lunedì 3 aprile 2017

La letteratura della terra e Vasilij Šukšin - pt. 3

Dal punto di vista della militanza politica la posizione di šukšin era tuttavia ben diversa. Era iscritto al partito - fu anche segretario di un Komsomol regionale -e lavorava nell'ambito della produzione cinematografica di stato. Eppure lo qualificavano « non allineato ›› quella sua religione della campagna, quella sua sorniona diffidenza verso « certi valori che valori non sono ›› e che vengono mediati da un sistema di segni tutto urbano e tecnologico, in un linguaggio « neutro, senza sfumature, quasi da gazza ladra, da uccello che cinguetta velocemente ›› (C. Benedetti, intervista cit.`],-quella sua ferma proclamazione dei diritti/doveri della coscienza individuale, quel suo incessante invito alla prudenza per non essere travolti dal filisteismo indettato dalla cultura urbana' (C. Benedetti, int. cit.): « Alcuni miei lettori pensano che io contrappongo la città alla campagna sostenendo che in campagna va tutto bene e che la vita è bella. In città, invece va tutto male. Questo giudizio è sbagliato. Ma devo dire con tutta sincerità che io mi sento molto piú agio tra le cose che conosco bene. Ecco, forse ci vuole una nuova saggezza per capire anche la città. Io infatti sento la necessità di salire un altro gradino per apprendere anche il materiale cittadino. E qui bisogna incominciare a fare qualche distinguo. Bisogna cioè comprendere che la città non è soltanto una forza nemica. Nella città, infatti, abita molta gente, è nella città spesso che si scrivono libri interessanti, si fanno film. «Nella città vi sono esempi di arte. Ciò vuol dire che anche la città può essere la base per dare vita a tutte queste cose. « Forse, per me, questo processo di comprensione «è troppo lungo. Forse sono troppo prudente per comprendere queste cose. Ma nello stesso tempo credo fortemente che anche i protagonisti dei miei racconti nelle stesse situazioni sarebbero prudenti. Bisogna essere prudenti in varie occasioni: per scegliere un libro giusto, per trovare la persona giusta, per non sbagliare in città, per non pensare che l'uomo che ha fatto un paio di istituti è l'uomo piú saggio del mondo. E' necessario, quindi, cercare in modo profondo, proprio cosí come fanno i contadini, alla contadina. Ebbene,se si resta all'interno di questa concezione, la città non sarà piú un guaio. Io ritengo che lasciando la radice in campagna si lascia anche la radice nell'anima. Al contadino cioè deve restare dentro qualcosa perché non divenga, in città, un filisteo. Ma non sempre avviene cosi ». ln una parola, è stata la sua 'alterità' rispetto alla cultura ufficiale che lo ha reso inevitabilmente non già sospetto ma certamente «<atipico ››: un tollerato insomma nel ben atticciato conformismo delle istituzioni.
Resta un mistero, per esempio -potrebbe essere solo un caso tecnico; e lo si può anche pensare -perché mai non sia stato inviato a Venezia, con gli altri film di šukšin, Peãki-Iavoški (l'espressione che letteralmente vale 'stufe-panchine' nel sottocodice linguistico della regione dell'Altaj vale come vera e propria proposizione esclamativa ellittica enfatizzata dall'allitterazione; e denota stretta amicizia; ed è rapportabile, in qualche modo, all'espressione veneta cul e camisa] con ogni probabilità la piú tipica delle sue opere.
Si è ipotizzato che il "colore locale" del film sia apparso ai funzionari ragione sufficiente per ritenerlo incapace di destar l'interesse.
Dimenticando il principio luikacsiano della "particolarità del rispecchiamento" che assai probabilmente - a quel che si dice – trova in questo film una prova esemplare.
Ma è soprattutto il contraddittorio ironico e graffiante, sempre indiretto, di šukšin nei confronti della burocrazia e delle sue sciocche onnipotenze; soprattutto la polemica garbata ma ferma contro gli arrivisti e i conformisti 'scaltri', che san trar partito da ogni situazione e che in ogni caso inventano il modo di adattarsi alle circostanze - šuikšin nei racconti li tratta da lemuri, non da uomini - e i monitori insistenti contro le tentazioni borghesi del proletariato urbano a porlo in prossimità delle tensioni di Zòšcenko.
E poi, anche, la lingua. La struttura della sua narrativa, sia verbale che iconica, è una struttura, dicevamo, paratattica: è una sequela di monologhi - resi visivamente attraverso il ricorso ai campi lunghi, alle carrellate, alle panoramiche “interiettive" -- e di dialoghi nei quali sprizzano inequivoci il mondo spirituale di šukšin, il suo Erlebnis e le destinazioni del suo discorso. Che non scivola mai nel moralismo ma si regge invece su un sostanziale sforzo di comprensione della gente, delle situazioni, della storia.
E' per queste tensioni, per queste intonazioni e per l'importanza che šukšin dà al linguaggio dei suoi personaggi  - sembra che Vasilìj Makàrovic segua alla lettera il parere di Ralph Emerson per il quale il linguaggio è "poesia fossile"; o meglio si può dire ch'egli enfatizza, per usare un linguaggio sossuriano, la parole rispetto alla Iangue; parole intesa come primum di ogni fenomeno evolutivo, progressivo della comunicazione - che non ci sembra improponibile, dunque, l’accostamento del nostro autore a Zòšceniko.
Quel romantico sentimentalista che fu Zukòvskij sembra abbia lasciato un motto, che si può rammentare a proposito di šukšin: quei che si scrive con fatica, si legge con facilità. La lettura di šukšin romanziere verbale e/o iconico è diretta e agevole. E' diretta perché sul piano del'espressione la denotazione - quella
che si ricava dal codice lessicale in funzione _-è nettamente prevalente sulla connotazione,la quale invece rinforza il proprio senso in ordine al contesto in cui si pone. šukšin lo si legge senza ambiguità, nettamente, come il fondo d'un fiume attraverso la sua acqua chiara.
l significati aggiunti non mancano, ma non sono tracimanti. Emergono dalla totalità del discorso espressivo e si propongono come termine ad quem del messaggio poetico. La metafora vi è bandita, la metonimia accettata: quando serva a indicizzare il mondo ideale dell'autore.
Eppure questa facilità, questa immediatezza di comunicazione è frutto d'una fatica appassionata, di un provare e riprovare instancabile: il magistero di Romm, in quest'ordine, è stato rispettato fino all'ultima energia.
La fatica nutre la saggezza. NihiI sine magno vita Iaborededit mortalibus, sentenziava Orazio. E chi meglio e piú della gente dei campi conosce la pena e la verità di questa legge? E una generosa saggezza, anzi - dice šukš in (C. Benedetti, intervista cit.) - una saggezza «superiore ›› è quella che deve cavar fuori un autore
(cosí come fa un padre che deve farla valere in faccia a quella dei coetanei del suo figliolo] per far opera che resta. E questo appunto è, per šukšin, il destino e il compito dell'arte: epifania, appunto, di bontà e di sapienza.

Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

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