lunedì 22 dicembre 2014

Scheherezade o La schiava di Bagdad

Il Film di Natale


Capita spesso che bisogna togliere al film la firma del regista e dare la paternità dell’opera al fotografo o datore di luci. Per Scheherazade (1963) spetta di diritto a Christian Matras. Il film è suo perché l’occhio che ha impresso il tutto appartiene a lui, incorniciando il film per mezzo di cineprese M. C. S. 70 in un incomparabile SUPERPANORAMA70, variante tutta francese del Cinemascope.
Sollevata Anna Karina, l’unico attore a salvarsi è Fausto Tozzi. I restanti sono sole delle permanenti vaganti compreso Giuliano Gemma. Gérard Barray è peggio di Raf Vallone nel Mandrin di Mario Soldati.
Sul set data la presenza della bella Karina compariva spesso Jean-Luc Godard, quando non visitava il set di Au Hazard Balthazar dove c’era Anne Wiazemski.
E noi qui ad immaginare le grasse risate che scoppiavano tra Anna e Jean-Luc a spalle di Pierre Gaspard-Huit, inetto non solo con parrucche e costumi ma anche con cavalli e dromedari, per non dire con spade e scimitarre!






Christian Matras  1903 - 1977

Breve filmografia ragionata
1952 : Le Plaisir de Max Ophüls (segment Le Masque etLa Maison Tellier)
1967 : Sept fois femme (Woman Times Seven) de Vittorio De Sica



domenica 21 dicembre 2014

High Noon reloaded


Nel 1952 veniva presentato in Italia Mezzogiorno di fuoco. L'incarico di trasferirlo sul manifesto fu affidato ad Iginio Lardani che realizzò un painting infuocato per i muri della penisola.

martedì 16 dicembre 2014

Maestro ai maestri






Post addietro si sono avanzate delle accuse al Maestro Ennio Morricone, oggi si vuole rendere a Cesare quello che è suo.
Il Maestro è stato “ the most important composer of XXth century “ come ha asserito qualcuno. E’ un pò esagerato esagerato visto che hanno agito in quel secolo Benjamin Britten, Dmitri Shostakovich e Joh Cage. Cosi anche gli WHO, i Pink Floyd e Neil Young. Certamente lo è stato nella musica applicata all’immagine. Egli in quell’ambito ha detto la parola, o se preferite, la nota, definitiva, così come lo hanno fatto J. S. Bach per la musica barocca, W. A. Mozart per il concertismo e il melodramma, G, Verdi per la lirica. Solo di recente, a lui abbiamo accostato i compositori che hanno lavorato per Kenji Mizoguchi e Yasujiro Ozu e a questi ... il silenzio, forse il miglior commento musicale.
Al Maestro dobbiamo rendere un altro merito che pochi gli riconoscono: è stato un datore di lavoro. Con lui hanno avuto uno stipendio orchestrali (quante orchestre fondate e sciolte, la migliore l’Unione Musicisti Roma), solisti e direttori. Con lui hanno riscosso fama e ricchezza Alessandro Alessandroni ed Edda Dall’Orso, il primo zufolando la seconda gorgheggiando. Infine gli studi di registrazione come il mitico Orthophonic di Sergio (quanti Sergio nella vita del Maestro!) Marcotulli. E se il cinema italiano è stato ricco di generi quanto quello made in USA, il Maestro per quei generi ha dato una traccia cui si sono indirizzati altri compositori con esiti diseguali. Il lavoro non è stato condotto “ all’americana “, dove i compositori stendono quattro note e una miriade di professori continua tutta la partitura, e con l’avvento dei sintetizzatori una schiera di tastieristi che compongono sullo strumento, ad orecchio, e sempre i professori stendono le note sullo spartito. Ai primi vanno le statuette ai secondi solo una citazione nei titoli di coda, con caratteri indecifrabili. Il nostro ha seguito passo per passo sia la composizione al pentagramma, sia l’esecuzione, esecutori compresi; tant’è che per distinguere il suo lavoro dagli altri ha dovuto coniare una dicitura: “ musica, composta, orchestrata e diretta da “, che a lui solo va apposta.

Tutto ciò cominciò quando il Maestro arrangiava e dirigeva musica definita “ leggera “. Di tutto quell’ampia produzione ricordiamo solo Se telefonando un capolavoro di testo e note applicato alla voce indiscussa di Mina.


Riavvolgiamo il nastro


Consideriamo il periodo 1965 - 1975 come aureo. Il Maestro è il più famoso arrangiatore e direttore d’orchestra nella musica leggera. Questa attività verrà dismessa solo a contratti onorati, quando diviene definitivo l’impegno per il cinema. Il periodo 65-75 lo leghiamo tra due lavori portati a termine per Bernardo Bertolucci: Prima della rivoluzione e Novecento. Già nei titoli troviamo l’evoluzione verso l’antonale ed l’involuzione verso forme classiche. E’ il periodo più fruttuoso e vantaggioso durante il quale verranno forgiati i caratteri e i timbri per il prossimo futuro. E’ il periodo della sperimentazione su tutti i fronti: i rumori incontrano i suoni, la voce un particolare strumento o tutta l’orchestra, fino alla fusione finale.
Quello che seguirà dopo servirà ad accrescere e consolidare la sua fama con opere di grande impatto emotivo e collaborazioni spesso isolate con registi affermati.
La crescente fama del maestro per anni è stata legata ad un sottobosco di fans e cultori anonimi sparsi in tutto il pianeta e di cui si ammiravano più le partiture musicali che l’opera ad esse legata, fino alla definitiva consacrazione ad opera di gente del rock anglo-americano: Clash, Wall of Voodoo, il Boss Bruce e per tutti il piccolo grande John Zorn che diffuse con rifacimenti e antologie discografiche il periodo in questione.
Alla metà degli anni settanta gli adepti del Maestro Morricone andavano cercando qualsiasi notizia lo legasse ai progetti musicali. Ogni suo gesto era atteso con ansia e non solo i film legati agli autori affermati e riconosciuti ma anche ai moltissimi che alimentavano le produzioni da portare nei numerosi cinema sparsi nella penisola e all’estero. La maggior parte delle composizioni erano legate ai generi che si susseguivano, dal western, al giallo, all’erotico d’autore, ai de cameroni, per finire con esorcicci, poliziotti e criminali efferati. A tutti il Mestro imponeva la sua benedizione e molto spesso sonorità e strumenti finivano a commentare i film di Petri, Bolognini o Verneuil, per finire con Brian De Palma e il concertismo degli ultimi Tornatore.
Con i lavori del Maestro la musica per il cinema è entrata nelle orecchie di tutti e col tempo questa lasciava la destinazione originale per venire nuovamente legata ad un prodotto pubblicitario, ai film amatoriali in Super 8, e spesso nelle funzioni liturgiche della chiesa cattolica.. Veicolo di tutto questo era l’estesissima produzione discografica esportata in ogni parte del pianeta. Oggi quei 45 giri o r.p.m., lp in vivile, sono custoditi gelosamente per quanto usurati. Molti hanno anche quotazioni da antiquariato. “ Colori “, un’antologia (la più bella) della General Music, era un disco richiestissimo in quanto diffuso in poche copie e numerosissime le richieste, tanto da venire custodito gelosamente da chi la possedeva.

Il Maestro Morricone quando sarà andrà a fare compagnia con i grandi compositori prima citati. Sarà allora la musica divina, fatta solo per chi possiederà orecchie sensibili.






lunedì 15 dicembre 2014

Time has vindicated him


EASTWOOD IS GOD
 Conner “Haf“ MacLeod
 Temple City, Calif.


IN A WORLD WHERE A SINGLE ARTISTS Vision is increasingly blurred in a storm of art-by-committee, it is refreshing to read about Clint Eastwood [“Any Which Way He Can,“ April]. Time has vindicated him
for sticking by his guns and for his vision of himself as an artist. He doesn’t even stoop to telling his critics, “I told you so !" He lets the results do that for him. Let`s hope we all see a lot more of him before he
decides to ride off into the sunset.
 Bart Summer
 North Hollywood, Calif.


IT IS REALLY AMAZING THAT TWENTY YEARS ago, most critics viewed Eastwood's acting as stiff and hopelessly wooden and his films as incessantly violcent exercises of redneck fascism. Now the same intellectually constipated, artistically myopic sycophants have anointed him the new god of American cinema. Thanks for taking decades to find out what his fans have known all along: Eastwood is a major talent to be reckoned with.

R. D. Myers
Kansas City, Mo.

PREMIERE JULY 1993
READER RESPONSE, LETTERS


domenica 14 dicembre 2014

giovedì 11 dicembre 2014

La resistenza della lucertola e la croce al neon

di Daniela Persico

Non è facile realizzare un’opera prima di questi tempi in Italia, ancora meno avere la libertà e la possibilità di scavare in se stessi, con estrema sincerità e libertà, per mettere in scena una storia che partendo dal particolare (la vita di parrocchia a Reggio Calabria) arrivi a parlarci della complessa situazione storica in cui ci troviamo.
Corpo Celeste riesce nelle alte intenzioni della sua autrice, la giovane Alice Rohrwacher (che, come sarebbe bello accadesse più spesso, esordisce prima dei trent’anni, in un panorama di vecchi-giovani) e si situa in una nuova scia di opere italiane realizzate da registi con una formazione lontana dalle “scuole di cinema” e più vicina alle strade del documentario.
Unico film italiano alla Quinzaine (e arrivato a un soffio dalla Caméra d’Or), Corpo celeste è la storia di una crescita, il racconto di un momento sospeso nella vita di un’adolescente dallo sguardo limpido e dal corpo in trasformazione. Attorno a lei il mondo degli adulti, taluni confusi, altri annoiati, altri ancora soltanto troppo stanchi per rispondere alle domande di Marta, all’inarrestabile ricerca del suo spazio, del rapporto con gli altri e con le sue tensioni più alte. Di fronte a una Chiesa dimentica dell’urlo di Cristo (“Eli, Eli, lama sabachthani”), lontana dalla verità della Parola e vicina alla precarietà dell’apparenza, Marta oppone uno sguardo resistente, un incedere sbilenco ma ostinato, un corpo ancora puro e trasparente nei suoi splendidi e immediati rossori.
La giovane regista, calibrando – non senza difficoltà – il lato grottesco della vicenda con il punto di vista puro di Marta, sceglie l’essenzialità di una macchina da presa che talvolta avvolge i suoi personaggi, altre sembra isolarli, riprenderli da lontano, mentre ripensano alle loro vane giornate. Marta osserva e si muove, costruendo un nuovo itinerario di speranza, tra la gioia della vita (i gattini appena nati), il dolore della perdita (le prime mestruazioni che segnano il suo allontanarsi dall’infanzia), fino alla semplicità di un gesto di libertà che diventa rito iniziatico verso una nuova consapevolezza (l’entrata nel canale, suggellata da un’inquadratura che trasforma il suo corpo, così reale, in ombra metafisica).
Marta è il corpo celeste che tiene unita la Terra con il Cielo nella scoperta finale di essere grande ma continuare a poter sentire vibrante la realtà, quasi fosse un miracolo.

"VORREI FOSSE RICORDATO COME UN FILM STORICO": INCONTRO CON ALICE ROHRWACHER
Al contrario di gran parte del cinema italiano, che usa le città in maniera intercambiabile, Corpo celeste offre un ritratto di Reggio Calabria nella sua complessità, che restituisce un tuo approccio legato al documentario. Come hai sviluppato la vicenda partendo dalla città?
Quando ho iniziato a pensare al film ero spesso a Reggio Calabria, così con il mio produttore, Carlo Cresto-Dina, siamo partiti proprio dalle suggestioni che mi offriva la città. La conoscevo piuttosto bene e avevo già ambientato lì un corto (inserito nel film-collettivo Checosamanca): due bambini che, giocando nella Fiumara, raccolgono rifiuti e scarti per costruirsi la loro casa, un mondo fantastico in cui giocare. Succede veramente e sono gli stessi bambini che ho voluto far incontrare a Marta, la protagonista di Corpo Celeste, alla fine del film. Per me la loro energia è una metafora potente: penso che alla società di oggi non manchino assolutamente né le possibilità né lo spazio, piuttosto è raro trovare la tensione necessaria per cambiare uno stato di fatto. Dopo le recenti vittorie alle elezioni comunali, mi sono augurata che il mio film potesse essere visto in futuro come un film storico sull’Italia berlusconiana!
Il film si presta a molteplici letture: talvolta sembra che la critica alla Chiesa non sia il punto di partenza, ma che offra lo spunto per far emergere una società dello spettacolo che ha ormai divorato ogni tipo di rapporto umano.
 In effetti la mia idea di partenza era raccontare che cosa rimane oggi della vita comunitaria in Italia. Avendo scelto come scenario Reggio Calabria, città totalmente abbandonata dallo Stato, mi è parso evidente che l’unica parvenza di vita sociale gravitava attorno alla Chiesa, ormai radicalmente cambiata. Poi avevo trovato emblematico un fatto di cronaca letto su un giornale locale: una colletta per togliere un crocifisso moderno e ritornare a uno figurativo. Molti hanno gridato allo scandalo perché ho mostrato un sacerdote che raccoglie firme per un candidato politico: l’ho visto fare in molte parrocchie. Talvolta questi sacerdoti sono anche un collante tra politica e cittadini, reclamano (e in alcuni casi) ottengono qualcosa per il loro quartiere. Nel film ho scelto di raccontare la figura del sacerdote come qualcuno che vive il suo ruolo unicamente in quanto professione e per questo tiene molto a una possibile promozione. Anche lui fa parte di un’Italia cambiata e smarrita, dove è sopravvissuta soltanto la forma e non la sostanza. Penso sia questo il fatto per cui ho scelto la Chiesa per sviluppare il mio film: parlare di religione, di tensione verso il sacro, e della sua attuale manifestazione segnava un ottimo punto per riuscire a raccontare il drammatico impoverimento della nostra società.
È piuttosto impressionante assistere al catechismo dei nostri tempi…
Sono convinta che possono sembrare scene eccessive, ma nascono dall’osservazione di alcune parrocchie di Reggio Calabria: ci sono libri per la catechesi che hanno sulla copertina frasi che echeggiano i reality televisivi (“Saranno testimoni”) e si passa molto tempo ad imparare canzoni (“Mi sintonizzo con Dio”) o balli (“Il balletto delle vergini”). C’è una totale assenza della “Parola”, come se dovesse spaventare o far allontanare i ragazzi. Insomma si usa il linguaggio falso per antonomasia della televisione, per insegnare dei contenuti che pretendono di essere la “verità”. Anche la Chiesa, seguendo questo processo, punta al ribasso, come del resto hanno fatto tante altre istituzioni tra cui la scuola…
Ma la tua scelta alla fine è ricaduta proprio sulla Chiesa che è il vero perno, sia tematico che figurale, del film.
Sono atea, ma non credo che la vita si riduca alla materia del momento; mi interessa l’essere in ricerca e all’università mi sono occcupata di Storia delle religioni. Mi piaceva mettere in scena la storia di una ragazzina che vive intensamente la propria pulsione religiosa e si trova a confrontarsi con la realtà. Il titolo del film, che prima era provvisorio e non è mai stato messo in dubbio, arriva dall’omonimo libro di Anna Maria Ortese: mi ha ispirato soprattutto per la sua lettura del mondo come sovramondo. Per quanto riguarda alcune scelte figurative del film, penso di essere – come tutti gli italiani – impregnata di cultura cattolica, anche nella sua forma più alta come l’arte sacra.
Il collegamento all’arte sacra emerge nell’uso particolare della luce e nella presenza di alcuni simboli che costellano il film, in un giusto (e precario) equilibrio tra realismo e astrazione.
Non so se è giusto parlare di simboli: è vero che la lucertola del finale è evidentemente un simbolo, ma nasce dal fatto che quando mi hanno portato vicino al canale alcuni bambini me ne hanno realmente messa una in mano! La sensazione della sua pelle sgusciante e del suo corpo senza testa ancora vibrante mi è rimasta lungamente impressa. Solo dall’esperienza sono risalita al suo potenziale di simbolo. Lo stesso è avvenuto per la scelta della fotografia: volevo ci fosse una luce invernale, livida, e con Héléne Louvart, il direttore della fotografia, abbiamo lavorato in questa direzione. Alcune sequenze più evocative e sospese sono arrivate dalla realtà: Marta che entra nel canale è un’ombra perché è l’unica possibilità per riprenderla in quel tunnel; solo in un secondo tempo si può pensare alla suggestione di questo suo “battesimo con la realtà”.
Marta non è soltanto il personaggio principale del film, ma è anche l’altezza da cui si guarda la storia. Come hai trovato l’interprete che favorisse questa giusta distanza?
Dopo l’immersione nelle parrocchie di Reggio Calabria, avevo paura di essere troppo dura e di apparire giudicatoria: trovare la ragazzina adatta a incarnare Marta mi avrebbe aiutato enormemente a trovare il giusto sguardo sulla realtà. Cercavo qualcuno che si pone già dei grandi interrogativi ma conserva ancora lo sguardo libero dei bambini, qualcuno che fosse semplice e pieno di stupore, in netta contrapposizione con il mondo che la circonda, dalle croci al neon alle complessità degli adulti, passando per i cibi troppo elaborati che si mangiano in quella regione. All’inizio ho fatto dei casting a Reggio Calabria, ma non riuscivo a trovare l’interprete giusta. Sono rimasta sorpresa del fatto che tutte le bambine sanno già cosa vogliono essere da grandi, come se non potessero permettersi di vivere un importante momento di indeterminatezza. Ho pensato che potesse essere positivo che la protagonista venisse da lontano (da qui l’idea della Svizzera) e quindi fosse diversa dagli altri ragazzini del film, con cui abbiamo lavorato in forma laboratoriale. Yile Vianello l’ho trovata in una comunità auto-sufficiente dell’Appennino, una realtà che conoscevo bene, dove i ragazzini conservano questo sguardo incantato e profondo sul reale. È stato importante riuscire a lavorare a lungo con lei, ma partivamo già da una posizione di vantaggio: la sua alterità rispetto alla Calabria.
Rispetto ad altri film (e soprattutto ad altre opere prime), il rapporto con gli attori non professionisti è pienamente riuscito e il più delle volte si sposa con l’intervento dei volti noti. Hai avuto modo di lavorare a lungo con loro?
Sono molto felice di essere riuscita, riducendo al minimo la troupe, ad avere ben sette settimane di ripresa. Un tempo piuttosto lungo, che ho ottenuto optando per scelte di regia essenziali: piuttosto che un dolly ho preferito avere un giorno in più di riprese! Il progetto del film si è articolato in un arco di tempo piuttosto lungo, abbiamo aspettato tre anni prima di riuscire a produrlo, e alla fine la nostra persistenza è stata premiata. Dallo scorso Natale, quando il film era pronto, abbiamo ricevuto inviti da molti festival, tutti i programmatori stranieri si sono mostrati felici di ritrovare un certo cinema italiano che sempre più difficilmente si riesce a produrre. Spero che il mio film, e quello di Michelangelo Frammartino che lo ha preceduto alla Quinzaine, rappresenti un piccolo segnale per il cinema indipendente.

(L'incontro con Alice Rohrwacher è avvenuto a Milano, il 30 maggio 2011 in occasione della manifestazione "Cannes e dintorni")

L'originale è qui:
http://www.filmidee.it/archive/27/article/86/article.aspx

mercoledì 10 dicembre 2014

“ Le notti di Cabiria “ o il viaggio al termine del neorealismo


Con Le notti di Cabiria Fellini, per la prima volta, ha saputo cucire una sceneggiatura con mano da maestro, un’azione senza pecche, senza ripetizioni e senza lacune, in cui non potrebbe operare gli oscuri tagli e le rettifiche di montaggio a cui furono sottoposti La strada e Il bidone. Certo, Lo sceicco bianco e anche I vitelloni non erano costruiti male, ma soprattutto nella misura in cui la tematica specificatamente felliniana vi si esprimeva ancora nel quadro di sceneggiature relativamente tradizionali. Con La strada queste ultime stampelle vengono gettate via, la storia non viene più determinata che dai temi e dai personaggi, essa non ha più niente a che vedere con quello che si dice un intrigo, se pure la parola “ azione “ gli è ancora applicabile! Lo stesso vale per Il bidone.
Le notti di Cabiria si situa al di là de Il bidone, ma le contraddizioni fra quella che definirei la tematica verticale dell’autore e le esigenze “ orizzontali “ del racconto sono, stavolta, perfettamente risolte. Nella Strada, come nel Bidone, il tempo esiste solo come cornice amorfa degli avvenimenti che modificano, senza necessità esterna, il destino dei protagonisti. Gli avvenimenti non “ succedono “, essi accadono, o sorgono, cioè sempre secondo una gravitazione verticale e non per obbedire alle leggi di una casualità orizzontale.
Fellini ha saputo dare al suo film la tensione e il rigore di una tragedia, senza ricorrere a catgorie estranee al suo universo. Cabiria, la piccola prostituta dall’anima  semplice e dalla speranza radicata, non è un personaggio del repertorio melodrammatico, perché le motivazioni del suo desideri odi “ uscirne “ non hanno niente a che vedere con gli ideali della morale o della sociologia borghese, almeno in quanto tali. Essa non disprezza affatto il suo mestiere. E se esistessero dei ruffiani dal cuore puro capaci di comprendervi e di incarnare non l’amore ma la fiducia nella vita, essa non vedrebbe senza dubbio alcuna incompatibilità fra le sue speranze segrete e le sue attività notturne. Una delle sue grandi gioie, seguita da una tanto più amara delusione, non la deve forse all’incontro fortuito di una celebre vedette cinematografica che, per ubriachezza e ripicco amoroso, la porterà nel suo sontuoso appartamento? Di che far morire di gelosia tutte le colleghe. Ma l’avventura finirà pietosamente, ed è perché, in fondo, il mestiere di prostituta non riserva in pratica che delusioni, che essa si augura, più o meno coscientemente, di uscirne attraverso l’impossibile amore di un bravo ragazzo che non le chiederà nulla.
Le notti di Cabiria come La strada, come Il bidone ( e in fondo come I vitelloni), sono la storia di un’ascesi, di una depurazione e , in qualsiasi senso la s’intende, di una salvezza. La bellezza e il rigore della sua costruzione  derivano stavolta derivano dalla perfetta economia degli episodi. Ognuno di essi, come ho detto, prima esiste da e per se stesso,  nella sua singolarità e nel carattere pittoresco dei suoi avvenimenti, ma partecipa stavolta di un ordine che fa sempre apparire, successivamente, la sua assoluta necessità. Dalla speranza all’aspettativa, toccando il fondo del tradimento, della derisione e della miseria, Cabiria segue un cammino di cui tutte le tappe la preparano alla tappa che l’aspetta. A rifletterci bene, anche l’incontro col benefattore dei mendicanti, la cui intrusione non sembra a prima vista che uno splendido pezzo di bravura felliniana, finisce per rivelarsi necessario per prendere poi Cabiria nella trappola della fiducia.
E’ assurdo e irrisorio pretendere di escluder(e) lo stile di Fellini dal neorealismo. Il realismo felliniano, se è sociale nel suo punto di partenza, non lo è nel suo oggetto, che è sempre altrettanto individuale che in Cechov o in Dostoevskij.  Ciò che De Sica ha di comune con Rossellini e Fellini non è certo il significato profondo dei suoi film – anche quando avviene che questi significati più o meno coincidano – ma il primato dato negli uni come negli altri alla rappresentazione della realtà rispetto alle strutture drammatiche. Più precisamente ad un “ realismo “ che deriva insieme dal naturalismo romanzesco, per il contenuto, a dal teatro, per le strutture, il cinema italiano ha sostituito un realismo, diciamo, per essere sintetici, “ fenomenologico “, in cui la realtà non è corretta in funzione della psicologia e delle esigenze del dramma. Il rapporto fra il senso e l’appartenenza si trova così in qualche modo ribaltato: questa ci è sempre proposta come una scoperta singolare, una rivelazione quasi documentaria che conserva il suo peso di pittoresco e di dettagli. L’arte del regista risiede allora nella sua abilità nel far sorgere il senso di questo avvenimento, o almeno quello che egli gli presta, senza per questo cancellarne le ambiguità. Il neorealismo così definito non è dunque di una determinata ideologia o di un determinato ideale, così come non ne esclude un altro, non più di quanto appunto la realtà non sia esclusiva di qualcosa.
Ciò che non sono poi tanto lontano dal pensare che Fellini è il regista che attualmente va più in là nell’estetica neorealista, tanto in là da traversarla e dal trovarsi dall’altra parte.
Consideriamo innanzitutto fino a che punto la regia si è sbarazzata di ogni sequela psicologica. I suoi personaggi non si definiscono mai per il loro “ carattere “ ma esclusivamente per la loro apparenza. Evito volutamente il termine divenuto troppo ristretto di “ comportamento “, poiché il modo di agire dei personaggi non è che uno degli elementi di nostra conoscenza. Li cogliamo da ben altri segni, non solo, beninteso, dal volto, dal passo, da tutto ciò che fa del corpo la scorza dell’essere, ma più ancora forse da degli indizi più esteriori, dalla frontiera fra l’individuo e il mondo, come i capelli, i baffi, il vestito, gli occhiali (il solo accessorio a cui succeda a Fellini di abusare come di un espediente). Poi, ancora oltre, è la scenografia allora ad avere un ruolo, non certo in senso espressionista, ma per gli accordi o i disaccordi che si stabiliscono fra l’ambiente e il personaggio. Penso in particolare agli straordinari rapporti di Cabiria con la cornice in abituale in cui Nazzari  l’ha trascinata: cabaret e appartamento di lusso …
Ma è qui che tocchiamo la frontiera del realismo e che, spingendo ancora più lontano, Fellini ci porta dall’altro lato. Tutto avviene infatti come se, giunto a questo grado di interesse nei confronti delle apparenze, cogliessimo adesso i personaggi non più fra gli oggetti, ma per trasparenza, attraverso di essi. Voglio dire che insensibilmente il mondo è passato dalla significazione all’analogia, poi dall’analogia all’identificazione col soprannaturale. Mi dispiace questa parola equivoca che il lettore può sostituire con poesia, surrealismo, magia o qualsiasi altro termine che esprima la concordanza segreta delle cose con un doppio invisibile di cui esse non sono, in un certo senso, che l’abbozzo.
Di questo processo di “ sovrannaturalizzazione “ prenderò un esempio, fra altri, nella metafora dell’angelo. Fin dai suoi primi film, Fellini è ossessionato dall’angelizzazione dei suoi personaggi, un po’ come se lo stato angelico fosse nell’universo felliniano il riferimento ultimo, la misura dell’essere. Se ne può seguire il percorso esplicito almeno a partire dai Vitelloni: per il carnevale, Sordi si traveste da angelo custode; un  più tardi è come per caso una statua di angelo scolpito in legno che ruba Fabrizi. Ma queste allusioni sono dirette e concrete. Più sottile, e tanto più interessante in quanto probabilmente inconscia, è l’immagine in cui vediamo il frate scendere dall’albero su cui lavorava e caricarsi sulle spalle una fascina di legna. Questo gesto non era latro che una graziosa annotazione realistica anche per Fellini,  finché non vediamo alla fine del Bidone, Augusto agonizzante sul bordo della strada: intravede nella blanda luce dell’alba un corteo di bambini e di contadine che portano sulle spalle delle fascine di legna: passano gli angeli! Bisogna anche ricordare, nello stesso film, la maniera in cui Picasso scende una strada facendo alucce con l’impermeabile. E’ inoltre lo stesso Richard Basehart ad apparire a Gelsomina come una creatura senza pesantezza, tutto brillante sul filo aereo nella luce dei proiettori.
Il simbolismo felliniano è inesauribile e tutta la sua opera potrebbe senza dubbio essere studiata da questo solo punto di vista. Importa solo di risituarla nella logica neorealistica, poiché è evidente che queste associazioni di oggetti e personaggi con cui si sostituisce l’universo di Fellini non traggono il  loro valore e il loro prezzo che dal realismo, o, per dir meglio forse, dall’oggettivismo della notazione. Non è per assomigliare a un angelo che il Fratello porta così la sua fascina, ma basterebbe vedere le ali nei ramoscelli per trasformare il vecchio monaco. E’ così possibile dire che Fellini non contraddice il realismo, e neppure il neorealismo, ma, piuttosto, che lo compie superandolo in una riorganizzazione poetica del mondo.
Questo compimento rinnovatore Fellini lo opera anche al livello del racconto. Certamente, da questo punto di vista, il neorealismo è anche una rivoluzione della forma verso il fondo. Il primato dell’avvenimento sull’intrigo ha portato per esempio De Sica e Zavattini a sostituire a quest’ultimo una microazione, fatta di un’attenzione indefinitamente divisa nella complessità dell’avvenimento più banale. D’un tratto veniva a essere condannata ogni gerarchia, di ordine psicologico, drammatico o ideologico, fra gli avvenimenti rappresentati. Non perché il regista debba rinunciare a  scegliere ciò che decide di mostrarci, ma perché questa scelta non si operi più in riferimento a una organizzazione drammatica a priori. La sequenza importante può anche essere, in questa nuova prospettiva, una lunga scena “ che non serve a niente “, secondo i criteri della sceneggiatura tradizionale.
Comunque, anche in Umberto D, che rap presenta forse la sperimentazione estrema di questa nuova drammaturgia, l’evoluzione del film segue un filo invisibile. Fellini mi sembra aver completato la rivoluzione neorealistica innovando la sceneggiatura senza alcun concatenamento drammatico, fondata esclusivamente sulla descrizione fenomenologica dei personaggi. In Fellini, sono scene di legame logico, le peripezie “ importanti “, le grandi articolazioni drammatiche della sceneggiatura a servire da raccordi, e sono le lunghe sequenze descrittive, apparentemente senza incidenza sullo svolgimento dell’ “ azione “, a costituire le scene veramente importanti e rivelatrici. Sono, nei Vitelloni, il girovagare notturno, le passeggiate stupide sulla spiaggia; nella Strada la visita al convento; nel Bidone la serata al cabaret o la festa. E quando non agiscono che i personaggio felliniani si rivelano meglio, tramite la loro agitazione, allo spettatore.
Se comunque i film di Fellini comportano delle tensioni e dei parossismi che non hanno niente da invidiare al dramma e alla tragedia, è perché gli avvenimenti vi sviluppano, in mancanza della casualità drammatica tradizionale, dei fenomeni di analogia e di eco. L’eroe felliniano non arriva alla crisi finale, che lo distrugge e lo salva, perché le circostanze da cui è in qualche modo colpito si accumulano in lui, come l’energia delle vibrazioni in un corpo in risonanza. Egli non evolve, si converte, oscillando, alla fine, come gli iceberg il cui centro di galleggiamento si è invisibilmente spostato.
Vorrei per concludere e concentrare in un’annotazione l’inquietante perfezione delle Notti di Cabiria, analizzare l’ultima immagine del film che mi sembra insieme la più audace e la più forte dell’opera di Fellini. Cabiria,spogliata di tutto, del suo denaro, del suo amore, della sua fede, si ritrova svuotata di se stessa, su una strada senza speranza. Appare un gruppo di ragazzi e ragazze che cantano e ballano camminando, e Cabiria, dal fondo del suo nulla, risale dolcemente verso la vita; ricomincia a sorridere e dopo un po’ a ballare. E’ facile immaginare ciò che questo esito potrebbe avere si artificiale e di simbolico, se, polverizzando le obiezioni della verosimiglianza, Fellini non sapesse, con un’idea di regia assolutamente geniale, far passare il suo film su un piano superiore, identificandoci d’un tratto con la sua eroina. Si è spesso ricordato Chaplin a proposito della Strada, ma non sono mai stato convinto del paragone; per forza di cose pesante, fra Gelsomina e Charlot. La prima immagine non solo degna di Chaplin, ma uguale alle sue più belle trovate, è l’ultima nelle Notti di Cabiria, quando Giulietta Masina si volta verso la macchina da presa e il suo sguardo incrocia il nostro. Unico, credo, nella storia del cinema, Chaplin ha saputo fare un uso sistematico di questo gesto che tutte le grammatiche del cinema condannano. E senza dubbio sarebbe fuori posto se Cabiria, piantando i suoi occhi nei nostri, si rivolgesse a noi come la messaggera di una verità. Ma il fine ultimo di questo tocco di regia, e quel che mi fa gridare al genio, è che lo sguardo di Cabiria passa più volte sull’obiettivo della macchina da presa senza mai esattamente fermarvisi. La sala si riaccende su questa meravigliosa ambiguità. Cabiria è senza dubbio l’eroina delle avventure che essa ha vissuto davanti a noi, dietro il mascherino dello schermo, ma è anche, adesso, colei che ci invita con lo sguardo a seguirla sulla strada che essa riprende. Invito pudico, discreto, sufficientemente incerto perché noi si possa fingere di credere che essa si diriga altrove; sufficientemente certo e diretto anche a strapparci alla nostra posizione di spettatori.