I REGISTI (senza peli sulla lingua)
CARMINE
GALLONE
DI EUGEGIO GIOVANNETTI
Ecco finalmente la testa di Jokannan innanzi a me, nel bacile
d'argento. Debbo proprio confessare che non so più che farne? Debbo proprio ammettere che nella commedia
umana ci sia posto anche per una figura, o un figuro, di Salomè disillusa?
Tutto sommato, che m'aveva fatto quest'uomo, perché io ce
l'avessi tanto con lui? Era stato sempre cortesissimo con me le rare volte in
cui c'eravamo incontrati. In fondo, assai più che la sua persona, m'era forse
ostica la baracca della Cines, in cui si esibiva: quella baracca in cui
l'intellettualità di Emilio Cecchi non era che incompetenza ed il dilettantismo
di Ludovico Toeplitz non era che la leggerezza pesante d'un «figlio di papà»
cui papà aveva assegnato per i minuti filmistici piaceri i milioni della Banca
Commerciale.
Ora che ho la sua testa sul bacile, posso pur confessarmi
con perfetto candore al mio Jokannan. Ero sempre incline a giudicare con asprezza i suoi film, per due mie
segrete intolleranze, contro cui, senza saperlo, egli aveva dato del capo:
intolleranza per il cosmopolitismo linguistico, intolleranza per il marcantonismo
estetico.
Contro la prima, egli aveva urtato col primo colpo di
manovella ai tempi di «Casta diva», verso il 1935, quando, ritornato in Italia dopo
una esperienza franco-tedesca che a mio parere non l'aveva messo affatto più in
alto d'un Righelli o d'un Malasomma, era stato salutato improvvisamente dagli
incompetenti e dai dilettanti della Cines come l'uomo dei grandi fiIm, come
l'uomo del domani.
Per qual mai ragione, io mi chiedevo allora, questo regista
va tanto a genio a quella gente? E fui allora invitato con molti altri al primo colpo di manovella per
«Casta diva», che voleva significare una specie di giornata storica. Tutto il bel mondo
era infatti là, ministri, deputati, letterati, banchieri, dame.
Dirigendo operatore e tecnici tutti a
nuovo, irti e sgargianti come coleotteri, Carmine Gallone sfoderava
un suo gergo
da studio, franco-tedesco-inglese, col fasto con cui in altri secoli un dottore
della Sorbona avrebbe sfoderato il suo scolastico latino. Quanto quella
iattanza di sorbonico portiere d'albergo mi ferisse il lettore non
può immaginare. Non già che io non ami il cosmopolitismo portuale a i grandi
capricci orchestrali del letterario come l'«Ulysses» di Joice. Lo conosco le lingue
europee e le conosco assai meglio di Carmine Gallone, ma adoro come incantevoli
amanti, per le cose mirabili di cui arricchiscono la mia solitudine: e le parlo
il meno possibile, perché, prima di tutto, mi rivolta l'idea che un uomo possa trovar
grossolana la sua lingua nella mia bocca, e poi perché mi par che, parlandole e
non essendo più creative prettamente strumentali,
elle si sessualizzino e si prostituiscano.
Insomma, quell'orgia linguistica
tecnico-officiosa cui il regista Gallone mi faceva assistere, mi repugnava
profondamente e mi spiegava, forse a torto, perché del suo impensato troneggiare
alla Cines. Ecco - io pensavo ed avevo forse torto - quel che ha dato nel genio
al dilettante Toeplitzche parla anche lui familionarmenete le lingue colte d
'Europa e che concilia così floridamente nella sua persona, i quattrini d'un
ebreo ed il badiale d'un frate.
Posso avere avuto torto,
ripeto, e concesso troppo alle apparenze da un Iato, alle mie fobie dall'altro.
Psso aver dato troppa
importanza a quel gergo da studio, necessariamente borioso quanto servile,
giudicandolo dall’altezza d'una Europa adorabile di cosmopolitismo
morale, qual' è quella cui io respiro: quella che va dal
Montesquieu al Principe di Ligne. Ma debbo pur confessare che la sgradevolissima
impressione s'acutizzò in me sino all violenza arbitraria d'un pregiudizio e
che, da allora in poi, io non ho più saputo giudicare con la debita serenità un
film di Carmine Gallone. Questa troppo estetica, troppo sensitiva impressionabilità, non dovrei
metterla in piazza adesso, perché
mi si ritorce e m'abbaia contro come una ridicola debolezza:
ma che ci fareste voi? Sono un po’ come quel barbiere bolognese,
giudice ipersensitivo
di cantanti, che di una celebre mezzo-soprano, di cui era infatuato, diceva:
«Ha una voce ch'è una palazzina a quattro piani, col belvedere", e, quando
qualche avventore, per giuoco, si provava a contraddirlo, cedeva di
colpo pennello e rasoio al garzone e usciva gridando: «Continua tu, perché io
non rispondo più di me».
La faccenda del marcantonismo è un po' più seria e ci porta in pieno «Scipione».
lo odio d'un odio fanatico il marcantonio, il greve, l'energetico
che, sforzandosi, si teatralizza e si scorpa.
Ho scritto tulto un libro noioso sulla religione di Cesare,
in odio a cotesta estetica tumefatta del Romanticismo alessandrino, che fu, ahimè, per tanti lati, la
romana, e che i tempi vorrebbero ricacciarmi sott'occhio. C'è un certo ponte
romano, ornato di colossali carciofi marmorei, che vorrebbero essere gruppi
statuarii ed al mio stomaco danno, senza iperbole, l'oppressione e la sottile
nausea d'una scorpacciata.
Per me il divino, e l'eroico stesso nel divino, è
leggerezza, è luce, è quella compenetrazione dell'intelligenza e della carità,
della grazia e del fuoco, che io chiamo in senso trascendente «discrezione».
Nel romanesco, tuffo posso tollerare tranne il culto del forzuto
smargiasso, del «greve», quel culto che la statuaria barocca, ben congiunta in questo con la decaduta imperiale, ha
impercettibilmente educato e mi par di sentir rispuntare persino nel malinconioso
Pinelli che s'è pur così nobilmente studiato dì veder classico e romano nel plebeo
romanesco. Sì: cotesto culto del «greve», che soltanto il Belli aveva superato
nel suo realismo veramente abissale, era rispuntato nella cinematografia romaneggiante
del Guazzoni come nell'architettura baroccheggiante del Brasini, ed il mio
incolpevole Jokannan, il mio pluriloquente Gallone, trovandolo ancora nell'aria
di Roma, ci aveva dato dentro a corpo morto,
lo aveva respiralo a pieni polmoni, regalandoci «Scipione».
lo so che qui il
tetrarca Doletti comincerà a strillare come una gazza, altamente dolendosi
d'avermi concessa la testa di questo povero Jokannan: ma io m'impegno qui
onestamente di scusare la mia vittoria, di dimostrare che cotesta estetica
aberrante del marcantonio non era affatto un errore suo: che ella era già
nell'aria, che bisognava inalarIa dovunque, transitando pei ponti, leggendo un
giornale, vedendo o rivedendo un film di soggetto romano.
Come avrebbe potuto questo disgraziato Jokannan sottrarsi
alla tremenda, universa suggestione? Elefanteggiare era necessario: non vivere.
Ed egli elefanteggiò, nincheggiò. marcantonizzò sino ai limiti supremi del
marcantonizzabile.
Per me lo «Scipione» davvero trionfante,
quello che un'arte della luce e della discrezione avrebbe sola potuto creare e mandar per tutto il mondo, non chiedeva
neanche un elefante, neanche uno; ed, invece d'un energumeno, invece del solito marcantonio romanesco dei
film guazzoniani, voleva un attore fine, supremamente fine, uno schermitore tra
lo sdegnoso e l'elegante.
Sicuro! Tutto ci assicura che il vincitore di Zama era proprio
questo: uomo di raffinatissima cultura, un sognatore supremamente discreto e singolare
d'aristocratici disdegni: un uomo fine e sovrano nel fisico come nel morale,
una lama d'acciaio, uscente dalla più vasta isola del sogno eroico e dell'orgoglio
divino, che i tempi avessero mai creata in seno alla romanità.
Ma sento che il mio tetrarca è su tutte le furie, e mi
richiama fieramente all'ordine. «Carmine Gallone - egli tuona - è un uomo che,
quando vuole, sa usare mirabilmente la chiave dei grandi successi filmistici. Questo è innegabile: ed io non tollero insinuazioni su questo punto
ch'è, in fondo, per un regista, l'essenziale».
Perfettamente d'accordo io mi guarderei bene dal negare
che Carmine Gallone conosca le chiavi del successo e che, volendo, sappia
«girarle e rigirarle sì soavi» da imprigionare il pubblico. Quel che io gli rimprovero
è precisamente di non volerle mai volerle girare abbastanza, quelle famose chiavi,
tant'è la sua fretta d'imprigionare il pubblico. La sua esperienza, la sua
finezza, la sua duttilità, il successo di cassetta
almeno, sono sempre incontestabili: ma è quasi sempre una piccola fretta
smaniosa di riscuotere il successo ultrasicuro, quella che impedisce la perfetta
girata di chiave, l'attenzione cioè dovuta alle arie, alla squisitezza vera,
alle vere solidità e durevolezza del successo.
E' un po' la situazione di quel benemerito impeccabile
mirabile sacerdote che, vantando immensi crediti, dimenticava quasi sempre i
suoi piccoli debiti, e di cui un poeta romanesco diceva:
è tanto
indaffarato in der riscote.
che non ci ha più
un minuto per pagà.
Insomma, le grosse virtù del regista sono anche per me
innegabili: quelle che mi paion dubbie sono le virtù minori, le leggere e le
squisite.
Vediamo, alla prova dei fatti, nell'ultimo film «L'amante segreta».
Ecco, a primo sguardo, una virtù di primissim'ordine, che il
Gallone possiede come pochi: l'arte di far figurare un'attrice. Il Gallone è il primo, tra i nostri registi, che sia riuscito a
scoprire, con «Manon Lescaut», la bellezza di
Alida Valli, ed anche oggi è il solo che sappia farla brillare, Nell'«Amante
segreta» ha saputo veramente vagheggiarla, acconciarla con finezza. Ma è un
successo da «Figaro» direte voi. Piano! E' riuscito perfino a far pettinare e vestire e gestire Vivi Gioi, e
questo è un autentico portento.
Insomma, Carmine Gallone, che abbiam voluto così
pervicacemente far decollare, è un regista di molte e diverse e pregevoli
qualità, che non vale affatto meno d'un altro e che vorremmo ora, dopo tanto truculento
e vano salomeggiare, restituire cordialmente alla vita.
Eugenio
Giovannetti
Opere di Carmine Gallone: Il bacio di Cirano (1919); Amleto e il suo clown (1920); Cavalcata ardente, Terra senza donne (1929); li figlio della strada, Una notte a Parigi (1932); Una notte a Venezia (1933); E lucean le stelle, Casta diva (1935); Scipione l'Africano (1937); Solo per le, Un dramma al circo. Marionette, Giuseppe Verdi (1938); Sogno di Butterfly, Manon Lescaut (1939); Oltre l'amore, Amami Alfredo, Melodie eterne (1940); L'amante segreta, Primo amore (1941); La Regina di Navarra (1942).
film SETTIMANALE DI
CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 8
21 FEBBRAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Fedora interpretato da Luisa Ferida, Amedeo Nazzari, Osvaldo
Valenti, Rina Morelli (Prod. Consorzio Icar – Escl. Generalcine)