, e dal principio alla fine le soluzioni inedite si inseguono, le cose più assurde per il teatro divengono legittime e naturali; gli uomini diventano burattini, maghi, spiriti. Siviglia stessa esce dal suo cliché e rivela le sue strade, i suoi alberi, i suoi tetti, da nuovi punti di vista.
Non manca un finale allarmante di humour e di parodia; alcuni policemen in motocicletta che fermano i signori protagonisti per chiedere loro le carte in regola.
Ho avuto da questo scenario la migliore smentita a un mio parere troppo precipitoso. I lettori, a cui posso offrire qualche pagina rigorosamente inedita, direi, appena sfornata dal famoso sotterraneo dei lavori, potranno giudicarne.
Frattanto si avvicina la presentazione pubblica di La donna di tutti. Un bel giorno Ophuels è partito improvvisamente per assistere allo spettacolo del Festival. E' tornato due giorni dopo. Buon successo di pubblico e di critica. Ma mi pare che egli attenda il giudizio di un pubblico più libero, meno snobistico, più inclinato a giudicare il film senza la complicità di tutto quello che di mirabolante il Festival può offrire.
Prima di lasciarci, abbiamo dedicato un ultimo saluto al Cinema. A uno svolto di viottola ho chiesto, senza preamboli, a Ophuels, come se gli tirassi una revolverata: «ma infine, ci credete, che un film sia un'opera d'arte?"
«Vi dico in un orecchio, mi ha risposto, ma non ripetetelo a nessuno, che per me, se oggi Shakespeare risuscitasse, scriverebbe i suoi drammi «in cinematografo».
ENZO FERRIERI
CINE-CONVEGNO Anno II .- N. 3-4-5  25 Luglio 1934 (XII)

Nota: Ophuels, così nel testo originale.

martedì 1 ottobre 2019

Detective Thriller - The true Philip Marlowe



La versione cinematografica del personaggio di Philip Marlowe è quella che ci ha dato Humphrey Bogart in The Big Sleep (1946, Il grande sonno] di Howard Hawks (sceneggiato, tra gli altri, da William Faulkner). ln questo film Philip Marlowe viene convocato alla lussuosa residenza
del Generale Sternwood [Charles Waldren), un ricchissimo cliente che gli assegna l'incarico di trattare con un creditore, a causa di debiti di gioco, di sua figlia Carmen [Martha Vickers). Il mandato affidatogli conduce Marlowe in un mondo popolato di personaggi dalle motivazioni e
dalle identità personali mai perfettamente chiare, nel corso della generale, implacabile e implacata lotta per la vita, nella quale la figura del « detective ›› apporta il desiderio onesto e virile di scrutare a fondo ogni verità, anche la più ripugnante ed incresciosa. Dov’è Sean Regan, qual è la natura della relazione tra l'altra figlia del Generale Sternwood, Vivian [Lauren Bacall] e Eddie Mans [John Fidgelyl, qual è la natura della relazione tra qiuest'ultimo e il ricattatore Geiger (Theodore von Eltz], chi è Harry Jones [Elisha Cook jr.), il piccoletto che pedina Marlowe in continuazione? La sfuggevolezza e la fluidità delle relazioni tra i vari personaggi viene riassunta dall'ambivalente e complessa personalità di Vivian Sternwood, ora disposta ad aiutare il protagonista, ora pronta
a tradirlo. L'identità dello stesso Philip Marlowe si rinfrange nelle successive maschere che è costretto ad indossare: collezionista di libri rari, funzionario di polizia, ignaro automobilista di passaggio, sempre con secondi fini, per carpire informazioni o accedere a luoghi altrimenti interdetti. Nel complesso sviluppo di torbide relazioni intrattenute dai modi irreducibilmente insanabili dell'essere e dell'apparire anche gli oggetti conoscono curiosi le inquietanti «détournements »: una statuetta di Buddha dissimula una macchina fotografica, il diario di Geiger cela l'anfibologia di un codice segreto, un « drink ›› offerto come innocente Whisky contiene il mortale cianuro. Marlowe e Vivian sembrano discutere di corse di cavalli e invece discutono le tattiche dell'atto sessuale. La scena tra Marlowe e la ragazza della libreria [Dorothy Malone) è la rivelazione di una prorompente « joie de vivre » e di un'incontenibile carica sessuale subito ellitticamente abbandonata, segno dello spirito sottilismo dell'autore che riesce la cogliere la verità di un gesto, di uno sguardo, e prima ancora di un desiderio peccaminoso anche nei personaggi meno sospettabili, risvegliando il gusto per l'osceno dello spettatore senza tuttavia mai preoccuparsi di precisare, portare a termine, lasciandoci dunque anche nelle parentesi di divertimento il senso di una crescente inquietudine. Le reazioni dissimulate dei personaggi danno luogo talvolta a improvvise esplosioni di violenza, come nel caos dell'uccisione di Geiger, Brody (Louis Jean Heydt] e Mars, e in quello delle percosse che riceve Marlowe, dapprima da anonimi assalitori in agguato per strada, in seguito da Canino [Bob Steele). Come succede spesso nel « film noir ›› la violenza è associata a reperti e campioni della civiltà urbana le industriale: l'automobile del Generale Sternwood viene ripescata dall'oceano con a bordo il cadavere dell'autista, Sean Regan. Nella scena di apertura del film il Generale Sternwood, che vive nel chiuso di una serra surriscaldata come un ragno imbottigliato, parla delle sue orchidee odorose di corruzione e del sangue corrotto di sua figlia, il dialogo con i suoi doppi sensi e le immagini che riesce a trasmettere, malgrado ogni codice di decenza, si infittisce di accenni a una sessualità aberrante: la ninfomania di Carmen, l'omosessualità che trapela dalla relazione Generale Sternwood/Regan e da quella Geiger/Lundgren {Tom Rafferty], lo strano atteggiamento di Vivian che prima di slegare Marlowe si china a baciargli le ferite, le fotografie pornografiche scattate da Geiger, collezionista di libri rari e di ninnoli orientali [ancora una volta l'interesse per l’arte è sintomo di depravazione morale, secondo l'antintellettualismo più volte riscontrato). La nebulosità delle motivazioni dei personaggi si riflette negli ambienti predominanti nel film: buio, bruma, scrosci di pioggia. La messa in scena concorre a creare un clima generale di claustrofobia e gli insetti umani che vi soggiacciono sembrano auto-conservarsi grazie soltanto a una specie di vita postuma.
FINE

BIBLIOGRAFIA:
Opere di cinema:
Aristarco, Guido: « Piccolo Cesare, ieri e oggi », Cinema Nuovo n. 167, gennaio-febbraio 1964.
Baxter, John: Hollywood in the Thirties.
Bianchi, Pietro: Maestri del cinema.
Durgnat, Raymond: «The Family Tree of the Film Noir », Cinema n. 67, August 1970.
Fink, Guido: « Gli uccelli ››, Cinema Nuovo n. 166, novembre-dicembre 1963.
Higham, Charles, Gheenberg Joel: Hollywood in the Forties.
Genette, Génard: «Lettera su Alfred Hitchcock ››. Cinema & Film, n. 11-12, estate-autunno 1970.
Jacobs, Lewis: L'avventurosa storia del cinema americano.
Kracauer, Sigfried: Film: ritorno alla realtà fisica.
McArthur, Colin: Underworld U.S.A., Cinema One.
McDonald Geraid, Conway Michael, Ricci Mark: The films of Charlie Chaplin.
Sato, Tadao: Il film di yakuza », quaderno informativo n. 42 della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema (Pesaro, 10-17 settembre 1972).
Stroheim, Eric von: « Dreams of Realism...» (extracts from an unpublished article), in Greed a Film by Erich von Stroheim, a cura di Joel W. Finler.
Weinberg, Herman G.: Joseph von Sternberg.
Wood, Robin: Howard Hawks. Cinema One.
Varie:
Allsop, Kenneth: L'impero dei gangster.
Butor, Michel: L'impiego del tempo.
Chandler, Raymond: La semplice arte del delitto.
Condon, Richard: Il re della mafia.
Fenichrel, Otto: Trattato di psicoanalisi.
Firedler, Leslie A.: Love and Death in the American Novel.
Fletcher, Angus: Allegoria, teoria di un modo simbolico.
Foti, Goffredo: « L’istinto della caccia ››, Quaderni Piacentini n. 33.
Frye, Norrthrop: Anatomia della critica.
Freud, Sigmund: Totem e tabù.
Greene, Graham: Il terzo uomo.
Gullk, Robert van: I delitti del labirinto cinese.
Hammett, Dashiell: L'istinto della caccia.
Horan, James D.: Uomini disperati.
Kazin, Alfred: Storia della letteratura americana.
Kobler, John: AI Capone.
Pole, Edgar Allan: Opere complete.
Praz, Mario: Storia della letteratura inglese e La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica.
Reed, John: Messico in fiamme.
Ricoeur, Paul: Dell’interpretazione - Saggio su Freud.
Szondì, Peter: Teoria del dramma moderno.
Todorov, Tzvetan: « Typologie du roman policer ›, Paragone - letteratura.
Franco Ferrini, I GENERI CLASSICI DEL CINEMA AMERICANO, BIANCO E NERO, 1974 Fascicolo ¾






lunedì 23 settembre 2019

The Evolution of the Western Movie from 1899 to 1954.



GRANDEZZA E DECADENZA DEI POVERI WESTERN

Da quando i film sono degni di tal nome, Hollywood rimase fedele a questa massima: che i film western, belli o brutti che siano, grandiosi o modesti, sono sempre un genere che bisogna tener d'occhio se si vuole che i conti dì cassa tornino.
Per molti, davvero molti anni, una tale massima trovò conferma nella realtà. The Great Train Robbery non fu, senza dubbio, benché molti l'affermino, il primo film a soggetto; e nemmeno fu, strettamente parlando - a meno che non si voglia dimenticare Cripple Creek Bar-Room - il primo western. Ma resta ad ogni modo certo che fu proprio questo film che stabili l'esatto valore del film western sia come contenuto (intreccio dì speciali avventure) e sia anche come rendimento di cassetta. Da allora in poi il western venne considerato un genere redditizio, attraverso le prime e tuttavia indimenticabili esibizioni dovute a Thomas Ince, con i già notevoli film di D. W. Griffith, nel periodo 1910-1914 (sono di quel periodo The Battle of Elderbu.sh Gulch e Broken Ways), soprattutto con i sorprendenti e castigati drammi selvaggi dì Wìlliam S. Hart. Con l'arrivo, nel '23, di The Covered Wagon diretto da James Cruze, un altro titolo di merito veniva ad aggiungersi a quelli già noti del film western e cioè che un tal genere poteva benissimo contribuire non soltanto all'arte cinematografica, ma, più importante ancora, alla sua industria. Nel 1924, a un anno appena di distanza da The Covered Wagon, la produzione dei western era addirittura triplicata, e da allora la definizione e le caratteristiche del western B ossia dei film western dì categoria minore, vennero accettate, a quanto ci risulta, per sempre. Una nuova, diversa più audace scuola di attori specialmente adatti a tal genere di film - Ken Maynard, Hoot Gibson ed altri - s'impose sul repertorio del tacito pioniere avventuroso impersonato da William S. Hart, ormai prossimo al ritiro, da Harry Carey, e anche da Buck Jones. Ciò accadeva nel 1924.
Trent'anni ·dopo ·assistiamo al fatale declino, dopo una gloriosa carriera del cosiddetto western B. L'ultimo di essi, Two Guns and a Badge, cessò il suo giro di programmazioni negli Stati Uniti il 12 settembre di quest'anno.
Quali furono, ci si domanda, le cause che portarono al fallimento la formula dei western di seconda categoria?
I "cicli", nella produzione dei western, sono sempre esistiti. The Covered Wagon iniziò un ciclo; un altro ciclo, assai notevole, nei primi trent' anni del nostro secolo, ebbe la massima espressione epica con The Big Trail, Cimarron e Billy the Kid. E un altro ancora, che rivelò nel 1939 i due colossi: Stagecoach e Union Pacijìc, rispettivamente di Ford e di De Mille, ebbe ai posti d'onore Jesse James e The Oldahoma Kid. I cicli sono stati tanti, ma la produzione che più ha resistito, ·sino ai giorni nostri, è stata quella dei western B, della durata dì 58 minuti. (continua)
WILLIAM K. EVERSON
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie  Anno VII 1954 10-25 Dicembre

In alto (a sinistra) Uno dei più noti  eroi dei vecchi western: W. S. Hart - al centro della foto - con Margery Wilson e Robert McKin in The Primal Lure (1916). (a destra) Il western non ha disdegnato anche le macchiette comiche: Louise Fazenda e Charles Murray in His Hereafter

domenica 22 settembre 2019

The tragedy of life ... is that man is never free



When young, we mourn for one woman.
As we grow old, for women in general.
The tragedy of life ... is that man is never free ... yet strives for what can never be.
The thing most feared in secret ... always happens.
My life, my loves, what are they now?
But the more the pain grows ... the more this instinct for life somehow asserts itself.
The necessary beauty in life is in giving yourself to it completely.




Quando siamo giovani, siamo disperati per una donna.
Quando invecchiamo, per le donne in generale.
La tragedia della vita è che l'uomo non è mai libero, ma lotta per l'impossibile.
La cosa segretamente più temuta sempre avviene.
La mia vita, i miei amori, cosa sono ora?
Ma più il dolore cresce, più questo istinto vitale in qualche modo si fa valere.
La bellezza necessaria della vita è darsi ad essa completamente.
Solo più tardi si rivelerà e diventerà coerente.
 Richard Liklater, Slacker, 1991

mercoledì 18 settembre 2019

Detective Thriller - e venne Raymond Chandler



Il tema della compulsione ricerca di un oggetto avente carattere di feticcio si ritrova anche in High  Window, tratto da un romanzo di Raymond Chandler, con George Montgomery nella parte del «detective ›› privato Philip Marlowe, in cui il feticcio è rappresentato da un'antichissima e preziosissima moneta sottratta ai legittimi proprietari, il Doblone dei Brazsher.
Il « detective ›› privato Philip Marilowe appare anche in Farewell. My Lovely di Edward Dimytrik, con Dick Powell nella parte del protagonista, in cui il regista ricerca equivalenti visuali della prosa, in prima persona, di Chandler. Quando Marlowe riceve una botta in testa il commento letterario è « A black pool opened at my feet; I dived in ›› [« un pozzo nero si spalancò ai miei piedi, e io vi sprofondai dentro ››]. Nel film invece a questo punto lo schermo si riempie d'inchiostro.
Marlowe appare ancora in The Lady in the Lake di George Montgomery, oltre che regista interprete principale. In questo film ogni differenza tra il romanzo originale e la trascrizione cinematografica tende a scomparire. Il romanzo è narrato in prima persona da Marlowe e il lettore è rinchiuso nell'ottica del personaggio. Lo stesso effetto è quello ricercato da George Montgomery girando il film come se fosse una lunga soggettiva di Marlowe, che vediamo soltanto una volta, quando si guarda allo specchio e la volontaristica « caméra stylo › dell'attore-regista ci restituisce il riflesso della sua presenza, visibile soltanto adesso ma teoricamente presente lungo tutto il film, durante le bizzarre peregrinazioni della macchina da presa. Secondo il progetto di Montgomery lo spettatore dovrebbe identificarsi completamente con Marlowe. Ma invece di aumentare il senso di partecipazione dello spettatore il ricorso a continue soggettive sortisce un effetto grossolanamente straniante.
Dal che si e ben guardato Alfred Hitchcock, che pure mira al massimo coinvolgimento e a fare dell'autentica direzione di spettatori, evitando prudentemente un uso così insolente e indiscreto delle soggettive. Quando nel film di Montgomery si vedono gli altri personaggi fissarci dallo schermo la nostra reazione è disastrosa: ci rendiamo subito conto che chiunque noi siamo non siamo certo Marlowe/Montgomery. Quando un personaggio dà un pugno in faccia a Marlowe la macchina da presa accusa il colpo, quando un altro punta minacciosamente contro di noi, si vede un pugno, teoricamente il nostro, sollevarsi dal fondo dello schermo per andarsi ad appiattire contro il naso di un faccione in primo piano. Insomma, The Lady in the Lake costituisce il più grosso fallimento del tentativo di applicazione al linguaggio cinematografico della tecnica letteraria d'affabulazione in prima persona e si pone come la più esemplare dimostrazione che le qualità maggiori del cinema americano vanno ricercate nell’accettazione delle costrizioni esistenti in seno al suo statuto formale [caratterizzazione dei personaggi in termini di azione, spigliatezza narrativa, fedeltà alla realtà pro-filmica, sequenza temporale discontinua attraverso un flusso continuo di immagini, valorizzazione dei punti di vista, verosimiglianza dello spazio assegnato ad ogni personaggio, finalizzazione drammatica e psicologica del «decoupage ] e non nelle « trouvailles ›› tecniche o nelle fanfaronate stilistiche (si ricordi che un grandissimo cineasta come Elia Kazan, per esempio, non ha inventato niente; lo stesso si potrebbe dire di Lubitsch, ecc...). (continua)
Franco Ferrini, I GENERI CLASSICI DEL CINEMA AMERICANO, BIANCO E NERO, 1974 Fascicolo ¾

martedì 17 settembre 2019

Il cavaliere e il partigiano Довженко

Олександр Петрович Довженко
Aleksandr Petrovič Dovženko
1894 - 1956

Sono il cavaliere, il partigiano dei problemi contemporanei. Non si parlerà mai troppo della nostra vita di oggi. Non bisogna annullarsi nella contemplazione del passato, o nella follia della grandezza, ma volgersi verso l'uomo di tutti i giorni. Dobbiamo comprendere che la goccia di rugiada può essere da sola lo specchio che riflette il mondo e l'intera società. E se il nostro è un grande paese è perché la gente comune è grande, importante.