giovedì 23 febbraio 2017

I DRAMMI DEI FURBI

di Corrado Alvaro,

JULIEN Duvivier ha preso un soggetto italiano, Don Camillo di Guareschi, che e stato negli ultimi anni uno dei maggiori successi di libri italiani all’estero e che il successo estero ha imposto di rimbalzo in Italia, ne ha fatta la sceneggiatura con un autore francese e ci ha dato un film che sembra svolgersi in una provincia ricca e in vena di scherzi, dove il dramma politico diventa commedia di risentimenti e rivalità piccine ma con una grande aria di buonsenso, pressappoco come la provincia francese quando i francesi tornano alla provincia per una boccata d’aria e scrivono Clochemerle. Lo scenario di questo film è una di quelle ben costruite cittadine padane come Forlimpopoli, Imola, Guastalla, e cento altre. Non ho letto il libro di Guareschi e ignoro perciò quanto di esso si trovi in questa riduzione cinematografica, ma Duvivier non può essersi inventata la figura del prete che, come appare qui, non può essere uscita se non da una mentre italiana. Un prete la cui dote maggiore è una storica furberia, quale da noi si scambia facilmente con tradizione e cultura. Perché forse soltanto da noi succede, quando ci si trova sotto un qualunque regime o governo mal sopportato, di contare sempre sulla furberia d’un avversario di qualsiasi altra specie, pregustando che fra dieci o venti o cinquanta anni, esso riuscirà a fregare il suddetto malvisto governo. La fama più consolidata di furberia è attribuita fra noi al clero, e su di esso contava in genere l’opinione più paziente sotto il fascismo, con preciso intuito. Cosi una tale opinione si rallegrò alla stipulazione del Concordato, e non per altro che pel culto della furberia, l’alta furberia, o diplomazia come si dovrebbe chiamare, di un istituto secolare.
A causa d’un malinteso, cioè d‘un soggetto italiano trattato da un francese con l’occhio turistico di chi è chiamato a dare il suo mestiere in una faccenda che non lo appassiona più d’un viaggio, avremo un tipo di prete inedito fino a oggi nel nostro cinema, e forse anche nella letteratura e nel teatro Guareschi e Duvivier per [manca una riga, N.d.R.] [co]munisti purché sia ben chiaro che questi sono di gran lunga meno furbi di don Camillo, parroco di una cittadina padana, e tanto meno del vecchio vescovo che regge la diocesi. Meno furbi, e non dotati di quell’accortezza e opportunità che elimina blandamente tutte le difficoltà. Che il vescovo costringa, con dolcezza e senza darsene l’aria, il sindaco comunista a dargli il braccio e a passare tra due ali di popolo stupito; che lo accompagni all’inaugurazione della Casa del Popolo; che qui dia la sua benedizione al pubblico degli scalmanati per definizione, e che questo si faccia il segno della croce, e uno di quei tratti di furberia che deliziano il nostro pubblico educato allo spettacolo di contese di questo genere, e cui riduce ormai la storia. Non bisogna omettere che anche il sindaco comunista è furbo, e qualche tiro alle spalle del prete gli riesce; ma non i colpi grossi. Non devono riuscirgli perché egli è un personaggio di comodo. In fondo, la lotta e tra due protagonisti ugualmente simpatici, vecchi amici dall’infanzia e poi combattenti fianco a fianco nella prima guerra. Il prete sente le <<istanze popolari»; come il sindaco comunista battezza il figlio, e si confessa; non si capisce perché abbia la fama di anticristo e perché tutta la gente timorata del paese ne abbia orrore. Se il solo punto di attrito e l’osservanza religiosa, qui i comunisti non fanno che inginocchiarsi e segnarsi. Non si capisce dove sia il conflitto. Ma andate a cercare una stretta logica nel film, dove una serie di considerazioni di opportunità, di facilità, di volgarità, esulano da qualsiasi specie di ragionamento. E inutile andare a cercare ragioni dove una sola è la necessità, quella di fare parti adatte a Cervi e a Fernandel.
Vi sono altro fatti ugualmente esemplari nel film, ed e la vecchia maestra monarchica, la quale insegna a quei poveri ignoranti di anticristi un po’ di ortografia e di grammatica per i loro giornali murali troppo scorretti, e che alla fine muore tra il sindaco e il curato ammonendo che <<i re non si devono mai mandare via ». Uno dei trucchi peggiori dell’arte e di far dire certe sentenze opinabili ai bambini e ai moribondi la voce dell’innocenza e la voce dell’aldilà. Francamente, non è molto leale, non per altro ma per una questione di gusto. Sono colpi bassi pericolosi che possono suscitare l’indignazione proprio in chi si trova addirittura una lacrimetta nella guancia. [manca una riga, N.d.R.] del mestiere, ed egli ha da insegnare, è il rovesciamento dei caratteri; l’attribuzione a un personaggio, accettato con certi caratteri comuni, di qualità opposte a quella che la convenzione gli assegna. E’ il segreto della fattura di questo film.
Il sindaco si confessa e dice le preghiere di penitenza. Ma il prete gli tira un calcio mentre sta in ginocchio, perché il penitente gli ha rivelato di averlo aggredito una sera rompendogli una dozzina d’uova che aveva in tasca. Il sindaco comunista è tollerante, porta la bara della vecchia maestra monarchica, ma il prete ha un moschetto e un fucile mitragliatore. A un certo punto brandisce anche un bastone, di felice memoria, ma il Crocifisso (egli parla spesso col Crocifisso della chiesa, che gli dà suggerimenti di tolleranza e di democrazia con la voce di Ruggeri) lo sconsiglia di adoperarlo, facendo, contro un comizio, quello che il prete dice: la marcia su Roma.
Meno male. Il sindaco è robusto: e Gino Cervi con quel suo umore padano; ma il prete, Fernandel, e più robusto di lui e lo accoppa di pugni quando vengono alle mani. E scaraventa un tavolo su certi comunisti anticlericali venuti dalla città, che lo dileggiano seduti al caffé, ammaccandone ben quindici.
Tutto il film si regge su questa costante legge comica: l’inversione dei caratteri; il mite che è un leone, il fiero che è un agnello, il forzuto che prende le busse, il pio che viene alle mani, il dinamitardo che diventa filantropo, il mangiapreti che si inginocchia, il prete che dà un calcio al suo treppizzi in chiesa, e via dicendo. 
Il dialogo, evidentemente tradotto dal francese, ha quella convenzionalità delle mediocri traduzioni, e questo non è l’ultimo dei coefficienti d’una continua impressione di mistificazione sia pure con le regole del buon mestiere. Ma anche questo mestiere con le sue trovate, e ve ne sono, come per esempio la colluttazione fra prete e sindaco nella torre campanaria, delle cui vicende si ha l’impressione soltanto attraverso i rintocchi delle campane mosse dalle funi tra cui i due si battono, riesce stranamente indifferente. Viene il sospetto che se il cinema può essere deteriore come nessuna altra arte al mondo, capace di falsificazioni in ogni altra arte intollerabili, un buon mestiere applicato a qualcosa di intimamente falso perde valore e diventa offensivo. Ci si domanda che altro spicco avrebbe in un film mosso da motivi [mamca una riga, N.d.R.] la, con quello scenario, quelle squadrature, quell’ordine di portici e di edifici. C’è uno spreco di accorgimenti e di invenzioni attorno a un fatto della più grossolana ispirazione. Tutti, del resto, dal regista agli attori, hanno l’aria di fare un giuoco perché tale è la loro professione e sono pagati per farlo. E raro che questa idea venga in mente a proposito d’un film che pure è sempre un’operazione finanziaria cospicua. E, se uscendo ci si domanda che cosa sia stato turbato in noi da questo film ben condotto, spiritoso come un giornale umoristico, liscio, ci pare che la causa stia nella sua indifferenza morale su tutto e su tutti, in un qualunquismo che non significa saggezza e in un ossequio alla religione per quello che in essa è più formale e meno scomodo, e per il valore che le dà chi se ne serve come politica.
Il Mondo, 29 marzo 1952

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