Si noterà che collegio, cellulare o prigione, cosi
come polizia e tribunale, sono comunque luoghi o fatti istituzionali,
emanazioni <<sociali » tese in un modo o nell’altro a limitare la libertà
di individui spesso profondamente
liberi. La città, insomma, nella sua organizzazione e nei suoi aspetti “reclusivi”
diventa termine di opposizione nei confronti dell'individuo. In questo senso,
forse, non è casuale che in Ladri di
biciclette [1948] gli unici ad aiutare fattivamente, anche se inutilmente,
il derubato siano proprio i netturbini, là dove praticamente nessuno presta
attenzione al suo dramma. Anzi, proprio in Ladri
di biciclette tutta la seconda parte del film è giocata sull'opposizione
fra la disperazione del protagonista e l’atmosfera festosa catalizzata dalla partita di
calcio cui in più di un momento dell'opera vien fatto esplicito riferimento (ne
accennerà lo stesso Ricci chiedendo al figlio informazioni sulla squadra del
Modena: ottimo correlative oggettivo della sua estraneità all'avvenimento e
all‘atmosfera rilassata e festosa che esso comporta. (continua)
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
mercoledì 13 febbraio 2019
LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Reclusione/Libertà
Specificamente, il cinema di De Sica si offre,
in termini spaziali, come un’opera strutturata su una serie di opposizioni
sostanzialmente tutte riconducibili ad una fondamentale: Spazio aperto/Spazio
chiuso (o, se si vuole, “reclusione “/” libertà”). Fin da Sciuscià (1946), i cui titoli di testa si snodano sullo sfondo
immobile della prigione per ragazzi e la cui prima sequenza presenta, al
contrario, una immagine di libertà campestre, di spazi aperti e naturali (della
quale la corsa fra i cavalli è il vistoso emblema), l'opposizione e la
dominante che polarizza ogni singola opera ed insieme tutto il “corpus”
dell’intero periodo in questione. D'altro canto, non va dimenticato che essa
già si intravedeva in opere precedenti: si pensi a Teresa Venerdì (1941) o allo stesso Un garibaldino al convento (1942). Se la città, e ciò che le si
oppone, e, come vedremo, Io sfondo generale dei cinema di De Sica, l’ossessione
della reclusione ne è un'immagine rappresentativa e significante. Il cellulare
che trasporta in Sciuscià i due amici
— mentre, si noti, all'esterno un gruppo di bambini corre felice nel gioco —
tornerà anche in Miracolo a Milano
[195O] e per certi versi nello stesso Umberto
D. [1952], quando il protagonista si avventura nella penosa odissea del
canile. Collegio, cellulare o prigione, il luogo della reclusione è senza
dubbio un'ossessione costante. Ma essa trova altre immagini per esprimersi
oltre a quelle, per così dire, istituzionali. In Sciuscià, dopo il processo, gli imputati ormai ritenuti colpevoli lasciano
sotto scorta |'ampio cortile del tribunale per incanalarsi in una sorta di buio
cunicolo che li porterà di nuovo nella prigione. In Stazione Termini [1953] i due amanti, scortati da poliziotti e
ferrovieri, vengono condotti, dopo essere stati sorpresi nel vagone vuoto, al
commissariato della stazione attraverso quella specie di discesa agli inferi che è il buio sottopassaggio. in un certo senso,
e con implicazioni ben più ampie, lo stesso avviene all’inizio di Umberto D. quando le jeep della celere costringono i dimostranti, spauriti
e disorganizzati, ad imboccare un vicolo stretto e in ombra abbandonando la
piazza soleggiata della dimostrazione, ormai preclusa dai veicoli della polizia
che di traverso ne sbarrano l’entrata.
Franco La Polla, BN
BIANCO NERO, MENSILE
DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12,
1975
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