domenica 17 novembre 2019

GIOVACCHINO FORZANO


I REGISTI (senza peli sulla lingua)
GIOVACCHINO FORZANO
DI EUGEGIO GIOVANNETTI

lmmobil resta a ver la terra
inchina un ginocchio a pregar ...

La paterna baritonal voce di Guglielmo Tell quanta onda d'immagini sommuove dalle perdute stagioni!
Tutta un’età, cui volti ad essa appartenenti e di cui essa dolcemente si colora, ecco risollevare, d'un tratto sull'ala grave del canto! Profondità, trepide della memoria, pieghe avvolgenti del paterno mantello, che solo la baritonal voce sa riscuotere e ricomporre intorno all'algore della mental solitudine, eccovi ancora, a sommo dei pensieri, con le note di papà Rossini cui l'anima s’affidò e s’affida.
Al primo freddo d'autunno non ci avvolgiamo ancora di quella tal voce, di quel tepor luminoso cha riaffiora d'improvviso in noi dalla grande estate ottocentesca della passione e della patria? I solari e accurati volti della nostra estate paesana, della nostra «stagione d'opera» in cui quell'estate culminava, non si riassunsero un giorno nel volto di quell’onesto baritono che dette al nostro provinciale teatrino un esemplare, un indimenticabile Guglielmo Tell?
Quanto di questo buon pathos baritonale, grave e luminoso, scenografico e carezzante, cui l'anima non sa resistere anche se la mente protesti, Giovacchino Forzano ha saputo portare nel cinema italiano! Che qualcosa protesti innanzi ad un film di Giovacchino accade molte volte, in quanto la nostra mente, nella sua mattinale limpidità, in cui par riflettersi ancora per un attimo la platonica Mente divina, odia tutto le furberie ed i lenocinii d'una bassa teatralità: ma l'anima, nata e rimasta farfalla, si lascia pur prendere dalla baritonal finezza del cinema forzanesco. Arriva sempre, in un film forzanesco, la scena in cui l'anima, imberluccata come l’uditorio di qualche stornellante trasteverino, è costretta a far coro e ad ammettere: «come canti bè! come canti bè!»
Ricordo l'esordio del regista Forzano in Camicia nera, La mente aveva un bel mettersi in guardia contro la furberia scapinesca dell'uomo di teatro: arrivava il momento in cui bisognava cedere, in cui l'emozione vi pigliava alla gola, in cui l’anima si ricordava di appartenere, grammaticalmente almeno, al genere femminile, d’esser cioè nata per commuoversi ad un certo punto, per illanguidirsi, per lasciarsi rapire. L’uomo di teatro, l’irresistibile cantore, aveva vinto anche nel cinema, vi aveva messo nel sacco insieme con gli altri, vi portava via, volente o nolente. Che ci starebbero a fare nel mondo gli oratori, gli uomini di teatro, i cantori squillanti o soavi, se non avessero su di voi questo tremendo potere?
Cantore squillante, Giovacchino Forzano? No: quello ch'egli porta nel cinema è il patetico delle grandi arie, la dolcezza grave e nostalgica, una punta d'accoramento, che, come tessitura melodica, non va mai, di solito, oltre il sol. Quello che conta è per lui, la tempestività, la chiarezza, la teatralità della nota.
0 speranze perdute, o memorie...

Non già che gli manchi, volendo, la baldanza, lo squillo di Eacamillo nella Carmen:
Toreador … la festa del valor…

Ma non è il suo genere. Giovacchino Forzano, come regista, è l’uomo dell'emozione nobile ed alta. Non gli chiedete il pittoresco, il descrittivo, il piƒ-paƒ del baritono degli Ugonotti: chiedetegli la grande movenza, il linguaggio sostenuto del cuore, l’eloquenza degli eterni affetti. Come i veri uomini di teatro, Giovacchino Forzano attinge soltanto a quelli che sono i sentimenti eterni: l'odio generoso e l'amore come costruttiva speranza. Nessun abisso; nessuna profondità; ma la media più emozionante e più rasserenante.
Che il dramma storico lo attraesse anche nel cinema, e particolarmente nel cinema, era fatale. Il dramma storico è l’atmosfera stessa del grande patetico e dell’emozione: è, si direbbe, l'emozione allo stato gasoso. Ma che il Forzano qui, come sommuovitore di masse a scopo filmistico, abbia rivelata una sapienza più fine e più spettacolosa che quella d’un Guazzoni o d'un De Mille, io non direi. Nei suoi film storici sono ancora, più o meno, le masse della Scala, senza alcuna nuova dynamis filmistica: senza le prospettive magnificanti d’un Gance, senza l'intuito poetico d'un Lang. ln altri termini, anche nel cinema forzanesco, siamo ancora al vecchio culto scenografico della «massa per la massa», al quello che, in una Traviata della Scala, proporzionando la folla degli invitati alla vastità e alla dignità del boccascena, trasformava il pranzo di Violetta in un banchetto elettorale.
Il film storico e spettacoloso è stato, in sostanza, il più rovinoso equivoco di Giovacchino. Anche nei drammi filmistici, la vera forza di Giovacchino deriva dalla foga del cantabile, dalla veemenza emotiva e subitanea degli «a solo», dalla persuasività dilagante di qualche sentimento nobile quanto elementare. Ho sempre avuto il sospetto che il fondo vero di quest'uomo di teatro sia non il dramma spettacoloso, per cui egli non è che un Sardou in diciottesimo, ma il mimo arguto ed idilliaco, di cui avrebbe potuto essere un ravvivante e popolare maestro. In età della nostra meno convulse, e meno ansiose di dramma, Giovacchino sarebbe forse fiorito come commediografo limpido e a fior di terra, e non avrebbe mai pensato a mescolarsi con figure di shakespeariana levatura, che – lui personalmente -non lo riguardano né punto né poco. 
Non ci doliamo tanto del falso truce ch'egli ci ha dato, quanto ci doliamo dello schietto, del mattinale, del festante, ch'egli avrebbe potuto darci e, per la pressura dei tempi, non ci ha dato. Quel che di veramente grandioso egli ci dava, non era- farina del suo sacco, ma in fondo al suo sacco è pure un dono del mattino, un che di terso e di trillante, tra il grillo e il passero, una felicità canora appartiene a lui solo e che vorremmo ancora sentire.
Troppo superficialmente il critico Adriano Tilgher chiamava «giovacchinate» le cose teatrali di Giovacchino. Noi riconosciamo volentieri che, in fondo alla facilità con cui Giovacchino giovacchineggia, è qualcosa che somiglia alla felicità in quanto questa è voce terriera di gjrillo, di rana, dì passero. Non tutto è usignolo o allodola nella sinfonia dello spirito: non tutto, è lirica solitudine. Il passero è il cordiale baritono della natura, che potrebbe dire qualcosa di buono a tutte le ore, a patto, s’intende, di non impreziosire come un canario e di non volar alto come l’aquila.
Nei film storici del nostro Giovacchino il passero s’affanna troppo e non ha quasi mai la sua schietta voce. Di tanto tramenio, di tanto fracasso, non una nota che sia rimasta. La vena sommessa del cantore, la vena della tenerezza giocosa, è infinitamente più schietta. Ah, se il nostro Giovacchino fosse stato sempre all'altezza umile e giuliva d'un baritono rossiniano, forte nel Guglielmo Tell come nel Barbiere di Siviglia! Per questa felicità versatile, per questa popolaresca, limpidità, il nostro uomo era forse nato. Il cinema lo ha obbligato troppo a sforzar la nota, e, nello stesso tempo, a darsi un contegno; a limitarsi per un lato, a strafare per l’altro; a raffazzonare, a camuffare, a rimediare, a rimpasticciare per ogni verso. Lo rimproveravamo d'aver le mani buche del prodigo; ed il cinema quale gliel’avevano congegnato, ne faceva un crivello, una graticola, un bucataio, qualcosa che deve affannarsi da mattina a sera e da sera a mattina, per non istringer mai nulla o non conchiuder che a grandissimo stento.
Il cinema ha proprio minacciato d'inaridire questo cantore istintivo, dall’inesauribile vena. Serate dolci della bella stagione piene di raganelle vicine, e blandie dagli echi di qualche serenata lontana, ecco un tragico regista che, solo in mezzo al suo gramo castello di celluloide, si trambascia pensando a Tredici uomini e un cannone, il nuovo film dopo gli strepitosi storici Villafranca, Campo di Maggio, Fiordalisi d'oro.
Un cannone! Ecco il nuovo tremendo baritono cui bisogna pensare.
II cannone? Ma è proprio un baritono, o non è piuttosto, come pensava il poeta Ragazzoni, un tenore
scoppiante, un tenore petardiero? Da piccoli, abbiamo tanto sentito parlare d'un tenore Tamagno la cui voce, tutti dicevano, «tuonava come il cannone». Maturatosi con quest'idea, il poeta Ragazzoni aveva creduto, un giorno, di poter finalmente invertire le parti. Ricordo il sorprendente, melodrammatico effetto che faceva il verso ragazzoniano:

Il cannone, Tamagno delle battaglie...

Ma io vorrei tornare ad invertire le parti e, restituendo l'immagine alla primitiva grandiosa semplicità, son tentato a chiedermi oggi: non è stato, non è Giovacchino Forzano il cannone dei baritoni? Non è la voce naturalmente grave e paterna, che, al cinema, ha dovuto d'un tratto scoppiare, tonitruare, rimbombare, fragoreggiare, rotolar d'eco in eco e, dilagando per le ultime convalli, affievolirsi lenta nello stupor della vallata?
Nell'inane stupor del nostro cinema, Giovacchino Forzano è passato cosi, come la più roboante cannonata.
Ci ha lasciati con una nostalgia infinita del mezzitoni, delle inflessionì
carezzose, delle paterne dolcezze ammonitrici, delle prospettive verdi di rimpianto e d'idillio, per cui soltanto la voce baritonale pare nata. Maneggioni assassini del cinema, siete voi che di questo facile e felice cantore avete fatto il gigione tonitruante che, per la vallata grigia del film, deve passare come la metaforica cannonata del Barbiere di Siviglia, non lasciando che vuoto e rimpianti dietro di sé:

alla fin trabocca e scoppia,
si propaga, si raddoppia,
e produce un'esplosione,
come colpo di cannone,
come colpo di cannone!

Le sue commedie più riposate e più serene dovevano portarle altri al cinematografo. A lui, dopo qualche alloro iniziale e dopo. tanto chiasso e tanto mondano rumore, il cinema non riservava più che noie e triboli senza fine.
Ma non è detta l'ultima parola. Non è detto che Giovacchino Forzano debba cantare già, col Filippo II del Don Carlos:
Dormirò solo nel manto mio regale.

Vogliamo sentirlo finalmente in una serenata lieve, in un film tiepido e chiaro come una mattinata d’aprile, in qualcosa che blandisca l’anima, come la serenata mozartiana di Don Giovanni:

Deh, vieni alla finestra, o mio tesoro ...

Il nostro cinema ha già anche troppi gigioni lugubri. Quello di cui c’è tanto bisogno è il leggero, l'aereo, il carezzante. Ci faccia sentire, il nostro Giovacchino, qualcosa del più trillante repertorio, qualcosa che odori ad un tempo di campo e di nobile festa. Avanti! Non si faccia più pregare...
Non insistiamo, per non aver l’aria degli onesti borghesi che intendono farsi pagare dal celebre concertista il grazioso invito fattogli ed il buon pranzo datogli. Un grande pianista, credo fosse Listz, in circostanze sìmili, data una manata sulla tastiera, voltava le spalle dicendo: «tenete: per il vostro pranzo».
Eugenio Giovannetti
Opere di Giovacchino Forzano: Camicia Nera, Villafranca (1933) -- Campo di Maggio, Maestro Landi (1934) – Fiordalisi d’oro, Colpo vento, Tredici uomini e un cannone (1936) – Sei bambine e il Perseo (1939-40) - Il re d’Inghilterra non paga (1940-41). 


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 6  7 FEBBRAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Rossini diretto da Mario Bonnard e interpretato da Nino Besozzi, Armando Falconi, Camillo Pilotto, Paola Barbara (Produzione Nettunia Film)

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