Ewald André Dupont
1891 - 1956
Chi ami il cinema, e non sia troppo giovane, non può ignorare che Variété di Dupont è, come si dice, una pietra miliare dell’arte del film, e probabilmente l’opera più compiuta che ci abbia offerto la cinematografia tedesca degli anni prima di Hitler, quando», per una quantità di buone ragioni, un gruppo di registi geniali, Murnau, Wiene, Pabst, Lang, offri al mondo una dozzina di pellicole che non assomigliavano a nessun’altra e che la gente ricordava a lungo, affascinata e un tantino impaurita. Del gruppo, Dupont, forse perché israelita, era il meno tedesco, cioè il meno legato alla tematica esasperata dell’espressionismo. Le sue storie non erano popolate da incubi come Metropolis di Lang, Il dottor Caligari di Wiene, o il Faust di Murnau. Come i suoi grandi colleghi Lang e Murnau, Dupont fu indotto a espatriare dalla potenza finanziaria della produzione hollywoodiana, ghiotta a quegli anni, che sono pure gli anni di Greta Garbo e di Stroheim, di tutto ciò che sapesse d’Europa; il dissennato razzismo nazista perfezionò una condizione di profugo che Dupont non aveva affatto desiderata. Dopo aver mostrato la prepotente originalità del suo ingegno con Aurora, con Nostro pane quotidiano e con Tabù, Murnau perì in un incidente d’automobile; Dupont ebbe un felice periodo inglese nei primi anni del sonoro; Pabst lavorò in Francia con fortuna; Lang e ancora oggi sulla breccia. Dupont a Hollywood non ebbe che incarichi modesti, appena qualcosa per sopravvivere sinché un morbo brutale ha fatto tornare, per l’ultima volta, il suo nome sui giornali.
Con la parola << espressionismo >> i critici d’arte e gli storici della cultura sogliono definire quel movimento che nacque in Germania, agli inizi del Novecento, come reazione al verismo e all’impressionismo di scuola francese. Fede al genio della stirpe, l’espressionismo fu lirico, soggettivo, allucinato e violento. Anche se stilisticamente moderato. E.A. Dupont fu espressionista nel pieno senso del termine: nella ricerca di psicologie rare quanto esasperate, nel culto dei <<soggetti >> di chiara derivazione romantica.
Tutti questi registi, poi, hanno l’ossessione della donna come forza malefica, come elemento naturale scatenato, come divoratrice di maschi indifesi, come << vampiro >>. Brigitte Helm, in Metropolis di Fritz Lang, fu l’esempio più clamoroso; ma non vanno dimenticate le altre, che gli occhi della memoria ci riportano in torbido, fatale corteo: Lya de Putti e Tala Birell sono, assieme con la cinese Anna May Wong, i demoni familiari di Dupont; ma, in Asfalto, Betty Amann fu la femmina <<cattiva>> di Joe May. Ne La via senza gioia, Pabst proponeva Greta Garbo, mentre nell’ombra Joseph von Sternberg stava preparando il mito di Marlene Dietrich. Badate bene che nessuno osava scherzarci su: era in gioco la pelle o, quanto meno, la carriera. Se Sternberg non s’è più risollevato dal divorzio con Marlene, Lya de Putti e Betty Amann finiscono malamente. Murnau, come s’è accennato, peri in modo tragico, e Dupont, lontano dai << mostri>> della patria, non trovò più quiete e fortuna.
Come René Clair, Dupont veniva dal giornalismo; gli affidarono la regia di un film, miracoli di trent’anni fa, che in vita sua non aveva mai visto uno << studio >>. Non erano pellicole impegnative, tanto e vero che a un certo punto ne ebbe abbastanza e decise di finirla con il cinematografo. C’era a Mannheim un teatro di varietà, l’Apollo, che era da affittare: Dupont non perse un minuto e per lunghi mesi si dedicò alla scena minore. Il varietà lo affascinava anche se i guadagni erano men che modesti: era un divertimento costoso e cosi il giovanotto torno al cinema. Un giorno venne una telefonata dall’UFA, la famosa casa di produzione, fondata dagli industriali metallurgici che volevano dimostrare al mondo che la Germania non coincideva con l’immagine feroce e brutale della propaganda franco-inglese. Nella disfatta del novembre 1918 era andata in pezzi l’impalcatura militare prussiana, ma le strutture borghesi, la cultura erano ancora in piedi. I capi dell’ UFA fecero dei film per dimostrare che la Germania era un paese civile, e non per fare quattrini.
1957
(continua)
Con la parola << espressionismo >> i critici d’arte e gli storici della cultura sogliono definire quel movimento che nacque in Germania, agli inizi del Novecento, come reazione al verismo e all’impressionismo di scuola francese. Fede al genio della stirpe, l’espressionismo fu lirico, soggettivo, allucinato e violento. Anche se stilisticamente moderato. E.A. Dupont fu espressionista nel pieno senso del termine: nella ricerca di psicologie rare quanto esasperate, nel culto dei <<soggetti >> di chiara derivazione romantica.
Tutti questi registi, poi, hanno l’ossessione della donna come forza malefica, come elemento naturale scatenato, come divoratrice di maschi indifesi, come << vampiro >>. Brigitte Helm, in Metropolis di Fritz Lang, fu l’esempio più clamoroso; ma non vanno dimenticate le altre, che gli occhi della memoria ci riportano in torbido, fatale corteo: Lya de Putti e Tala Birell sono, assieme con la cinese Anna May Wong, i demoni familiari di Dupont; ma, in Asfalto, Betty Amann fu la femmina <<cattiva>> di Joe May. Ne La via senza gioia, Pabst proponeva Greta Garbo, mentre nell’ombra Joseph von Sternberg stava preparando il mito di Marlene Dietrich. Badate bene che nessuno osava scherzarci su: era in gioco la pelle o, quanto meno, la carriera. Se Sternberg non s’è più risollevato dal divorzio con Marlene, Lya de Putti e Betty Amann finiscono malamente. Murnau, come s’è accennato, peri in modo tragico, e Dupont, lontano dai << mostri>> della patria, non trovò più quiete e fortuna.
Come René Clair, Dupont veniva dal giornalismo; gli affidarono la regia di un film, miracoli di trent’anni fa, che in vita sua non aveva mai visto uno << studio >>. Non erano pellicole impegnative, tanto e vero che a un certo punto ne ebbe abbastanza e decise di finirla con il cinematografo. C’era a Mannheim un teatro di varietà, l’Apollo, che era da affittare: Dupont non perse un minuto e per lunghi mesi si dedicò alla scena minore. Il varietà lo affascinava anche se i guadagni erano men che modesti: era un divertimento costoso e cosi il giovanotto torno al cinema. Un giorno venne una telefonata dall’UFA, la famosa casa di produzione, fondata dagli industriali metallurgici che volevano dimostrare al mondo che la Germania non coincideva con l’immagine feroce e brutale della propaganda franco-inglese. Nella disfatta del novembre 1918 era andata in pezzi l’impalcatura militare prussiana, ma le strutture borghesi, la cultura erano ancora in piedi. I capi dell’ UFA fecero dei film per dimostrare che la Germania era un paese civile, e non per fare quattrini.
1957
(continua)
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972
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