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mercoledì 12 febbraio 2020

Carmine Gallone



I REGISTI (senza peli sulla lingua)
CARMINE GALLONE
DI EUGEGIO GIOVANNETTI

Ecco finalmente la testa di Jokannan innanzi a me, nel bacile d'argento. Debbo proprio confessare che non so più che farne? Debbo proprio ammettere che nella commedia umana ci sia posto anche per una figura, o un figuro, di Salomè disillusa?
Tutto sommato, che m'aveva fatto quest'uomo, perché io ce l'avessi tanto con lui? Era stato sempre cortesissimo con me le rare volte in cui c'eravamo incontrati. In fondo, assai più che la sua persona, m'era forse ostica la baracca della Cines, in cui si esibiva: quella baracca in cui l'intellettualità di Emilio Cecchi non era che incompetenza ed il dilettantismo di Ludovico Toeplitz non era che la leggerezza pesante d'un «figlio di papà» cui papà aveva assegnato per i minuti filmistici piaceri i milioni della Banca Commerciale.
Ora che ho la sua testa sul bacile, posso pur confessarmi con perfetto candore al mio Jokannan. Ero sempre incline a giudicare con asprezza i suoi film, per due mie segrete intolleranze, contro cui, senza saperlo, egli aveva dato del capo: intolleranza per il cosmopolitismo linguistico, intolleranza per il marcantonismo estetico.
Contro la prima, egli aveva urtato col primo colpo di manovella ai tempi di «Casta diva», verso il 1935, quando, ritornato in Italia dopo una esperienza franco-tedesca che a mio parere non l'aveva messo affatto più in alto d'un Righelli o d'un Malasomma, era stato salutato improvvisamente dagli incompetenti e dai dilettanti della Cines come l'uomo dei grandi fiIm, come l'uomo del domani.
Per qual mai ragione, io mi chiedevo allora, questo regista va tanto a genio a quella gente? E fui allora invitato con molti altri al primo colpo di manovella per «Casta diva», che voleva significare una specie di giornata storica. Tutto il bel mondo era infatti là, ministri, deputati, letterati, banchieri, dame.
Dirigendo operatore e tecnici tutti a nuovo, irti e sgargianti come coleotteri, Carmine Gallone sfoderava un suo gergo da studio, franco-tedesco-inglese, col fasto con cui in altri secoli un dottore della Sorbona avrebbe sfoderato il suo scolastico latino. Quanto quella iattanza di sorbonico portiere d'albergo mi ferisse il lettore non può immaginare. Non già che io non ami il cosmopolitismo portuale a i grandi capricci orchestrali del letterario come l'«Ulysses» di Joice. Lo conosco le lingue europee e le conosco assai meglio di Carmine Gallone, ma adoro come incantevoli amanti, per le cose mirabili di cui arricchiscono la mia solitudine: e le parlo il meno possibile, perché, prima di tutto, mi rivolta l'idea che un uomo possa trovar grossolana la sua lingua nella mia bocca, e poi perché mi par che, parlandole e non essendo più creative prettamente strumentali, elle si sessualizzino e si prostituiscano.
Insomma, quell'orgia linguistica tecnico-officiosa cui il regista Gallone mi faceva assistere, mi repugnava profondamente e mi spiegava, forse a torto, perché del suo impensato troneggiare alla Cines. Ecco - io pensavo ed avevo forse torto - quel che ha dato nel genio al dilettante Toeplitzche parla anche lui familionarmenete le lingue colte d 'Europa e che concilia così floridamente nella sua persona, i quattrini d'un ebreo ed il badiale d'un frate.
Posso avere avuto torto, ripeto, e concesso troppo alle apparenze da un Iato, alle mie fobie dall'altro.
Psso aver dato troppa importanza a quel gergo da studio, necessariamente borioso quanto servile, giudicandolo dall’altezza d'una Europa adorabile di cosmopolitismo morale, qual' è quella cui io respiro: quella che va dal Montesquieu al Principe di Ligne. Ma debbo pur confessare che la sgradevolissima impressione s'acutizzò in me sino all violenza arbitraria d'un pregiudizio e che, da allora in poi, io non ho più saputo giudicare con la debita serenità un film di Carmine Gallone. Questa troppo estetica, troppo sensitiva impressionabilità, non dovrei metterla in piazza adesso, perché
mi si ritorce e m'abbaia contro come una ridicola debolezza: ma che ci fareste voi? Sono un po’ come quel barbiere bolognese, giudice ipersensitivo di cantanti, che di una celebre mezzo-soprano, di cui era infatuato, diceva: «Ha una voce ch'è una palazzina a quattro piani, col belvedere", e, quando qualche avventore, per giuoco, si provava a contraddirlo, cedeva di colpo pennello e rasoio al garzone e usciva gridando: «Continua tu, perché io non rispondo più di me».
La faccenda del marcantonismo è un po' più seria e ci porta in pieno «Scipione».
lo odio d'un odio fanatico il marcantonio, il greve, l'energetico che, sforzandosi, si teatralizza e si scorpa.
Ho scritto tulto un libro noioso sulla religione di Cesare, in odio a cotesta estetica tumefatta del Romanticismo alessandrino, che fu, ahimè, per tanti lati, la romana, e che i tempi vorrebbero ricacciarmi sott'occhio. C'è un certo ponte romano, ornato di colossali carciofi marmorei, che vorrebbero essere gruppi statuarii ed al mio stomaco danno, senza iperbole, l'oppressione e la sottile nausea d'una scorpacciata.
Per me il divino, e l'eroico stesso nel divino, è leggerezza, è luce, è quella compenetrazione dell'intelligenza e della carità, della grazia e del fuoco, che io chiamo in senso trascendente «discrezione». Nel romanesco, tuffo posso tollerare tranne il culto del forzuto smargiasso, del «greve», quel culto che la statuaria barocca, ben congiunta in questo con la decaduta imperiale, ha impercettibilmente educato e mi par di sentir rispuntare persino nel malinconioso Pinelli che s'è pur così nobilmente studiato dì veder classico e romano nel plebeo romanesco. Sì: cotesto culto del «greve», che soltanto il Belli aveva superato nel suo realismo veramente abissale, era rispuntato nella cinematografia romaneggiante del Guazzoni come nell'architettura baroccheggiante del Brasini, ed il mio incolpevole Jokannan, il mio pluriloquente Gallone, trovandolo ancora nell'aria di Roma, ci aveva dato dentro a corpo morto, lo aveva respiralo a pieni polmoni, regalandoci «Scipione».
lo so che qui il tetrarca Doletti comincerà a strillare come una gazza, altamente dolendosi d'avermi concessa la testa di questo povero Jokannan: ma io m'impegno qui onestamente di scusare la mia vittoria, di dimostrare che cotesta estetica aberrante del marcantonio non era affatto un errore suo: che ella era già nell'aria, che bisognava inalarIa dovunque, transitando pei ponti, leggendo un giornale, vedendo o rivedendo un film di soggetto romano.
Come avrebbe potuto questo disgraziato Jokannan sottrarsi alla tremenda, universa suggestione? Elefanteggiare era necessario: non vivere. Ed egli elefanteggiò, nincheggiò. marcantonizzò sino ai limiti supremi del marcantonizzabile.
Per me lo «Scipione» davvero trionfante, quello che un'arte della luce e della discrezione avrebbe sola potuto creare e mandar per tutto il mondo, non chiedeva neanche un elefante, neanche uno; ed, invece d'un energumeno, invece del solito marcantonio romanesco dei film guazzoniani, voleva un attore fine, supremamente fine, uno schermitore tra lo sdegnoso e l'elegante.
Sicuro! Tutto ci assicura che il vincitore di Zama era proprio questo: uomo di raffinatissima cultura, un sognatore supremamente discreto e singolare d'aristocratici disdegni: un uomo fine e sovrano nel fisico come nel morale, una lama d'acciaio, uscente dalla più vasta isola del sogno eroico e dell'orgoglio divino, che i tempi avessero mai creata in seno alla romanità.
Ma sento che il mio tetrarca è su tutte le furie, e mi richiama fieramente all'ordine. «Carmine Gallone - egli tuona - è un uomo che, quando vuole, sa usare mirabilmente la chiave dei grandi successi filmistici. Questo è innegabile: ed io non tollero insinuazioni su questo punto ch'è, in fondo, per un regista, l'essenziale».
Perfettamente d'accordo io mi guarderei bene dal negare che Carmine Gallone conosca le chiavi del successo e che, volendo, sappia «girarle e rigirarle sì soavi» da imprigionare il pubblico. Quel che io gli rimprovero è precisamente di non volerle mai volerle girare abbastanza, quelle famose chiavi, tant'è la sua fretta d'imprigionare il pubblico. La sua esperienza, la sua finezza, la sua duttilità, il successo di cassetta almeno, sono sempre incontestabili: ma è quasi sempre una piccola fretta smaniosa di riscuotere il successo ultrasicuro, quella che impedisce la perfetta girata di chiave, l'attenzione cioè dovuta alle arie, alla squisitezza vera, alle vere solidità e durevolezza del successo.
E' un po' la situazione di quel benemerito impeccabile mirabile sacerdote che, vantando immensi crediti, dimenticava quasi sempre i suoi piccoli debiti, e di cui un poeta romanesco diceva:
è tanto indaffarato in der riscote.
che non ci ha più un minuto per pagà.
Insomma, le grosse virtù del regista sono anche per me innegabili: quelle che mi paion dubbie sono le virtù minori, le leggere e le squisite.
Vediamo, alla prova dei fatti, nell'ultimo film «L'amante segreta».
Ecco, a primo sguardo, una virtù di primissim'ordine, che il Gallone possiede come pochi: l'arte di far figurare un'attrice. Il Gallone è il primo, tra i nostri registi, che sia riuscito a scoprire, con «Manon Lescaut», la bellezza di Alida Valli, ed anche oggi è il solo che sappia farla brillare, Nell'«Amante segreta» ha saputo veramente vagheggiarla, acconciarla con finezza. Ma è un successo da «Figaro» direte voi. Piano! E' riuscito perfino a far pettinare e vestire e gestire Vivi Gioi, e questo è un autentico portento.
Insomma, Carmine Gallone, che abbiam voluto così pervicacemente far decollare, è un regista di molte e diverse e pregevoli qualità, che non vale affatto meno d'un altro e che vorremmo ora, dopo tanto truculento e vano salomeggiare, restituire cordialmente alla vita.
Eugenio Giovannetti

Opere di Carmine Gallone: Il bacio di Cirano (1919); Amleto e il suo clown (1920); Cavalcata ardente, Terra senza donne (1929); li figlio della strada, Una notte a Parigi (1932); Una notte a Venezia (1933); E lucean le stelle, Casta diva (1935); Scipione l'Africano (1937); Solo per le, Un dramma al circo. Marionette, Giuseppe Verdi (1938); Sogno di Butterfly, Manon Lescaut (1939); Oltre l'amore, Amami Alfredo, Melodie eterne (1940); L'amante segreta, Primo amore (1941); La Regina di Navarra (1942).


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 8  21 FEBBRAIO 1942 XX

La testata si riferisce al film Fedora interpretato da Luisa Ferida, Amedeo Nazzari, Osvaldo Valenti, Rina Morelli (Prod. Consorzio Icar – Escl. Generalcine)

domenica 19 gennaio 2020

Mario Mattoli


I REGISTI (senza peli sulla lingua)
MARIO MATTOLI
DI EUGENIO GIOVANNNETTI


Nelle Marche, da cui sono venuto anch'Io, ho conosciuto dei Màttoli. Pare che il nostro Mario, accennandosi come Mattòli, voglia nettarsi da un sospetto di mattia ed avvicinarsi ai gravi mattoni.
Tal sia di lui! Un po' di grave gli conviene certo oggi, a compensato la levità della prima giovinezza'. Ha diretto allora undici compagnie teatrali e ha fatto gran chiasso con gli spettacoli Za Bum. Non mi pare un gran titolo per la carriera d'un regista. E' diventato infatti qualcuno a mano a mano che s'è liberato da cotesto milanesismo grossolano ed improvvisatore.
Ed era entrato anche nel cinema per la via, meno artistica: per il portone dei soldi, come produttore. Ha' giudizio, il mio marchigiano. Laureato in giurisprudenza, ha preferito per tempo ad un gramo Azzeccagarbugli un maneggione chiassoso. Ma, anche per gli artisti, c'è una sola prudenza: la concentrazione; un solo male: la dissipazione. Ed il nostro Mattoli deve scontare oggi la sue brutalità di gioventù.
Noi marchegiani nasciamo, del resto, con la pelle dura e ci sgrossiamo a poco a poco, con lentezza ultralaboriosa. Il nostro Mario comincia, ora, come regista, a dare un po’ nel fino, dopo ott'anni ormai di professione. Tranne qualche escursione garbata verso un cinema comico-sentimentale, alla Camerini. (L’uomo che sorride), o verso un cinema dal costume brillante (Amo te sola), ha continuato per sei lunghi anni più o meno a zabumeggiare. E quando il subalpino dagli occhi di bue, Macario, ha voluto brillare nei film. è andato per istinto verso il regista zabumeggiante.
Ma Mattoli, l’ho già detto, è il marchcgiano che s'innalza e si raffina nella dura fatica. Non è l’anfibio cafone e stazionario: non è quel principe marchigiano cui, un giorno, al Circolo della Caccia, un gentiluomo romano diceva: «tu vai a Londra e fai il principe romano: tu torni a Roma e fai il lord inglese; ma più mondo giri e più marchigian ti trovo».
Mario Mattolì non è, voglio dire, l'uomo di vetro, che, se l’urti con un gomito, ti cade addosso col fracasso d’una vetrina. E', come tutti gli artisti che si ritrovano e si elevano faticosamente, duro quanto agile. Mi propongo d’esaminare con franchezza, quelli che mi paiono ancora i suoi gravi difetti come artista, ma intanto sono lieto di poter dare una gomitata, cordiale ad un uomo della mia terra, sicuro che non si frangerà.
Mario Mattoli non ha avuto, sino a ieri, una carriera facile. Ha sfacchinato intorno a piccoli film, che non avevano spiraglio alcuno per un regista di talento; quando non ha dovuto addirittura tagliare film sulla misura di Macario. In sostanza, le buone, le grandi occasioni, il Mattoli le ha avute soltanto in questi ultimissimi anni (1940-41) con due cose che l`hanno messo fortemente in vista. Su questi due film, Luce nelle tenebre e Ore nove, lezione di chimica, lo giudicheremo.
Quì, per la prima volta, il regista racconta un linguaggio personale, fluente e scintillante. C’è ancora, qua e là, del Camerini, ma non è che una reminiscenza. L'uomo ha, senza dubbio, imparato a parlare cinema ed intende dire cose proprie, in maniera propria, con un proprio accento.
Solo un difetto s'avverte, che vien dalla vecchia, abitudine d'improvvisare e superfìcializzare. Il narratore scivola brillante sulla materia e non l`approfondisce e non la domina. Pattina soltanto, arabescando appena la lucida pianura del ghiaccio. Che cosa veramente sia sotto il gelido specchio, lui non sa con precisione e, talvolta, non sospetta neppure.
Le sequenze prettamente cronistiche e descrittive, quelle cioè in cui non si tratti che di fiorire in superficie, sono quasi sempre ottime. Vedete, in Luce nelle tenebre, le due sequenze iniziali: la corsa della ragazza per i negozi e la visita dell'ingegnere in casa del clinico. Niente di più arioso, di più vero, di più fine. Il narratore sa veramente che cosa sieno cinema e ritmo. Anche l'arrivo delle due sorelle alla miniera, e la visita alle gallerie, hanno il linguaggio della più fresca e vivida realtà.
ln Ore nove, lezione di chimica c'è qualcosa di più che garbo descrittivo: c` è il tono azzeccato, il tono ambientale nelle sue infinite sfumature. Bisogna chiudere un occhio, naturalmente, e talvolta due, sulla goffaggine manierata di qualche figura (quella del papà milionario, per esempio, nel suo modo d'accomodar le cose familionarmente, come avrebbe già detto ai suoi tempi Arrigo Heine). Ma, nell’insieme, il tessuto sociale è ben sentito, tanto nelle movenze caratteristiche quanto nella discorsiva finezza.
Quelli di cui il Mattioli non s`accorge mai sono i trapassi disastrosi di tono nella sua materia: i crepacci subitanei della sua lucida superficie. Lo sceneggiatore può tendergli qualsiasi tranello: avvezzo a brillare sulla sua nitida pianura, il regista andrà dritto verso l’insidia e precipiterà, sicuro, sicurissimo di pattinare ancora sul più solido ghiaccio. Non ho mai visto una tale allucinatoria sicurezza.
E' chiaro che il nostro Mattoli dovrà avvezzarsi sempre più a scrutare lungamente o profondamente la sceneggiatura, prima d'affidarsi a lei e mettersi a pattinare. Bisogna. che avverta tutte le insidie e le elimini in tempo, prima di lanciarsi. La sceneggiatura è oggi, per lui, troppo foglio musicale, troppo composizione intangibile. Ci rimetta le mani lui e ricomponga arditamente sino all'ultimo minuto, e dia finalmente alla sua materia quell’omogeneità, quella coerenza, quella solidità, che, sino ad oggi, le sono mancate.
Il giorno in cui disporrà d’una materia perfetta, senza crepacci né buche, il Mattoli farà un’opera' d'arte, pulita come un gioiello. Per essere un perfetto artista, il nostro Mattolì deve fidarsi meno di chi lo circonda: deve affrontar direttamente la sua materia e guardarci ben dentro da solo: deve fare insomma come quel contadino marchigiano che quando, in agonia, il prete cominciò a dirgli: « non vorreste, figlio mio, regolare un po' il vostro conto col ministro di Dio?», raccolse quel po' di fiato che gli restava e rispose: «no: vojo fa' Ii conti direttamente col padrò».
Se gli ultimi due film del Mattoli avevano debolezze, eran debolezze assai più di costituzione, di sceneggiatura cioè, che di stile. Il regista aveva lasciato fare troppo ai ministri che, come avvertiva il Pascarella, non sono mai da prendere troppo alla lettera, «perché te lassano contento e cojonato».
Il lento ma sicurissimo maturare di quest’artista va seguito con attenzione e simpatia.  Il Mattoli è un osservatore realistico, pieno di forza e di finezza, quand’è in vena. In Luce nelle tenebre, ho ammirato come una piccola, gustosissima acquaforte, il suo appuntamento galante al Caffé Greco. C’era una grazia amara ed epigrammatica ad un tempo, che non mi sarei mai aspettata da un «figliuol prodigo» così zabumeggiante e così poco fatto per diventare un impressionista incisivo, un Toulouse-Lautrec. Voglio illudermi i che anche questa gomitata di paesano gli farà bene e lo farà sempre più svelto e bravo. In ogni modo, sono felicissimo d’avergliela data. Io non sono, e neppure lui, un licienciado Vidriera che tema di cadere in frantumi appena qualcuno lo tocchi.
Sapete chi era questo Vetriera? Un personaggio delle cervantesiane «novelle esemplari», che aveva la fissazione d’esser tutto di vetro e di dover quindi frantumarsi al menomo urto per via. Guai a toccarlo: dava in ismanie ed urla di terrore. Quanta gente, eh, quanti Vetriera passeggiano oggi per via, che non si devono toccare neanche con un dito! E’ forse il tempo di cominciare a capire che gli uomini che hanno un cuore nel petto ed una coscienza pulita, non hanno paura d’un urtone: e, se occorre, ve lo restituiscono allegramente.
Eugenio Giovannetti

Opere di Mario Mattoli : Tempo massimo (1934) - Amo te sola, Musica in piazza, Sette giorni all’altro mondo (1935) – La damigella di Bard, L’uomo che sorride, Questi ragazzi (1936) – Gli ultimi giorni di Pompeo, Felicita Colombo, (1937) – Nonna Felicita, L’ha fatto una signora, La dama bianca, Ai vostri ordini signora (1938) – Imputato alzatevi, Mille chilometri al minuto, Lo vedi come sei, Eravamo sette vedove (1939) – Non me lo dire, Il pirata sono io, Abbandono, Luce nelle tenebre (1940) – Ore nove, lezione di chimica (1941) – In lavoro: Viglio vivere così.  
film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRA E RADIO ANNO V - N. 3  17 GENNAIO 1942 XX



La testata si riferisce al film Soltanto un bacio diretto da Giorgio C. Simonelli e interpretato da Valentina Cortese, Carlo Campanini, Otello Toso, Lauro Gazzolo (Prod. Aquila Film).

mercoledì 8 gennaio 2020

F. M. Poggioli si difende


I registi si confessano
I MIEI DIFETTI
di F. M. Poggioli

Anche F.M. Poggioli ha risposto all'invito da noi rivolto ai registi italiani:Volete dirci quali pensate che siano i vostri difetti?".
                                
Mio caro Doletti, la trovata è buona, ma in che imbarazzo vuoi mettere i registi! Chiederci delle confessioni è già una cattiveria: figurati, poi, pretendere che noi si parli in pubblico dei nostri difetti.
Ma tant'è: la cosa mi diverte e vorrei guardarmi un po' allo specchio da solo, senza l'avviarmi i capelli
in fretta come si fa nelle anticamere dei commendatori. Poi penso che ognuno si aggiusterà dei rimorsi o pentimenti festivi, ognuno cercherà con cura nel guardaroba, perché, l'occasione a parlare di sé é rara, ed anche la stonatura della cravatta va scelta con eleganza.
Se dovessi essere proprio sincero (e rischiare la vanità) ti direi che a vedere i miei film, sono sempre i
difetti... degli altri che mi colpiscono. Ma questo può sembrare un trattato spiritoso di penna (ed a turno potrebbero pescarvi attori, produttori, sceneggiatori) ed allora ti dirò che il mio grosso neo, quello che compromette, spesso le cose, è la mia estrema 'pazienza.
Ma come si fa a non esser pazienti con tutta una folla che sollecita fuori la porta stretta di Cinecittà! Guai a perdere la calma. Una sera, uno scocciatore soggettomane, mi ha perseguitato per telefono a tal punto da iniziare la lettura del copione all'apparecchio, ed io mi sono addormentato dolcemente mentre la voce da cappella sistina belava: “E' il mio cuore che voi avete calpestato, Duca, il mio povero cuore!La notte ho sognato un cartone animato dove un "re di spade” passeggia su di una scala reale di “cuori".
Parlarti criticamente dei miei lavori! Ma tu sai che i figli brutti sono quelli più legati alle gambe dei
genitori, ed i belli si staccano e si estraniano alla prima lusinga di primavera. E, poi, niente di più superficiale
che voltare le spalle a i propri errori; sono essi che ci sorvegliano da lontano e che ci rendono migliori. Quando uno parla d'un libro, d'una gita, d'un amico e dice: “peccato che...” rinnova senza accorgersene un’antica sciocchezza, perché proprio in quel rimpianto è la convalida d'una presenza. Un tale diceva (è un bel tipo e te lo farò conoscere) che ogni acuto perfetto dovrebbe risolversi in una sbadiglio!
Ma, caro Doletti, mi accorgo che la chiacchierata diventa un po' lunga per una lettera. Mi raccomando però di non pubblicarla scambiandola per l’articolo: vedrai che fra 3 o 4 film, potrò parlare più seriamente dei miei difetti. Il tuo cordialmente
F. M. Poggioli
film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 10  7 MARZO 1942 XX

Nella foto: F. M. Poggioli e Maria Denis durante le riprese di Sissignora (1941).

lunedì 6 gennaio 2020

Ferdinando Maria Poggioli

1897 - 1945

I REGISTI (senza peli sulla lingua)
FERDINANDO M. POGGIOLI
DI EUGENIO GIOVANNNETTI
E' l'unico, nel cinema, che sappia creare un’atmosfera: che abbia. sentimento nel significato umile della parola, tra il lirico e l’idilliaco. Ma non sempre mi fido. L’esperienza m' ha insegnano a diffidar degli atmosferici.
Dovevo aver qualcosa da un giornale letterario in liquidazione. Avevan nominato liquidatore un avvocato intellettuale. Ci vado e mi fà gran festa. Non mi davano un soldo, ma lui, l'avvocato, chiari’ illuminò la situazione. Un’ avvocato - diceva deve creare atmosfere d’intesa, di cordialità, di fusione. Ci fondemmo in una conversazione letteraria.
Mi condusse poi nella stanza da pranzo, a vedere una natura morta di De Chirico: mele grosse come poponi, che cantavano contro un lenzuolo. Ci fondemmo di nuovo.
Nel discender le scale, rifacevo, un po’ i miei conti. Avrei dovuto avere un migliaio di lire: m'avevano pagato con un paio d'atmosfere.
Ferdinando M. Poggioli non pizzica soltanto: è atmosferico dl buono; e con l' Addio giovinezza ci ha rimessi tutti nella buon'aria dei vent’anni. Del resto, questo giovialone conosce a meraviglia il cinema. Viene, come suol dirsi, dalla gamella. Ha fatto le ossa nel montaggio, dopo aver cominciato nel 1936 con un ottimo documentario: Paestum, e con un film arioso: Arma bianca.
L’aria è la sua vocazione, nel senso buono della dannunziana canzone a Verdi:
ci nutrimmo di lui come dell’aria
cui dà la terra tutti i suoi sapori.
Siamo oggi un po’ tutti figli dell'aria, e Poggioli, questo cordialissimo Ariele, ci attira. L'aria nutre ormai le nostre più dolci illusioni. Ricordo la sera in cui si dette, al Costanzi l’Emiral di Bruno Barilli. Il musicista non riconosceva più l’opera sua. L'aveva intramezzata di pause, di silenzi larghi, accoglienti come canapê. Il direttore d’orchestra, un barbaro, aveva calpestato tutto: e d'uno spettacolo da sciorinare in tre buoni quarti d’ora, aveva fatto uno straccio che durava, si e no, una trentina di minuti.
Il nostro Brilli non si riaveva dalla mortificazione. In tanto disastro quelli ch'egli rimpiangeva senza fine erano proprio quei lunghi, quei deliziosi silenzi atmosferici, di cui aveva invano tramezzata la sua musica.
La sorpresa e la costernazione egli riassunse finalmente nelle storiche parole: «Ci avevo messo tant’aria dentro!».
Un significato intensivo da registrare alla voce «aria» nel nuovo Dizionario dell'Accademia. Ma non so se lo faranno. I signori accademici ci han già messo per conto loro tant'aria dentro a quel dizionario.
Torniamo al sodo. Ferdinando M. Poggioli rappresenta nel nostro cinema non un patetico volgare ma una
bonomia calorosa. C’è veramente qualcosa di giovanile in lui, non in quanto giovanile significhi sentimentale, ma, al contrario, in quanto significa spregiudicato e brinoso ad oltranza.
La piega sentimentale è la grande insidia pel regista Poggioli, quella che lo fa e lo farà sempre più proclive ad un romanticismo lezioso e dolciastro, ad un Murger zuccheroso. Ha evitato brillantemente quest’insidia in Addio giovinezza ma non ha saputo evitarla in Amore canta, in cui dava già nell’oleografico e nello sdolcinato, con quell’ «amoroso» troppo carino, ch'era già la donnina della situazione.
Quella di cui il nostro cinema ha supremo bisogno è l’allegria maschia, che non ha niente di comune con la chiassosa sentimentalità. Gli stessi personaggi di Addio giovinezza, a guardarci bene, non sono che sentimentali chiassosi. Se l'eroe di quel film conoscesse la vita dal lato della vera allegria, sposerebbe la sua brava sartina, infischiandosi del giudizioso matrimonio combinato già per lui al paese. L’allegria virile è quella ch'è sempre sicura di farsi una strada nel mondo, anche se tutto vada in perdizione. Non ti fermare al cipresso bianco – raccomandavano gli orfici al morto, Bisogna essere orfici a questa maniera. Voi mi combinate un cipresso bianco al primo entrare nella vita. Io vado contando incontro al nero che m’aspetta. ch`è il mio, ch'è quello dell'ilare disperazione.
Il miracolo del film Addio giovinezza l'ha veramente fatto l’atmosfera ch'è calda, tenera, suasiva. Nel film successivo, nell` Amore canta, l’aria sapeva già di chiuso. Ma quel ch’era lampante in questo film era l'abiezione in cui lì nostra melodia è caduta. L’ Amore canta, era per l'assenza ciel canto, la classica lepre in salmi’, cui è mancata soltanto la lepre. Uno striminzito, un languido motivo giazzistico, nasato in parole inqualificabili, passa oggi, nel paese del Bel canto, per una canzone.
Ma chi ci libererà di quest’ immonda giazzistica spazzatura che la radio continua a gittare sull’ Italia? C'è da scrivere - e il nostro animoso Auditor porrebbe farlo - un piccante saggio sull’Italia americanizzata.
L'America, ed un'America deteriore, ha invaso il nostro costume sino ad impensabili profondità. Chi potesse elencare tutto quello ch'è oggi d'americano nelle nostre idee, nei nostri gusti, nel nostro costume, un po' per nostra campiacenza ed ancor più a nostra insaputa, farebbe una «segnalazione» nel più perfetto significato americano della parola.
Le generazioni cresciute nel culto della melodia italiana trovano insopportabile oggi il rabagliateggiare: ma
la piega giazzistica è più dura, più bronzea di quelle delle statue di bronzo. Non ne vogliamo, certa, far culpa al nostro Poggioli che piglia la melodia che trova. Ma bisognerà, pur venire, un giorno, ad una resa di conti anche in questa materia.
La verità triste è che l'educazione musicale è ancora troppo poco diffusa nel nostro paese: ed i nostri registi rappresentano perfettamente in questo l'incultura nazionale. I nostri registi sono, quasi tutti, assolutamente agnostici in fatto di musica. La musica è faccenda del musicista e non li riguarda in modo alcuno.  
Quanto un'educazione musicale più diffusa, un gusto più nobile e sicuro. una delicatezza interiore del sentimento musicale, rialzerebbero il tono del cinema italiano, è inutile dire. Se come spettacolo, il nostro cinema è così ostinatamente proclive al filmaccio storico, se sa ancora così sovente di «melo», la causa è ben semplice: il gusto nazionale in musica non s’ è mai alzato d'un palmo al di sopra del «melo», e la buona, la grande musica sinfonica interessa soltanto un pubblico d’eletti e non la massa.
Il giorno in cui uno stadio si riempisse, come può accadere in Germania (ed anche in America) per una sinfonia di Beethoven, molti film avrebbero in Italia un altro tono. In America, intorno alla « Messa » di Verdi, si sono avuti uditorii di quarantamila persone. Ecco il solo americanismo che valeva la pena d’introdurre nel nostro Paese. Un gusto più popolare per la musica pura, ci darebbe anche un cinema meno
chiassoso e più architetturale e più puro.
Siamo, ancora una volta, usciti dal seminato. Ci ritorniamo. Ferdinando M. Poggioli non è più un uomo di primo pelo ma ha, da quando ha diretto Addio giovinezza, le simpatie dei giovani.  Sentimentali o rompicolli, abbiamo tutti, in fondo, molta fiducia in lui. E' un uomo che conosce bene il cinema ed ha trovato, tra insidie e pericoli sempre presenti, un suo genere non volgare.
Purché non cada nel patetico e nello sdolcinalo purché non ci regali un Marivaux filmistico, che sarebbe insopportabile, purché cerchi d'elevarsi ad una gaiezza robusta e sostanziale, il Poggioli è un regista del domani, che può far cose eccellenti. Passato per una dura trafila, è arrivato alla regia sulla maturità, da pochissimi anni cioè: ma la maturità è saporosa già, benché sia quella iniziale del settembre, ancor pieno di luci e di festa.
Aspettiamo con la più lieta fiducia i frutti di questa bonomia festante e saporosa. La giovinezza non sa cantare sé stessa Solo il settembre sa cantar bene In dolcezza d' aprile, in quanto gli somiglia e, anche se già lontano, può vederlo ancora alto sul ciglio della stessa verde collina.
Eugenio Giovannetti

Opere di Ferdinando Maria Poggioli: Arma bianca, Impressioni siciliane, Paestum, Presepii (1936) – Ricchezza senza domani (1939) - Addio giovinezza (1940) – L’amore canta, Sissignora (1941).

 film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 2  10 GENNAIO 1942 XX



La testata si riferisce al film Paura d’amare diretto da Gaetano Amata e interpretato da Camilla Horn, Carlo Minella, Nino Marchesini (Prod. Andros – Vitafilm)

domenica 17 novembre 2019

GIOVACCHINO FORZANO


I REGISTI (senza peli sulla lingua)
GIOVACCHINO FORZANO
DI EUGEGIO GIOVANNETTI

lmmobil resta a ver la terra
inchina un ginocchio a pregar ...

La paterna baritonal voce di Guglielmo Tell quanta onda d'immagini sommuove dalle perdute stagioni!
Tutta un’età, cui volti ad essa appartenenti e di cui essa dolcemente si colora, ecco risollevare, d'un tratto sull'ala grave del canto! Profondità, trepide della memoria, pieghe avvolgenti del paterno mantello, che solo la baritonal voce sa riscuotere e ricomporre intorno all'algore della mental solitudine, eccovi ancora, a sommo dei pensieri, con le note di papà Rossini cui l'anima s’affidò e s’affida.
Al primo freddo d'autunno non ci avvolgiamo ancora di quella tal voce, di quel tepor luminoso cha riaffiora d'improvviso in noi dalla grande estate ottocentesca della passione e della patria? I solari e accurati volti della nostra estate paesana, della nostra «stagione d'opera» in cui quell'estate culminava, non si riassunsero un giorno nel volto di quell’onesto baritono che dette al nostro provinciale teatrino un esemplare, un indimenticabile Guglielmo Tell?
Quanto di questo buon pathos baritonale, grave e luminoso, scenografico e carezzante, cui l'anima non sa resistere anche se la mente protesti, Giovacchino Forzano ha saputo portare nel cinema italiano! Che qualcosa protesti innanzi ad un film di Giovacchino accade molte volte, in quanto la nostra mente, nella sua mattinale limpidità, in cui par riflettersi ancora per un attimo la platonica Mente divina, odia tutto le furberie ed i lenocinii d'una bassa teatralità: ma l'anima, nata e rimasta farfalla, si lascia pur prendere dalla baritonal finezza del cinema forzanesco. Arriva sempre, in un film forzanesco, la scena in cui l'anima, imberluccata come l’uditorio di qualche stornellante trasteverino, è costretta a far coro e ad ammettere: «come canti bè! come canti bè!»
Ricordo l'esordio del regista Forzano in Camicia nera, La mente aveva un bel mettersi in guardia contro la furberia scapinesca dell'uomo di teatro: arrivava il momento in cui bisognava cedere, in cui l'emozione vi pigliava alla gola, in cui l’anima si ricordava di appartenere, grammaticalmente almeno, al genere femminile, d’esser cioè nata per commuoversi ad un certo punto, per illanguidirsi, per lasciarsi rapire. L’uomo di teatro, l’irresistibile cantore, aveva vinto anche nel cinema, vi aveva messo nel sacco insieme con gli altri, vi portava via, volente o nolente. Che ci starebbero a fare nel mondo gli oratori, gli uomini di teatro, i cantori squillanti o soavi, se non avessero su di voi questo tremendo potere?
Cantore squillante, Giovacchino Forzano? No: quello ch'egli porta nel cinema è il patetico delle grandi arie, la dolcezza grave e nostalgica, una punta d'accoramento, che, come tessitura melodica, non va mai, di solito, oltre il sol. Quello che conta è per lui, la tempestività, la chiarezza, la teatralità della nota.
0 speranze perdute, o memorie...

Non già che gli manchi, volendo, la baldanza, lo squillo di Eacamillo nella Carmen:
Toreador … la festa del valor…

Ma non è il suo genere. Giovacchino Forzano, come regista, è l’uomo dell'emozione nobile ed alta. Non gli chiedete il pittoresco, il descrittivo, il piƒ-paƒ del baritono degli Ugonotti: chiedetegli la grande movenza, il linguaggio sostenuto del cuore, l’eloquenza degli eterni affetti. Come i veri uomini di teatro, Giovacchino Forzano attinge soltanto a quelli che sono i sentimenti eterni: l'odio generoso e l'amore come costruttiva speranza. Nessun abisso; nessuna profondità; ma la media più emozionante e più rasserenante.
Che il dramma storico lo attraesse anche nel cinema, e particolarmente nel cinema, era fatale. Il dramma storico è l’atmosfera stessa del grande patetico e dell’emozione: è, si direbbe, l'emozione allo stato gasoso. Ma che il Forzano qui, come sommuovitore di masse a scopo filmistico, abbia rivelata una sapienza più fine e più spettacolosa che quella d’un Guazzoni o d'un De Mille, io non direi. Nei suoi film storici sono ancora, più o meno, le masse della Scala, senza alcuna nuova dynamis filmistica: senza le prospettive magnificanti d’un Gance, senza l'intuito poetico d'un Lang. ln altri termini, anche nel cinema forzanesco, siamo ancora al vecchio culto scenografico della «massa per la massa», al quello che, in una Traviata della Scala, proporzionando la folla degli invitati alla vastità e alla dignità del boccascena, trasformava il pranzo di Violetta in un banchetto elettorale.
Il film storico e spettacoloso è stato, in sostanza, il più rovinoso equivoco di Giovacchino. Anche nei drammi filmistici, la vera forza di Giovacchino deriva dalla foga del cantabile, dalla veemenza emotiva e subitanea degli «a solo», dalla persuasività dilagante di qualche sentimento nobile quanto elementare. Ho sempre avuto il sospetto che il fondo vero di quest'uomo di teatro sia non il dramma spettacoloso, per cui egli non è che un Sardou in diciottesimo, ma il mimo arguto ed idilliaco, di cui avrebbe potuto essere un ravvivante e popolare maestro. In età della nostra meno convulse, e meno ansiose di dramma, Giovacchino sarebbe forse fiorito come commediografo limpido e a fior di terra, e non avrebbe mai pensato a mescolarsi con figure di shakespeariana levatura, che – lui personalmente -non lo riguardano né punto né poco. 
Non ci doliamo tanto del falso truce ch'egli ci ha dato, quanto ci doliamo dello schietto, del mattinale, del festante, ch'egli avrebbe potuto darci e, per la pressura dei tempi, non ci ha dato. Quel che di veramente grandioso egli ci dava, non era- farina del suo sacco, ma in fondo al suo sacco è pure un dono del mattino, un che di terso e di trillante, tra il grillo e il passero, una felicità canora appartiene a lui solo e che vorremmo ancora sentire.
Troppo superficialmente il critico Adriano Tilgher chiamava «giovacchinate» le cose teatrali di Giovacchino. Noi riconosciamo volentieri che, in fondo alla facilità con cui Giovacchino giovacchineggia, è qualcosa che somiglia alla felicità in quanto questa è voce terriera di gjrillo, di rana, dì passero. Non tutto è usignolo o allodola nella sinfonia dello spirito: non tutto, è lirica solitudine. Il passero è il cordiale baritono della natura, che potrebbe dire qualcosa di buono a tutte le ore, a patto, s’intende, di non impreziosire come un canario e di non volar alto come l’aquila.
Nei film storici del nostro Giovacchino il passero s’affanna troppo e non ha quasi mai la sua schietta voce. Di tanto tramenio, di tanto fracasso, non una nota che sia rimasta. La vena sommessa del cantore, la vena della tenerezza giocosa, è infinitamente più schietta. Ah, se il nostro Giovacchino fosse stato sempre all'altezza umile e giuliva d'un baritono rossiniano, forte nel Guglielmo Tell come nel Barbiere di Siviglia! Per questa felicità versatile, per questa popolaresca, limpidità, il nostro uomo era forse nato. Il cinema lo ha obbligato troppo a sforzar la nota, e, nello stesso tempo, a darsi un contegno; a limitarsi per un lato, a strafare per l’altro; a raffazzonare, a camuffare, a rimediare, a rimpasticciare per ogni verso. Lo rimproveravamo d'aver le mani buche del prodigo; ed il cinema quale gliel’avevano congegnato, ne faceva un crivello, una graticola, un bucataio, qualcosa che deve affannarsi da mattina a sera e da sera a mattina, per non istringer mai nulla o non conchiuder che a grandissimo stento.
Il cinema ha proprio minacciato d'inaridire questo cantore istintivo, dall’inesauribile vena. Serate dolci della bella stagione piene di raganelle vicine, e blandie dagli echi di qualche serenata lontana, ecco un tragico regista che, solo in mezzo al suo gramo castello di celluloide, si trambascia pensando a Tredici uomini e un cannone, il nuovo film dopo gli strepitosi storici Villafranca, Campo di Maggio, Fiordalisi d'oro.
Un cannone! Ecco il nuovo tremendo baritono cui bisogna pensare.
II cannone? Ma è proprio un baritono, o non è piuttosto, come pensava il poeta Ragazzoni, un tenore
scoppiante, un tenore petardiero? Da piccoli, abbiamo tanto sentito parlare d'un tenore Tamagno la cui voce, tutti dicevano, «tuonava come il cannone». Maturatosi con quest'idea, il poeta Ragazzoni aveva creduto, un giorno, di poter finalmente invertire le parti. Ricordo il sorprendente, melodrammatico effetto che faceva il verso ragazzoniano:

Il cannone, Tamagno delle battaglie...

Ma io vorrei tornare ad invertire le parti e, restituendo l'immagine alla primitiva grandiosa semplicità, son tentato a chiedermi oggi: non è stato, non è Giovacchino Forzano il cannone dei baritoni? Non è la voce naturalmente grave e paterna, che, al cinema, ha dovuto d'un tratto scoppiare, tonitruare, rimbombare, fragoreggiare, rotolar d'eco in eco e, dilagando per le ultime convalli, affievolirsi lenta nello stupor della vallata?
Nell'inane stupor del nostro cinema, Giovacchino Forzano è passato cosi, come la più roboante cannonata.
Ci ha lasciati con una nostalgia infinita del mezzitoni, delle inflessionì
carezzose, delle paterne dolcezze ammonitrici, delle prospettive verdi di rimpianto e d'idillio, per cui soltanto la voce baritonale pare nata. Maneggioni assassini del cinema, siete voi che di questo facile e felice cantore avete fatto il gigione tonitruante che, per la vallata grigia del film, deve passare come la metaforica cannonata del Barbiere di Siviglia, non lasciando che vuoto e rimpianti dietro di sé:

alla fin trabocca e scoppia,
si propaga, si raddoppia,
e produce un'esplosione,
come colpo di cannone,
come colpo di cannone!

Le sue commedie più riposate e più serene dovevano portarle altri al cinematografo. A lui, dopo qualche alloro iniziale e dopo. tanto chiasso e tanto mondano rumore, il cinema non riservava più che noie e triboli senza fine.
Ma non è detta l'ultima parola. Non è detto che Giovacchino Forzano debba cantare già, col Filippo II del Don Carlos:
Dormirò solo nel manto mio regale.

Vogliamo sentirlo finalmente in una serenata lieve, in un film tiepido e chiaro come una mattinata d’aprile, in qualcosa che blandisca l’anima, come la serenata mozartiana di Don Giovanni:

Deh, vieni alla finestra, o mio tesoro ...

Il nostro cinema ha già anche troppi gigioni lugubri. Quello di cui c’è tanto bisogno è il leggero, l'aereo, il carezzante. Ci faccia sentire, il nostro Giovacchino, qualcosa del più trillante repertorio, qualcosa che odori ad un tempo di campo e di nobile festa. Avanti! Non si faccia più pregare...
Non insistiamo, per non aver l’aria degli onesti borghesi che intendono farsi pagare dal celebre concertista il grazioso invito fattogli ed il buon pranzo datogli. Un grande pianista, credo fosse Listz, in circostanze sìmili, data una manata sulla tastiera, voltava le spalle dicendo: «tenete: per il vostro pranzo».
Eugenio Giovannetti
Opere di Giovacchino Forzano: Camicia Nera, Villafranca (1933) -- Campo di Maggio, Maestro Landi (1934) – Fiordalisi d’oro, Colpo vento, Tredici uomini e un cannone (1936) – Sei bambine e il Perseo (1939-40) - Il re d’Inghilterra non paga (1940-41). 


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 6  7 FEBBRAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Rossini diretto da Mario Bonnard e interpretato da Nino Besozzi, Armando Falconi, Camillo Pilotto, Paola Barbara (Produzione Nettunia Film)

domenica 6 ottobre 2019

NUNZIO MALASOMMA

I REGISTI (senza peli sulla lingua)

                                                NUNZIO MALASOMMA
DI EUGENIO GIOVANNETTI

Nunzio Malasomma
1894 - 1974

Non sarebbe male cominciare con una piccola predica brillante sulla mediocrità, fiera crudele e diversa. Chi non fu mai mediocre nell'arte sua, scagli la prima pietra.
Oh sì, io scaglio la pietra, e sono mediocre tuttavia. Beate le arti dal climi estremi, che non conobbero mai la poltrida bestia dalla mille iridi: la pittura spagnola, per esempio, in cui non fu mai lecito esser nel mezzo e si fu sommi o si fu infimi. La nostra pittura? Troppi ingegni contenti di sé, equilibrati, espansi (un latinismo odioso quanto impeccabile, che traduce perfettamente il francese rêpandus).
Un pittore come Andrea del Sarto, un decoroso, un felice mediocre, non è immaginabile nel paese in cui lo spirito è alla bassura di Sancio o al delirio di Don Chisciotte. O sono El Greco o sono l’imbianchino: non vogliono bestia che sia tra l’asino di Sancio e l’alato Ronzinante.
 A galoppo per un'ora sulla mia chimera, dannato e povero. Il resto, che conta? In quasi tutte le arti la mediocrità è protetta? E che m’importa, se per un’ora almeno avrò respirato nella mia apocalisse? Beati, in arte, i fanciulli che precipitano al primo passo! Voleranno, un giorno, più alti del cherubino.
Non c'è che un’arte oggi, al mondo, in cui la saggia mediocrità sia di prammatica, sia proclamata e conclamata come una forza: l'arte del regista. Assicurarsi, a forza di saggie concessioni, il consenso di quell'oscura potenza multanime ch'è la folla, può parere ed essere una sana prudenza. Nel cinema, ritrovare l’aspirazione segreta degli innumerevoli e blandirla, per bassa e turpe che sia, è pur sempre al segreto d`un successo perfettamente legittimo in quanto l'industria cinematografica non se ne  proponga altri. Il cinema non sì fa pei soliti dodici o ventiquattro avanguardisti. E', al contrario, il più largo presente dei presentisti: e voi, artisti mancati e insoddisfatti, che non tollerare la mediocrità, rompetevi il collo altrove con la vostra chimera.
Il cinema è Sancio che si camuffa, se vuole, anche in cherubino.
Un troppo lungo preambolo, forse, per affrontar la mediocrità decorosa di Nunzio Malasomma, ma in non ho mai saputo in realtà da che parte prendere questo regista dignitosamente impersonale, che fa, ogni tanto, una comparsa soddisfacente e poi scompare senza mai lasciar detto né dove vada né quel che intenda di fare.
Dev`essere in lui qualche disdegno o qualche riserbo, perché, ed è sempre stato, il regista italiano che fa meno parlare di sé, avendo pur l`aria d’essere ben contento di sé. Poco si sa di lui, delle sue abitudini, dei suo passato. Sappiamo che ha viaggiato e che lavorava in Germania al tempo della dispersione, coi Righelli, coi Bonnard.
Ebbe, certo, in Germania la cinematografica ventura d’imbattersi in Luis Trenker, allora nel suo primo romantico fiore. Oggi Luis Trenker è un po' il Gigione delle vette. Allora, Nunzio Malasomma e Mario Bonnard potevano ancora combinargli un truculento e romanticissimo film: I cavalieri della morte.
Nel 1931 il Malasomma è con gli altri in Italia: ed eccolo alla Cínes con l'Uomo dell’artiglio e La cantante dell’opera. Il suo passaggio alla Cines non lasciò veramente segno alcuno: la mediocrità del Malasomma in cose come La telefonista era un po’ troppo grigia. Francesco Pasinetti ricorda nella cantante dell’opera un'interessante ricerca d`effetti contrappuntistici tra immagini e suoni. lo ho il ricordo ben vivo di quelle ricerche non tanto nella Cantante dell’opera quanto nella Vecchia signora d'Amleto Palermi.
Il merito di quelle ricerche va, del resto riconosciuto oggi al musicista Umberto Mancini assai più che ai registi. La trovata era quasi sempre essenzialmente musicale e seguiva e animava l'immagine. Il musicista Mancini aveva allora una fresca vena umoristica, che s'è perduta. Nella Vecchia signora la galoppata del vecchio sfiancato cavallo di botticella sui selciati di Roma era un capolavoro d'umorismo musicale, che vivificava d'un tratto, attraverso la suggestione ritmica soprattutto, una sequenza che sarebbe stata in sé grottesca e triste.
Un musicista che avesse oggi quella vena potrebbe rendere ancora servizi preziosi alla nostra commedia filmica. Ma la nostra mu sica filmistica è oggi così boriosa nella sua funzione di tappezzeria! Vuol mettere sempre arazzi dove basterebbe un caprifoglio rampicante sotto una dannata fuga di rondini.
Nelle successive comparse abbiamo sempre visto un Malasomma dal mestiere esperto, ben curato, soddisfatto, anche in cose di colore leggero come Nina, non far la stupida. La commedia è visibilmente il suo forte: e tutto in questo genere gli va. 
Eravamo sette sorelle: qualcuno gli ha manipolato per un film, per un titolo almeno, anche questa divina fiabetta che profuma tutta l’opera dannunziana, come un invisibile sacchetto di lavanda profuma tutto un guardaroba. Ci dovrebbe essere una censura dei titoli cinematografici, che punisse siffatte profanazioni. Eravamo sette sorelle: questo piccolo sacchetto di spigo, la sola cosa forse che, tra mill'anni, i poeti trarranno ancora odorante di sotto ai muffiti damaschi del guardaroba dannunziano, ecco che il cinema pretendeva calpestarla sotto i suoi zoccoli grigi. Il lettore si rassicuri. Nunzio Malasomma non è riuscito a seppellir la fiabetta sotto i passi spietati del suo film.
Ho visto or sono alcune settimane, Nunzio Malasomma nella sua novissima comparsa: Scampolo. Abile, accurato, ingegnoso, dignitoso più che mai. Vecchio teatro per la giovanissima Lilia Silvi. Ha saputo farla rendere, come nessuno saprà più. Non poteva dare più che tanto la piccola, ma quel tanto Io ha dato, e a meraviglia. Quando compare, Nunzio è sicuro di non fare uno sproposito. Se no, non comparirebbe.
Che cosa farà domani? Una cosa altrettanto ingegnosa e sicura. Non vi preoccupate. Quando l’eccellenza Cipriano Efisio Oppo abitava a villa Strohlfern, assentandosi soleva lasciare un laconico bigliettino sulla porta, in cui si leggeva: «sono uscito›› o «ritorno›› « non ci sono sino a lunedì ››. Nunzio Malasomma non lascia mai detto nulla sulla sua ermetica porta: ma potete star sicuri che quando meno ve l’aspettate, tornerà soddisfatto e se ne riandrà soddisfattissimo.  
Tutto sommato, o, meglio, tutto malasommato, io amo questa regista perché è, tra i nostri, quello che lascia far meno chiacchiere sul suo conto, quella insomma che importuna meno la gente con interviste e ciance e s'accontenta di fare meglio che può. Una media dignitosa? Vada. La sola insopportabile è la media boriosa, che, quando non vi seppellisce sotto le chiacchiere, tace per insoddisfatta superbia. 
Per avere scritto due parole gentili su d’un La Rochefoucauld, l`interessato s’affretterà a ringraziarvi con una lettera: ma raramente riceverete due righe di ringraziamento da un regista mediocre  da elogiato  in pubblico con la più ingegnosa cordialità. Un autista sarebbe, in casi simili, molto più gentile d’un insoddisfatto e  borioso manipolatore di film.
Ma la vera, la peggior mediocrità è forse proprio quella, che s`aspetta ringraziamenti o gratitudine. Bisogna far sempre le cose per quel tanto di buono ch'esse hanno in sé, e non pensar mai a quel che l’interessato ne dirà. Fummo mediocri perché volemmo troppo piacere: bisogna dir sempre quella che ci pare onestamente la verità; e regalarci anche, ogni tantino, quello che Baudelaire chiamava: «il piacere aristocratico di dispiacere››. 
Eugenio Giovannetti

Opere di Nunzio Malasomma: L’ uomo dell’artiglio, La cantante dell’opera (1931) - La telefonista,Sette giorni cento lire, La signorina dell’autobus(1932) – La cieca di Sorrento (1933) – Cleo robes et manteaux, Lohengrin, Non ti conosco più (1934) – Nina non far la stupida (1936) – Eravamo sette sorelle (1938)- Cose dell’altro mondo (1939) - Dopo divorzieremo (1940) - Scampolo (1941) – Giungla (in lavorazione).


film  SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V – N. 1 – 3 GENNAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film L’ultimo addio (Diagnosi) diretto da Ferruccio Cerio e interpretato da Gino Cervi,Luisa Ferida, Sandro Ruffini, Annibale Betrone (Produzione Inac - Sirena)