Resta un mistero, per esempio -potrebbe essere solo un
caso tecnico; e lo si può anche pensare -perché mai non sia stato inviato a
Venezia, con gli altri film di šukšin, Peãki-Iavoški
(l'espressione che letteralmente vale 'stufe-panchine' nel sottocodice
linguistico della regione dell'Altaj vale come vera e propria proposizione
esclamativa ellittica enfatizzata dall'allitterazione; e denota stretta amicizia;
ed è rapportabile, in qualche modo, all'espressione veneta cul e camisa] con
ogni probabilità la piú tipica delle sue opere.
Si è ipotizzato che il "colore locale" del
film sia apparso ai funzionari ragione sufficiente per ritenerlo incapace di
destar l'interesse.
Dimenticando il principio luikacsiano della
"particolarità del rispecchiamento" che assai probabilmente - a quel
che si dice – trova in questo film una prova esemplare.
Ma è soprattutto il contraddittorio ironico e
graffiante, sempre indiretto, di šukšin nei confronti della burocrazia e delle
sue sciocche onnipotenze; soprattutto la polemica garbata ma ferma contro gli
arrivisti e i conformisti 'scaltri', che san trar partito da ogni situazione e
che in ogni caso inventano il modo di adattarsi alle circostanze - šuikšin nei
racconti li tratta da lemuri, non da uomini - e i monitori insistenti contro le
tentazioni borghesi del proletariato urbano a porlo in prossimità delle
tensioni di Zòšcenko.
E poi, anche, la lingua. La struttura della sua
narrativa, sia verbale che iconica, è una struttura, dicevamo, paratattica: è
una sequela di monologhi - resi visivamente attraverso il ricorso ai campi lunghi,
alle carrellate, alle panoramiche “interiettive" -- e di dialoghi nei
quali sprizzano inequivoci il mondo spirituale di šukšin, il suo Erlebnis e le destinazioni
del suo discorso. Che non scivola mai nel moralismo ma si regge invece su un
sostanziale sforzo di comprensione della gente, delle situazioni, della storia.
E' per queste tensioni, per queste intonazioni e per
l'importanza che šukšin dà al linguaggio dei suoi personaggi - sembra che Vasilìj Makàrovic segua alla
lettera il parere di Ralph Emerson per il quale il linguaggio è "poesia fossile"; o meglio
si può dire ch'egli enfatizza, per usare un linguaggio sossuriano, la parole rispetto alla Iangue; parole intesa come primum di ogni fenomeno evolutivo, progressivo
della comunicazione - che non ci sembra improponibile, dunque, l’accostamento
del nostro autore a Zòšceniko.
Quel romantico sentimentalista che fu Zukòvskij sembra
abbia lasciato un motto, che si può rammentare a proposito di šukšin: quei che
si scrive con fatica, si legge con facilità. La lettura di šukšin romanziere
verbale e/o iconico è diretta e agevole. E' diretta perché sul piano
del'espressione la denotazione - quella
che si ricava dal codice lessicale in funzione _-è
nettamente prevalente sulla connotazione,la quale invece rinforza il proprio
senso in ordine al contesto in cui si pone. šukšin lo si legge senza ambiguità,
nettamente, come il fondo d'un fiume attraverso la sua acqua chiara.
l significati aggiunti non mancano, ma non sono
tracimanti. Emergono dalla totalità del discorso espressivo e si propongono
come termine ad quem del messaggio poetico. La metafora vi è bandita, la
metonimia accettata: quando serva a indicizzare il mondo ideale dell'autore.
Eppure questa facilità, questa immediatezza di
comunicazione è frutto d'una fatica appassionata, di un provare e riprovare
instancabile: il magistero di Romm, in quest'ordine, è stato rispettato fino
all'ultima energia.
La fatica nutre la saggezza. NihiI sine magno vita Iaborededit mortalibus, sentenziava Orazio. E
chi meglio e piú della gente dei campi conosce la pena e la verità di questa
legge? E una generosa saggezza, anzi - dice šukš in (C. Benedetti, intervista
cit.) - una saggezza «superiore ›› è quella che deve cavar fuori un autore
(cosí come fa un padre che deve farla valere in faccia
a quella dei coetanei del suo figliolo] per far opera che resta. E questo
appunto è, per šukšin, il destino e il compito dell'arte: epifania, appunto, di
bontà e di sapienza.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976
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