Succede nei racconti popolari, e nei sogni, e nella letteratura più elementare, che il protagonista d'una vicenda si trovi legato a un ambiente e a una situazione perché lo destina cosi la fantasia dell'autore o la simbologia del sogno, e perché accada quello che si vuole accada; ma basterebbe che fosse dotato d'un minimo di libero arbitrio per poter mutare luogo e condizione, e il dramma non avverrebbe. C’è una certa gravità nella fantasia favoleggiante, di fronte a cui si resta perplessi senza ombra di commozione. Non si riesce a definire la causa della nostra scarsa partecipazione e condizione: ma quasi sempre si tratta d`una limitazione della volontà e della libera scelta del protagonista messo nella sua vicenda come in una prigione. Cosi in
Umberto D di De Sica: scelto uno dei personaggi più patetici, un vecchio, data una condizione assai comune oggi che è la solitudine, il film scorre senza che noi ci troviamo mai in mezzo alla vicenda, insensibili anche noi come gl`insensibili personaggi che rasentano quel dramma d'uomo. Il perché un'opera di così egregia fattura non ci tocchi, è nel fatto che il vecchio pensionato Umberto D., il cui cruccio consiste nella minaccia continua di essere sfrattato dalla stanza mobiliata che occupa presso una signora piuttosto equivoca, ci è presentato come se non esistessero altre stanze mobilitate nella città di Roma, e anche a minor prezzo, giacché egli paga ventimila lire al mese sulle trentamila che ha di pensione. Non ha ragione per amministrarsi cosi, cioè ragioni sentimentali, di affetto, di consuetudine, legami, ricordi. ...
Ladri di biciclette si reggeva su un filo, con quella mitica bicicletta insostituibile, ma c'era di mezzo un ragazzo, un legame, un dovere, per cui il protagonista agiva e non per sé. Qui il ragazzo è diventato un cane. Umberto D. è arrivato all'astrazione di quella solitudine, e senza l'aiuto di sequenze della forza della messa di beneficienza, e di tutta l'atmosfera mutevole d'una giornata romana, e quella densità di città. ...
Il film è ricco di belle scene, e prima di tutto una visione di Roma monumentale, divenuta scenario quotidiano e in questo senso inedita. E poi la servetta, Maria Pia Casilio, non proprio chiara e forse non del tutto verosimile come psicologia, ma tuttavia letterariamente costruita: le sue spontanee qualità naturali, dai tratti del viso, al corpo, ai gesti, al linguaggio, hanno offerto un gran partito al regista. Basta ricordare i movimenti con cui ella apre la porta della cucina e la richiude mentre regge con le due mani un vassoio carico di vasellame. È una delle cose preziose di questo film, e tutte le volte che questa piccola figura, agisce, De Sica ritrova le corde del suo miglior sentimento. Lina Gennari, la padrona di casa, dà al suo personaggio un colore e una verosimiglianza della più schietta e precisa invenzione. Nell`ambiente di lei, il regista ha messo insieme tutta un'esperienza di osservazioni. Altre figure notevoli: il mendicante dalla voce prepotente e insolente, pieno di avidità e di rancore, figura assai nota a Roma intorno agli anni subito dopo la guerra. E infine, come tratto di umore, il rosario recitato tra malati d'una corsia, per convenienza, per ottenere tolleranza dalla suora infermiera dell'ospedale. E il terzo ospedale che abbiamo visto in un mese nei film italiani.
CORRADO ALVARO, Il Mondo, 22 marzo 1952)