domenica 15 novembre 2015

Jean Prévost e Robert Brasillach scoprono il cinema 2

In Francia, paese cattolico alle frontiere con le nazioni protestanti, vige dal ”6oo, da quando il Re Sole fece abbattere i muri degli eremi di Port Royal, una sotterranea polemica che è la polemica giansenistica. I solitari pensatori di Port Royal volevano immettere nella coscienza cattolica la sottile angoscia della Grazia. Perché alcuni di noi saranno eletti nel cielo ed altri condannati alle tenebre eterne? Perché Dio, che sa tutto, ha deciso lui di scegliere nella paurosa lotta della salvazione? E come ammettere il velo di oscurità, la cortina fumogena, diremmo noi moderni, che l'autorità di Roma ha voluto porre, schivando le pagine di Sant”Agostino, su tale problema?
Spianate le tende dei nuovi profeti, la polemica, come s'è detto, è continuata sotterranea nella Francia moderna. Essa è arrivata alla luce del sole tutte le volte che il paese è stato squassato da una ideologia, da una passione, o dal piede dello straniero. Il problema s'è posto con Zola durante l'affare Dreyfus; con Jaurès e con Péguy al principio dell'altra guerra; s”è ripresentato con i nostri due morti nel corso della lotta civile che ha opposto sanguinosamente le due Francie negli anni del1°occupazione tedesca.
Il dovere s'è atteggiato, per chi era in buona fede, per chi si è buttato nella lotta col cuore, in due modi' diversi. Tanto Brasillach come Prévost hanno pagato con la vita la fede alla loro giovinezza; ma uno è morto alla luce del sole e l'altro negli incerti mattini che assistono alle esecuzioni.
Non è lecito ricercare nei due, oltre la polemica che non tocca uno straniero educato, il punto del loro avvicinarsi?

Questo punto è, ancora una volta, il cinematografo. Il cardinale di Retz, che era stato un protagonista della prima Fronda e che era quindi in grado di intendersene, ha lasciato scritto che << la più grande disgrazia delle guerre civili è che si è responsabili anche del male che non s'è fatto >>. Ricordiamoci che la pagina innocente nella cultura di questi due scrittori, come si dice con termine alla moda, << impegnati >> nelle passioni e nelle fazioni del loro tempo è stato il gusto delle sale oscure, dove esseri silenziosi, che non si
conoscono, che sono stati lì condotti dal caso, assistono con interesse, con noia e qualche volta con disgusto, ad azioni, fantasticherie, atteggiamenti di ombre che si muovono nel fondo, proiettate da un fascio di luce, sulla bianca tela dello schermo.
Questo fatto enorme che è stato il cinematografo per i moderni, s’è incontrato in due intelligenze, votate per tutto il resto alle differenze più complete, ma, in questo piacere, all’unisono. Per questo piacere le due esistenze hanno avuto un momento di abbandono e di quiete. Avvicinati dal gusto del cinema, Roberto e Giovanni hanno trovato momenti di calma, di tranquillità, di sogno, in anni che non promettevano nulla di buono. Forse anche una conferma e un incoraggiamento al loro egoismo. Forse Brasillach e Prévost hanno trovato la forza della penosa ultima ora nel ricordo degli incantevoli, innocenti film in cui una civiltà lontana, e per tanti lati ancor fanciullesca, rievocava le storie del passato prossimo. Con l’infallibile << Colt» impugnata dalla mano ferma, William Hart abbatteva, uno dopo l'altro, gli indiani o i banditi assalitori; Douglas, nelle vesti di Zorro, sfidava i più incredibili pericoli; più umanamente, con più profonda poesia, armato solo di una bombetta, di scarpe sformate, di un ridicolo bastoncino, Carletto Chaplin affrontava le miserie dell’esistenza e le delusioni d’amore. Nel buio, due giovani, ancora felici, che avevano successo nella vita, i cui libri erano apprezzati, la cui salute era buona, assistevano commossi a così innamoranti finzioni di vita. Mai avrebbero pensato che sopra di loro incombeva un nembo ben più tremendo, che il cinema, come le antiche arti, avrebbe conquistato le sue patenti di nobiltà insegnando le cose supreme.


Nelle paginette eleganti della «Nouvelle Revue Française >> e della << Revue Universelle >> Prévost e Brasillach stendevano, acutamente, amorosamente, sul cinema le loro intelligenti riflessioni critiche. Forse il cinema li ha premia ti insegnando loro', non solo a vivere, ma a morire.
                                                                                                                        1948

 Pietro Bianchi, Maestri del Cinema, 1972

giovedì 12 novembre 2015

Jean Prévost e Robert Brasillach scoprono il cinema

  ROBERTO E GIOVANNI

Fra i critici cinematografici francesi << fra le due guerre >>, due, che erano anche romanzieri e saggisti di larga fama, emersero per doti singolari, per una sorta di fiamma, di calore, di grazia che emanava dalle loro riflessioni. Per dir tutto, da quel dono che gli dei, che sovrintendono a queste cose, largiscono soltanto a pochissimi, il dono della personalità. I due critici si chiamavano Jean Prévost e Robert Brasillach.
 Ora, da un po' di tempo, il ricordo di questi due morti (perché di due morti si tratta) ci ossessiona. Erano, anno più anno meno, della nostra generazione. Sarebbero stati cioè, in questo anno '48, l”uno Prévost, alquanto sopra, l'altro Brasillach. appena sotto i quarant'anni, età nella quale chi può, chi se la sente, tira un primo bilancio; e, ciò che più conta, entrambi morirono di morte fulminea, non per repentina malattia o per disgrazia, ma travolti nella guerra civile. Jean Prévost, dei due il più anziano, è morto in una luce gloriosa, in un patetico alone di sacrificio e di speranza; con le armi alla mano, da protagonista della Resistenza, in un agguato teso dai nemici: Robert Brasillach è invece caduto sotto le pallottole dei gollisti, che lo condannarono a morte, per tradimento, pochi mesi dopo la cacciata dei tedeschi dalla Francia.
I due destini, come si è detto, ci angosciano. Quello che è successo a Prévost e a Brasillach poteva succedere a noi e ai nostri amici. E gli interessi culturali dell'uno e dell’altro ci erano tanto vicini, da aver l’impressione, leggendoli, di intendere la voce di un compagno di banco, di un collega di università o di redazione. Si intende che la fine di Brasillach, per quel moto del cuore per cui i peccatori puniti ci sono più vicini della gente meno avventurosa, ci è vicina con maggior urgenza di quella di Jean Prévost; eppure, per uno straniero disinteressato, forse per lo storico futuro, i binari del loro destino, cosi divergenti nella cronaca contemporanea, finiscono per unirsi. Per ciò che riguarda il cinematografo, la testimonianza di Prévost come quella di Brasillach è una testimonianza preziosa. Sono, nel primo dopoguerra, degli intellettuali che si avvicinano al cinematografo, non più per sfruttarlo o per un labile divertimento. ma per comprenderlo, amandolo. Per molti uomini di lettere, usciti, adolescenti o ragazzi, dalla vittoria del '19, il cinematografo fu davvero una scoperta vitale, una finestra spalancata su panorami e vie sconosciute, una magica possibilità offerta a un romantico desiderio di cose nuove, di nuove esperienze, di conturbanti scoperte. Questa testimonianza è affidata sia nell'uno che nell’altro scrittore a due delicati romanzi, in cui la parte autobiografica ha, come accade, un accento più puro e pagine rivelatrici. 
In << Diciottesimo anno >> Prévost ha fatto il racconto della sua giovinezza studiosa, del suo incontro con la politica attiva e con l’insegnamento di uno dei cervelli più lucidi, dei caratteri più fermi, delle coscienze più singolari di Francia, il filosofo Alain, Prévost vi racconta che, diciottenne, andò incontro, portando la bandiera rossa, alle << matraques ›› dei poliziotti. Con lo stesso animo, vent'anni più tardi affronterà le pallottole naziste. Ne << I sette colori >> Brasillach narra
(cronologicamente siamo a dieci anni di distanza dal romanzo di Prévost) il suo ritiro studioso nella Rue d’Ulm, ospite della Scuola normale superiore, la scoperta del cinema e della politica fascista. Una premessa morale, un'idea abbracciata in fretta da giovani, il gusto della cultura e del cinema, presiedono dunque << in nuce >› al destino dei due scrittori. Ora noi ci chiediamo non perché sono morti, ma perché non sono caduti nella stessa parte delle barricate (puramente figurate, questa volta) della guerra civile.
In Francia, paese cattolico alle frontiere con le nazioni protestanti, vige dal ”6oo, da quando il Re Sole fece abbattere i muri degli eremi di Port Royal, una sotterranea polemica che è la polemica giansenistica. I solitari pensatori di Port Royal volevano immettere nella coscienza cattolica la sottile angoscia della Grazia. Perché alcuni di noi saranno eletti nel cielo ed altri condannati alle tenebre eterne? Perché Dio, che sa tutto, ha deciso lui di scegliere nella paurosa lotta della salvazione? E come ammettere il velo di oscurità, la cortina fumogena, diremmo noi moderni, che l'autorità di Roma ha voluto porre, schivando le pagine di Sant”Agostino, su tale problema?
Spianate le tende dei nuovi profeti, la polemica, come s'è detto, è continuata sotterranea nella Francia moderna. Essa è arrivata alla luce del sole tutte le volte che il paese è stato squassato da una ideologia, da una passione, o dal piede dello straniero. Il problema s'è posto con Zola durante l'affare Dreyfus; con Jaurès e con Péguy al principio dell'altra guerra; s”è ripresentato con i nostri due morti nel corso della lotta civile che ha opposto sanguinosamente le due Francie negli anni del1°occupazione tedesca.
Il dovere s'è atteggiato, per chi era in buona fede, per chi si è buttato nella lotta col cuore, in due modi' diversi. Tanto Brasillach come Prévost hanno pagato con la vita la fede alla loro giovinezza; ma uno è morto alla luce del sole e l'altro negli incerti mattini che assistono alle esecuzioni.
Non è lecito ricercare nei due, oltre la polemica che non tocca uno straniero educato, il punto del loro avvicinarsi?
                                                                                                                                                                     continua
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972

mercoledì 11 novembre 2015

L' amaro Averno

OGGI

Il mito greco è sempre stato riplasmato ad uso e convenienza latina. Se ne impossessò dapprima la letteratura – non tutti sono Ste fano D’Arrigo – ed il cinema vi si adeguò da par suo. Sullo schermo i personaggi della mitologia greca sono stati rivisitati, corretti e adattati a soggetti per un pubblico vasto e senza pretese di correttezza. Non sono  sfuggiti a questo procedimento né Ercole e Deianira così come Teseo, Giocasta, la Sibilla e le Esperidi in questo Ercole al centro della terra di Mario Bava del 1961. La novità è nella commistione dei generi cinematografici di più facile presa sul pubblico: il peplum ed il macabro. Ancora nuovo è l’uso espansivo di effetti speciali e luci, e chi meglio di Mario Bava si poteva districare con gelatine, fantocci e modellini? Agli attori si chiedeva poco: prestanza fisica e qualche acrobazia, mentre a Cristopher Lee la solita perfidia di classe made in England.
Questi prodotti alla fine del loro viaggio nelle sale laiche finivano sgonfiati in 16 mm per la gioia del pubblico infantile delle sale parrocchiali, sottacendo i guadagni dei parroci come dei distributori di film a passo ridotto.



lunedì 9 novembre 2015

Iginio Lardani Express

Ci sono molti indizi per attribuire questo prossimamente per il film di Michele Lupo del 1976 ad Iginio Lardani come la  grafica e le animazioni
 

domenica 8 novembre 2015

La casa sulla collina


Sai, costruiremo la nostra casa
proprio in cima a una collina. 
Noi giapponesi abbiamo sempre avuto
l'abitudine di costruire le case... 
...in terreni bassi, o magari
nelle valli, tra le montagne... 
...o nei boschi,
sui bordi dei laghi.

Sì, è vero.

Ho visto dei quadri,
una volta, di paesi stranieri. 
E lì, le case
erano tutte in alto. 
Invece, da noi, le case
di solito le fanno in basso.
C'è una ragione per questo sai? 
In Giappone abbiamo
terremoti, i grandi tifoni. 
Le case di legno in luoghi alti
vengono facilmente distrutte... 
...da terremoti e tifoni. 
Quindi fecero le case in basso
perché fossero più al sicuro.

Però, vedi,
questa non è l'unica ragione.
Noi giapponesi amiamo di più
la luce morbida e diffusa...
...piuttosto che
quella violenta del sole.
Noi preferiamo l'ombra. 
E poi, a noi piace, sopra ogni
cosa, vivere in mezzo alla natura.
È per questo che non ci siamo
mai adattati alle case di pietra.

Sì, è giusto. Neanche a me
piacciono le case di pietra.
Sono troppo fredde per me.

Comunque non dobbiamo
dimenticare una cosa.
È vero che ci piacciono
le case di legno,... 
...ma per questa nostra
tradizionale preferenza... 
...rischiamo di restare gente debole.
senza profonde capacità di resistenza.
Gli stranieri
sono duri e aggressivi... 
...principalmente perché
da tempo vivono... 
...in grandi case
fatte di pietra e di cemento.
Ma adesso è venuto il momento
di costruire la nostra casa.
Noi dobbiamo pensare
al nostro futuro.
Al nostro
e a quello dei tuoi figli.
E a quello
dei tuoi nipoti e pronipoti.


Trovo che è giusto.

Dialogo tratto da Dodes'ka-den (1970) di Akira Kurosawa

mercoledì 28 ottobre 2015

Who is the little guy?



 Continuando il discorso intrapreso sul passaggio dal cinema muto a quello sonoro ecco due film più che rappresentativi dell’epoca d’oro hollywoodiana, prodotti nello stesso anno, 1928, l’uno per la ditta MGM, l’altro per quella Zukor/Lasky. Il film di Joseph Von Sternberg e quello di King Vidor ci offrono l’occasione di vedere con gli occhi, stando alle spalle degli operatori alla macchina, cosa accadeva durante la realizzazione di un film, sia esso drammatico, quello di Von Sternberg, sia esso comico, quello di Vidor. I due suscitano profonde emozioni al limite del pianto che si trasforma in rimpianto: il fremito finale di Emil Jannings in The Last Command (Crepuscolo di gloria), la richiesta dell’autografo da parte di Charlie Chaplin alla protagonista di Show People (Maschere di celluloide) Marion Davies. Nelle due opere citate Joseph Von Sternberg si fa rappresentare in scena da William Powell, King Vidor appare “ live “.


 

martedì 27 ottobre 2015

Stretto strettamente sonoro

Giovanni Rappazzo Messina 1893 . 1995

Il Cinema italiano, a partire dal 1895, si servì di accompagnamenti musicali dal vivo o da dischi preregistrati
che fornivano una sonorizzazione rozza e asincrona dei film. Il problema di una sincronizzazione magnetica venne risolto nel 1921 dal messinese Giovanni Rappazzo, il quale inventò e poi brevettò il sistema di una “pellicola a impressione contemporanea di immagine e suoni” su nastro magnetico. Purtroppo Rappazzo non trovò alcun finanziamento, il brevetto scadde il 30 marzo 1924 e non fu rinnovato, permettendo così all’americana Fox di brevettare esattamente quello che Rappazzo aveva già brevettato e fatto scadere. Con questa acquisizione della Fox nasceva nel 1929 il cinema sonoro, mentre sulla grande scoperta di Rappazzo, che è stato di fatto l”inventore del sonoro sincronizzato, calò l`oblio.

Ennio Bispuri, Il Cinema Italiano in 100 parole, Gremese, 2015