Una delle prime sere a Hollywood, mi invita a
casa sua Merle Oberon. La conoscevo, è una donna colta, straordinariamente
gentile. Ha organizzato per me un grande pranzo, invitando l'aristocrazia del
cinema, da Sam Goldwyn a Chaplin. E poiché sa che ho portato con me una copia
di Umberto D., riesce a convincermi
di proiettarlo in casa sua per tutta quella gente. La proiezione si svolge
regolarmente. Nessuno fiata. Proprio dietro di me, seduto in una poltrona, è
Chaplin. Ogni tanto non resisto alla tentazione e torcendo il collo,
furtivamente, lo guardo. E' impassibile, col mento fra le mani. La proiezione
finisce. Sopravviene nella sala un brusio confuso. Guardo Chaplin: tutti si
sono alzati, gesticolano, lui è ancora lì, tiene gli occhi chiusi, immobile.
Passano due minuti buoni. Mi prende un malessere sottile, una specie di panico.
Poi lui allarga le braccia, apre gli occhi; mi accorgo che piange come un
vitello. Dice: «Grande, De Sica, un grande film». Più tardi mi riparla di Umberto D.: lo definisce «film di
accademia ›; dice che preferisce Ladri di
biciclette ma più ancora gli piace Sciuscià:
«più vicino al pubblico, più accessibile, tale da commuovere l'intellettuale
come l'analfabeta››.
Vittorio De Sica, Gli anni più belli della mia
vita, "Tempo", 23 dicembre 1954
L'immagine e in:
Craig Johnson, Wilson, 2017, che contiene vari espliciti omaggi a Umberto D.
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