Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
mercoledì 13 aprile 2016
Senza sipario
Il Teatro Vittorio Emanuele di Messina non ha sempre avuto i fasti odierni, come neanche i direttori artistici. Fino ai primi anni ottanta del XX secolo si presentava sotto queste forme:
lunedì 11 aprile 2016
domenica 10 aprile 2016
Ewald André Dupont, cenere e oblio
Il secondo
capolavoro, Dupont lo girò in Inghilterra, ma con interpreti tedeschi:
l’affascinante Tala Birell, e gli eccellenti Conrad Veidt, Fritz Koetner ed
Heinrich George. Un naufrago chiede rifugio agli abitanti di un faro solitario
che fa fronte all’oceano perpetuamente infuriato. La donna è una ex-mondana, raccolta
dal grosso orso mansueto che è il guardiano del faro; il secondo guardiano;
insinuante e volpino, è l’amante della femmina. Con l’autorità che gli deriva
da un passato misterioso e da una più alta posizione sociale, il naufrago
conquista a sua volta la donna. Scoppia, violentissimo, il dramma: la polizia
viene a prendersi il naufrago, un uomo d’affari che aveva fatto bancarotta, la
donna riprende la via degli angiporti fangosi da cui è risalita.
Ora che Dupont ci ha lasciato (ma come non ricordare le
altre mirabili opere sue, Salto mortale,
Piccadilly, Atlantic ?), si palesa sempre più amaro il destino dei film che
abbiamo amato: caratterizzano una serie di anni, ci confidano il senso di
un’epoca. Ma non resta nulla di essi; sono diventati cenere e oblio.
I957
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972
Fortunale
sulla scogliera è uno
dei primi film parlati europei. L’autorità con la quale Dupont si è subito
impadronito del nuovo mezzo espressivo stupisce anche oggi i conoscitori. Tutta
l’opera e corsa da un contrappunto sonoro-visivo di allucinante potenza. Negli
ultimi venticinque anni non si è più fatto di meglio. Anche nel Fortunale, la donna, come in Variété, è una sorta di animale
selvatico e lascivo, che semina morti lungo il proprio cammino. Dupont sentiva
profondamente l’argomento della donna-disastro, e la scelta sua delle attrici
appare infallibile.
giovedì 7 aprile 2016
Ewald André Dupont, Variété
Un giorno dunque Dupont ricevette una telefonata dall’UFA: cercavano un regista che fosse pratico delle << coulisses >> e del mondo del varietà. Dupont modificò profondamente il soggetto propostogli, che non è nulla di eccezionale. Un <<artista >> del circo conduce un’esistenza senza sogni e senza avvenire vicino alla moglie sfiorita. Un giorno gli si offre l’occasione di proteggere una splendida giovane, che ha dei guai con la polizia. L’anziano uomo e la bella creatura diventano amanti, ben presto l’uomo abbandona la famiglia per seguire la piccola << vamp >>. Conosciuto un celebre trapezista, che ha perso il suo<< partner >>, gli amanti fanno con lui una nuova << troupe >> che ha un enorme successo. Ben presto, attratta dal brillante compagno, la bella Berta Maria tradisce con lui l’amante anziano. Che per un po’ non si accorge di nulla; poi, reso furioso da un’improvvisa rivelazione, uccide il rivale.
Variété ebbe un immenso successo perché descriveva un mondo a tutti noto, perché era interpretato magistralmente dal corpulento Emil Jannings, perché la ungherese Lya de Putti era dotata di un fascino eccezionale, ma soprattutto perché Dupont vi si rivelava regista di qualità rara. Il racconto è in forma autobiografica: in carcere l’innamorato di Berta Maria rievoca il passato. Ancora dopo tanti anni certi scorci, certe trovate, la bonaria risata di Jannings, la bellezza ambigua, perché disarmata, inconsapevole del peccato, di Lya de Putti restano nella memoria. La trappola del destino si chiudeva su un uomo tranquillo, sensato, per bene, con una meticolosità da partita doppia. Il rapporto Jannings-de Putti anticipa con straordinario rigore tutto quello che s’è visto in seguito nella stessa direzione, dal rapporto Jannings-Dietrich de L’angelo azzurro a quello Jean Gabin-Simon de L’angelo del male.
Variété ebbe un immenso successo perché descriveva un mondo a tutti noto, perché era interpretato magistralmente dal corpulento Emil Jannings, perché la ungherese Lya de Putti era dotata di un fascino eccezionale, ma soprattutto perché Dupont vi si rivelava regista di qualità rara. Il racconto è in forma autobiografica: in carcere l’innamorato di Berta Maria rievoca il passato. Ancora dopo tanti anni certi scorci, certe trovate, la bonaria risata di Jannings, la bellezza ambigua, perché disarmata, inconsapevole del peccato, di Lya de Putti restano nella memoria. La trappola del destino si chiudeva su un uomo tranquillo, sensato, per bene, con una meticolosità da partita doppia. Il rapporto Jannings-de Putti anticipa con straordinario rigore tutto quello che s’è visto in seguito nella stessa direzione, dal rapporto Jannings-Dietrich de L’angelo azzurro a quello Jean Gabin-Simon de L’angelo del male.
1957
(continua)
Pietro Bianchi, I maestri del cinema, 1972
mercoledì 6 aprile 2016
Ewald André Dupont, dall'Espressionismo all'America
Ewald André Dupont
1891 - 1956
Chi ami il cinema, e non sia troppo giovane, non può ignorare che Variété di Dupont è, come si dice, una pietra miliare dell’arte del film, e probabilmente l’opera più compiuta che ci abbia offerto la cinematografia tedesca degli anni prima di Hitler, quando», per una quantità di buone ragioni, un gruppo di registi geniali, Murnau, Wiene, Pabst, Lang, offri al mondo una dozzina di pellicole che non assomigliavano a nessun’altra e che la gente ricordava a lungo, affascinata e un tantino impaurita. Del gruppo, Dupont, forse perché israelita, era il meno tedesco, cioè il meno legato alla tematica esasperata dell’espressionismo. Le sue storie non erano popolate da incubi come Metropolis di Lang, Il dottor Caligari di Wiene, o il Faust di Murnau. Come i suoi grandi colleghi Lang e Murnau, Dupont fu indotto a espatriare dalla potenza finanziaria della produzione hollywoodiana, ghiotta a quegli anni, che sono pure gli anni di Greta Garbo e di Stroheim, di tutto ciò che sapesse d’Europa; il dissennato razzismo nazista perfezionò una condizione di profugo che Dupont non aveva affatto desiderata. Dopo aver mostrato la prepotente originalità del suo ingegno con Aurora, con Nostro pane quotidiano e con Tabù, Murnau perì in un incidente d’automobile; Dupont ebbe un felice periodo inglese nei primi anni del sonoro; Pabst lavorò in Francia con fortuna; Lang e ancora oggi sulla breccia. Dupont a Hollywood non ebbe che incarichi modesti, appena qualcosa per sopravvivere sinché un morbo brutale ha fatto tornare, per l’ultima volta, il suo nome sui giornali.
Con la parola << espressionismo >> i critici d’arte e gli storici della cultura sogliono definire quel movimento che nacque in Germania, agli inizi del Novecento, come reazione al verismo e all’impressionismo di scuola francese. Fede al genio della stirpe, l’espressionismo fu lirico, soggettivo, allucinato e violento. Anche se stilisticamente moderato. E.A. Dupont fu espressionista nel pieno senso del termine: nella ricerca di psicologie rare quanto esasperate, nel culto dei <<soggetti >> di chiara derivazione romantica.
Tutti questi registi, poi, hanno l’ossessione della donna come forza malefica, come elemento naturale scatenato, come divoratrice di maschi indifesi, come << vampiro >>. Brigitte Helm, in Metropolis di Fritz Lang, fu l’esempio più clamoroso; ma non vanno dimenticate le altre, che gli occhi della memoria ci riportano in torbido, fatale corteo: Lya de Putti e Tala Birell sono, assieme con la cinese Anna May Wong, i demoni familiari di Dupont; ma, in Asfalto, Betty Amann fu la femmina <<cattiva>> di Joe May. Ne La via senza gioia, Pabst proponeva Greta Garbo, mentre nell’ombra Joseph von Sternberg stava preparando il mito di Marlene Dietrich. Badate bene che nessuno osava scherzarci su: era in gioco la pelle o, quanto meno, la carriera. Se Sternberg non s’è più risollevato dal divorzio con Marlene, Lya de Putti e Betty Amann finiscono malamente. Murnau, come s’è accennato, peri in modo tragico, e Dupont, lontano dai << mostri>> della patria, non trovò più quiete e fortuna.
Come René Clair, Dupont veniva dal giornalismo; gli affidarono la regia di un film, miracoli di trent’anni fa, che in vita sua non aveva mai visto uno << studio >>. Non erano pellicole impegnative, tanto e vero che a un certo punto ne ebbe abbastanza e decise di finirla con il cinematografo. C’era a Mannheim un teatro di varietà, l’Apollo, che era da affittare: Dupont non perse un minuto e per lunghi mesi si dedicò alla scena minore. Il varietà lo affascinava anche se i guadagni erano men che modesti: era un divertimento costoso e cosi il giovanotto torno al cinema. Un giorno venne una telefonata dall’UFA, la famosa casa di produzione, fondata dagli industriali metallurgici che volevano dimostrare al mondo che la Germania non coincideva con l’immagine feroce e brutale della propaganda franco-inglese. Nella disfatta del novembre 1918 era andata in pezzi l’impalcatura militare prussiana, ma le strutture borghesi, la cultura erano ancora in piedi. I capi dell’ UFA fecero dei film per dimostrare che la Germania era un paese civile, e non per fare quattrini.
1957
(continua)
Con la parola << espressionismo >> i critici d’arte e gli storici della cultura sogliono definire quel movimento che nacque in Germania, agli inizi del Novecento, come reazione al verismo e all’impressionismo di scuola francese. Fede al genio della stirpe, l’espressionismo fu lirico, soggettivo, allucinato e violento. Anche se stilisticamente moderato. E.A. Dupont fu espressionista nel pieno senso del termine: nella ricerca di psicologie rare quanto esasperate, nel culto dei <<soggetti >> di chiara derivazione romantica.
Tutti questi registi, poi, hanno l’ossessione della donna come forza malefica, come elemento naturale scatenato, come divoratrice di maschi indifesi, come << vampiro >>. Brigitte Helm, in Metropolis di Fritz Lang, fu l’esempio più clamoroso; ma non vanno dimenticate le altre, che gli occhi della memoria ci riportano in torbido, fatale corteo: Lya de Putti e Tala Birell sono, assieme con la cinese Anna May Wong, i demoni familiari di Dupont; ma, in Asfalto, Betty Amann fu la femmina <<cattiva>> di Joe May. Ne La via senza gioia, Pabst proponeva Greta Garbo, mentre nell’ombra Joseph von Sternberg stava preparando il mito di Marlene Dietrich. Badate bene che nessuno osava scherzarci su: era in gioco la pelle o, quanto meno, la carriera. Se Sternberg non s’è più risollevato dal divorzio con Marlene, Lya de Putti e Betty Amann finiscono malamente. Murnau, come s’è accennato, peri in modo tragico, e Dupont, lontano dai << mostri>> della patria, non trovò più quiete e fortuna.
Come René Clair, Dupont veniva dal giornalismo; gli affidarono la regia di un film, miracoli di trent’anni fa, che in vita sua non aveva mai visto uno << studio >>. Non erano pellicole impegnative, tanto e vero che a un certo punto ne ebbe abbastanza e decise di finirla con il cinematografo. C’era a Mannheim un teatro di varietà, l’Apollo, che era da affittare: Dupont non perse un minuto e per lunghi mesi si dedicò alla scena minore. Il varietà lo affascinava anche se i guadagni erano men che modesti: era un divertimento costoso e cosi il giovanotto torno al cinema. Un giorno venne una telefonata dall’UFA, la famosa casa di produzione, fondata dagli industriali metallurgici che volevano dimostrare al mondo che la Germania non coincideva con l’immagine feroce e brutale della propaganda franco-inglese. Nella disfatta del novembre 1918 era andata in pezzi l’impalcatura militare prussiana, ma le strutture borghesi, la cultura erano ancora in piedi. I capi dell’ UFA fecero dei film per dimostrare che la Germania era un paese civile, e non per fare quattrini.
1957
(continua)
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972
lunedì 4 aprile 2016
Un uomo deve tenere fede alle proprie teorie
Brandon...
Fino ad ora, questo mondo e i suoi abitanti...
sono sempre stati oscuri e incomprensibili per me.
Io ho sempre cercato di farmi strada con la logica...
e con la superiorità intellettuale...
ma stasera mi hai ributtato in faccia le mie stesse parole.
Avevi ragione. Se non altro, un uomo deve tenere fede alle
proprie teorie.
Ma hai conferito alle mie parole un significato che non ho
mai sognato.
Le hai trasformate in una fredda e logica scusa per un
omicidio spietato!
Ma io non le ho mai intese così,
Brandon.
E non puoi rigirarle così.
Qualcosa di profondo dentro di te... deve averti spinto a
questo.
Ma qualcosa di profondo dentro me non mi permetterebbe mai
di farlo.
E non posso esserne complice.
Stasera mi hai fatto vergognare di tutti i concetti da me elaborati...
sugli esseri superiori o inferiori.
Ma di questo ti ringrazio...
perché ora capisco che ognuno di noi è un essere distinto e unico...
con il diritto di vivere e lavorare e pensare come individuo...
ma con degli obblighi nei confronti della società in cui
viviamo.
Con che diritto osi affermare...
che esiste un'élite superiore di cui tu faresti parte?
Con che diritto hai deciso...
che il ragazzo lì dentro era inferiore e quindi degno di morire?
Credi forse di essere Dio, Brandon?
E' questo che credevi quando gli hai fatto esalare l'ultimo respiro?
Quando hai servito la cena sulla sua tomba?
Io non so cosa pensavi, ma so cos'hai fatto.
Hai ucciso, hai strangolato un essere umano...
che sapeva vivere e amare come tu non hai mai saputo fare.
E non saprai mai.
James Stewart in Alfred Hitchcock's Rope (Nodo alla gola) , 1948
domenica 3 aprile 2016
Hitchcockiana
Il cinema di Alfred Hitchcock è già stato suddiviso in due periodi:
quello inglese e quello americano. Questa facile suddivisione è dovuta alla
migrazione del nostro in terra statunitense agli inizi degli anni quaranta del
secolo della bomba atomica, chiamato all’ombra di David O. Selznick. Con vista
più acuta il periodo inglese è stato infoltito anche stando sotto la bandiera a
stelle e strisce: da Foreign
Correspondent (Il prigioniero di Amsterdam)del 1940 a Frenzy del 1972. E’ questa
una suddivisione sbrigativa essendo in realtà l’Inghilterra divenuta, all’alba
del secondo conflitto mondiale, uno stato incorporato nella bandiera da poco
citata, regina Elisabetta compresa. Lo diciamo soltanto poiché la sudditanza
traspare anche dalle opere e dagli interessi di Mr. Hitchcock. La filmografia è
ancora suddividibile secondo i propri gusti: la commedia, il poliziesco, il
thriller, lo psicanalitico e lo spionistico. Quest’ultimo è assimilabile al
genere avventuroso dove le azioni si svolgono in vari paesi di diversa cultura
o, meglio, con Poteri diversi, anche religiosi. Ancora: è il genere dove il
regista si è lasciato andare alla deriva, sembrando quasi un componente
dell’ufficio stampa della CIA o, se vi pare, dell’Alleanza Atlantica. In queste
occasioni e in molti altri film la colpa è riconducibile alla meschinità degli
sceneggiatori, aggiungendovi, Hitchcock di suo, la volontà di un lauto
compenso. Contrariamente a molti autori
per capire i lavori di Alfred Hitchcock non servono monografie o saggi critici
basta la lunga intervista che questi ebbe con il suo collega francese Francois
Truffaut; per il resto ognuno può districarsela da sé vedendovi quello che gli
pare. Qui interessa sottolineare accanto alle influenze filmiche di natura
espressionista anche quella sentimentale e collaborativa di natura revilliana,
richiamando con questo termine la presenza costante di Alma Reville, meglio
conosciuta come signora Hitchcock. Ma c’è un aspetto nelle sue opere migliori (The Lodger, Murder, Shadow of a Doub,Psyco) che il libro di Truffaut non
mette bene in risalto ed è quello umano e compassionevole che molte volte
chiama in campo un autore secondo noi molto vicino ad Hitchcock: Carl T.
Dreyer.
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