Parlando
con Max Ophuels
Vedere Ophuels
a 1700 metri, col Monte
Rosa da una parte e la più
bella prateria dall'altra, se mi ha
fatto gradita meraviglia, mi à
riportato subito nell'inferno delle
inquietudini e dei dispiaceri, che il cinema
ci procura! Ci eravamo salutati a Milano, in una fumosa
sala da bar, alzando il bicchiere per augurio di non so
quale opera sua. Max Ophuels è venuto infatti quassù
per lavorare. Tutto il giorno se ne
sta rinchiuso o col regista
Kurt Alexander o col musicista Maestro Tullio Serafin e la sua segretaria in
una specie di sotterraneo,
destinato a diventare la
sala da ballo di questa specie di falso Grand Hotel
…
In attesa delle note di
un fox, i villeggianti, che spiano nel sotterraneo, sentono
le note del «Barbiere», intorno a cui Ophuels
sta immaginando le sue favole strabilianti.
Appena finita la
colazione è il solo momento che l'itinerario
della sua passeggiata sfiora il
recinto della mia baita e ci possiamo scambiare saluti e propositi.
Col naso in aria a prendere il sole e sdraiati
sull'erba, è la 801a posizione
rassicurante per discorrere dell'avvenire della cinematografia.
Tutte le
altre posizioni sono troppo
preoccupate e polemiche. Ophuels è pieno di
fede nel cinema italiano. Ha trovato in
Italia un clima cinematografico. «Ho visitato
mi dice, la Mostra della Rivoluzione. Permettete
a un regista di guardare le cose da
un punto di vista particolare. Mi è
parso che tutto fosse espresso con tale
immediatezza, rapidità, precisione, da rivelare
un linguaggio cinematografico già maturo. La stessa
osservazione ho fatto anche nelle più piccole cose. Mi sono·
guardato intorno per le vie della città. Ho trovato nei
manifesti, nei cartelli pubblicitari un
modo di espressione diretta, vivace, sollecita, molto
più suggestiva che non siano i manifesti, tipo profumi Coty o cioccolatto
Meunier, di altri paesi.
La gran massa del pubblico è
già disposta a capire un linguaggio cinematografico.
Soltanto che la vostra cinematografia è ancora inferiore al vostro pubblico».
Speriamo che così sia.
Gli domando degli attori,
delle maestranze. Mi dice che non ha
mai avuto interpreti così eccellenti. «L'attore
italiano è intelligentissimo, pieno di volontà
e di passione: ho potuto fare in Italia alcune esperienze
che non ero riuscito ancora a fare altrove».
Poiché Ophuels sta
lavorando intorno
al «Barbiere di Siviglia» è naturale che si parli
dei rapporti fra l'opera lirica e il cinematografo. Qui
siamo, a tutta prima, di parere opposto.
Ophuls è entusiasta
dell'idea di dare
espressione cinematografica
alle nostre opere. Per lui
è questo uno dei
contributi più preziosi
che l'Italia può dare al
cinema e per la diffusione
del cinema italiano in
Europa e soprattutto in America.
Tormentato
ancora dalle immagini dei nostri
illustri tenori sullo schermo, faccio distrattamente
le mie riserve. Ophuels scuote
la testa e mi agita
le braccia sul naso, col tono perentorio che supplisce
alla poca conoscenza della nostra lingua.
"Leggete lo scenario del "Barbiere" e poi mi direte il vostro parere».
Devo ritirare le mie riserve
per quanto concerne almeno, questo caso specifico.
Ogni scena è inquadrata in un tono di balletto,
di féerie, che permette al buon gusto del regista di
liberare i cantanti e gli sfondi da tutto ciò che gli uni e gli
altri avevano di più immobile, mummificato, immutabile. E'
stata anzi questa la sua trovata. Tutto si trasforma: si agita:
vive. Un venticello acuto e assillante soffia nel fuoco, e dal
principio alla fine le soluzioni inedite si inseguono, le cose
più assurde per il teatro divengono legittime e naturali; gli uomini
diventano burattini, maghi, spiriti. Siviglia stessa esce dal
suo cliché e rivela le sue strade, i suoi
alberi, i suoi tetti, da nuovi punti
di vista.
Non manca un finale
allarmante di humour
e di parodia; alcuni policemen in
motocicletta che fermano
i signori protagonisti per chiedere loro le carte in regola.
Ho avuto da questo
scenario la migliore
smentita a un mio parere troppo precipitoso. I lettori,
a cui posso offrire qualche pagina rigorosamente
inedita, direi, appena
sfornata dal famoso sotterraneo dei lavori,
potranno giudicarne.
Frattanto si avvicina la
presentazione pubblica di La donna di tutti. Un bel giorno Ophuels è
partito improvvisamente
per assistere allo spettacolo del Festival.
E' tornato due giorni dopo. Buon successo
di pubblico e di critica. Ma mi pare che
egli attenda il giudizio di un pubblico
più libero, meno snobistico, più inclinato a giudicare
il film senza la complicità di tutto
quello che di mirabolante il Festival può offrire.
Prima di lasciarci,
abbiamo dedicato un ultimo saluto al Cinema. A uno svolto di viottola ho
chiesto, senza preamboli, a Ophuels,
come se gli tirassi una revolverata: «ma infine, ci credete, che
un film sia un'opera d'arte?"
«Vi dico in un orecchio,
mi ha risposto, ma non ripetetelo a nessuno, che per me, se oggi
Shakespeare risuscitasse, scriverebbe i suoi
drammi «in cinematografo».
ENZO FERRIERI
CINE-CONVEGNO Anno II .- N. 3-4-5 25 Luglio 1934
(XII)
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