Nei tempi che furono ci fu una lotta cruenta tra quanti (i preti dell'istituto ed il il famigerato Trupianoi) che sostenevano, a ragione, l'insegna DON ORIONE ed i giovani cadetti, c'ero io in mezzo, che alzavano il vessillo ORIONE.
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
lunedì 27 febbraio 2017
domenica 26 febbraio 2017
Miss Zasu Pitts
CHI È
ZASU PITTS
Zasu Pitts è giunta alla notorietà sventolando a guisa
di insegna un grembiule da cucina!
Senza mai aspirare alle sontuose vesti di prima
attrice essa ha costantemente scelto parti di schiava, o di domestica, o di sguattera ed ha sostenuto questi umili
caratteri con tale realismo drammatico che è divenuto familiare ad Hollywood il
detto “Se Zasu è nel film, certamente vi ruberà”.
Il film sonoro ha offerto campi più vasti alle sue
caratterizzazioni, fruttandole ultimamente un'isperata promozione a
proprietaria di un grande caffè nell’operetta musicale La moglie n. 66.
Miss Pitts è nata nelle vicinanze di San Francisco.
Non aveva ancora dieci anni quando la sua famiglia si trasferì ad Hollywood.
Vivendo in Hollywood essa più che ogni altra aveva il sacrosanto diritto di
entrare in cinematografia; e ben presto se ne valse per recitare
come comparsa in un film di Mary Pickford. Mary non tardò a distinguerla per In sua impareggiabile grazia
tra lo stuolo delle compagne e prese a proteggerla.
Ella ha recitato poi in Marcia Nuziale e L’avarizia, di Erich Von Stroheim, films con i
quali è riuscita a porsi in primo piano.
CINE SORRISO ILLUSTRATO PER IL PUBBLICO CINEMATOGRAFICO Anno VI – N. 15
– 13 Aprile 1930 (VIII)
giovedì 23 febbraio 2017
I DRAMMI DEI FURBI
di Corrado Alvaro,
A causa d’un malinteso, cioè d‘un soggetto italiano
trattato da un francese con l’occhio turistico di chi è chiamato a dare il suo
mestiere in una faccenda che non lo appassiona più d’un viaggio, avremo un tipo
di prete inedito fino a oggi nel nostro cinema, e forse anche nella letteratura
e nel teatro Guareschi e Duvivier per [manca
una riga, N.d.R.] [co]munisti purché sia ben chiaro che questi sono di gran
lunga meno furbi di don Camillo, parroco di una cittadina padana, e tanto meno
del vecchio vescovo che regge la diocesi. Meno furbi, e non dotati di
quell’accortezza e opportunità che elimina blandamente tutte le difficoltà. Che
il vescovo costringa, con dolcezza e senza darsene l’aria, il sindaco comunista
a dargli il braccio e a passare tra due ali di popolo stupito; che lo accompagni all’inaugurazione
della Casa del Popolo; che qui dia la sua benedizione al pubblico degli
scalmanati per definizione, e che questo si faccia il segno della croce, e uno
di quei tratti di furberia che deliziano il nostro pubblico educato allo spettacolo
di contese di questo genere, e cui riduce ormai la storia. Non bisogna omettere
che anche il sindaco comunista è furbo, e qualche tiro alle spalle del prete gli
riesce; ma non i colpi grossi. Non devono riuscirgli perché egli è un
personaggio di comodo. In fondo, la lotta e tra due protagonisti ugualmente
simpatici, vecchi amici dall’infanzia e poi combattenti fianco a fianco nella
prima guerra. Il prete sente le <<istanze popolari»; come il sindaco
comunista battezza il figlio, e si confessa; non si capisce perché abbia la fama
di anticristo e perché tutta la gente timorata del paese ne abbia orrore. Se il
solo punto di attrito e l’osservanza religiosa, qui i comunisti non fanno che
inginocchiarsi e segnarsi. Non si capisce dove sia il conflitto. Ma andate a cercare
una stretta logica nel film, dove una serie di considerazioni di opportunità,
di facilità, di volgarità, esulano da qualsiasi specie di ragionamento. E
inutile andare a cercare ragioni dove una sola è la necessità, quella di fare
parti adatte a Cervi e a Fernandel.
Vi sono altro fatti ugualmente esemplari nel film, ed
e la vecchia maestra monarchica, la quale insegna a quei poveri ignoranti di
anticristi un po’ di ortografia e di grammatica per i loro giornali murali
troppo scorretti, e che alla fine muore tra il sindaco e il curato ammonendo
che <<i re non si devono mai mandare via ». Uno dei trucchi peggiori
dell’arte e di far dire certe sentenze opinabili ai bambini e ai moribondi la
voce dell’innocenza e la voce dell’aldilà. Francamente, non è molto leale, non
per altro ma per una questione di gusto. Sono colpi bassi pericolosi che
possono suscitare l’indignazione proprio in chi si trova addirittura una
lacrimetta nella guancia. [manca una
riga, N.d.R.] del mestiere, ed egli ha da insegnare, è il rovesciamento dei
caratteri; l’attribuzione a un personaggio, accettato con certi caratteri
comuni, di qualità opposte a quella che la convenzione gli assegna. E’ il segreto
della fattura di questo film.
Il sindaco si confessa e dice le preghiere di
penitenza. Ma il prete gli tira un calcio mentre sta in ginocchio, perché il
penitente gli ha rivelato di averlo aggredito una sera rompendogli una dozzina
d’uova che aveva in tasca. Il sindaco comunista è tollerante, porta la bara
della vecchia maestra monarchica, ma il prete ha un moschetto e un fucile mitragliatore.
A un certo punto brandisce anche un bastone, di felice memoria, ma il Crocifisso
(egli parla spesso col Crocifisso della chiesa, che gli dà suggerimenti di
tolleranza e di democrazia con la voce di Ruggeri) lo sconsiglia di adoperarlo,
facendo, contro un comizio, quello che il prete dice: la marcia su Roma.
Meno male. Il sindaco è robusto: e Gino Cervi con quel
suo umore padano; ma il prete, Fernandel, e più robusto di lui e lo accoppa di
pugni quando vengono alle mani. E scaraventa un tavolo su certi comunisti anticlericali
venuti dalla città, che lo dileggiano seduti al caffé, ammaccandone ben
quindici.
Tutto il film si regge su questa costante legge
comica: l’inversione dei caratteri; il mite che è un leone, il fiero che è un
agnello, il forzuto che prende le busse, il pio che viene alle mani, il
dinamitardo che diventa filantropo, il mangiapreti che si inginocchia, il prete
che dà un calcio al suo treppizzi in chiesa, e via dicendo.
Il dialogo, evidentemente tradotto dal francese, ha
quella convenzionalità delle mediocri traduzioni, e questo non è l’ultimo dei
coefficienti d’una continua impressione di mistificazione sia pure con le
regole del buon mestiere. Ma anche questo mestiere con le sue trovate, e ve ne sono,
come per esempio la colluttazione fra prete e sindaco nella torre campanaria,
delle cui vicende si ha l’impressione soltanto attraverso i rintocchi delle campane
mosse dalle funi tra cui i due si battono, riesce stranamente indifferente.
Viene il sospetto che se il cinema può essere deteriore come nessuna altra arte
al mondo, capace di falsificazioni in ogni altra arte intollerabili, un buon
mestiere applicato a qualcosa di intimamente falso perde valore e diventa
offensivo. Ci si domanda che altro spicco avrebbe in un film mosso da motivi
[mamca una riga, N.d.R.] la, con quello scenario, quelle squadrature, quell’ordine
di portici e di edifici. C’è uno spreco di accorgimenti e di invenzioni attorno
a un fatto della più grossolana ispirazione. Tutti, del resto, dal regista agli
attori, hanno l’aria di fare un giuoco perché tale è la loro professione e sono
pagati per farlo. E raro che questa idea venga in mente a proposito d’un film
che pure è sempre un’operazione finanziaria cospicua. E, se uscendo ci si domanda
che cosa sia stato turbato in noi da questo film ben condotto, spiritoso come
un giornale umoristico, liscio, ci pare che la causa stia nella sua
indifferenza morale su tutto e su tutti, in un qualunquismo che non significa saggezza
e in un ossequio alla religione per quello che in essa è più formale e meno
scomodo, e per il valore che le dà chi se ne serve come politica.
Il Mondo, 29 marzo 1952
mercoledì 22 febbraio 2017
Volti del fu cinema messinese
La signora Maria La Scala
era proprietaria del cinema APOLLO
Il signor Arturo Arena
era proprietario dei cinema GARDEN e AURORA
Il signor Giovanni Bellamacina
gestiva il cinema SAVOIA
Il signor Gaetano Crisafulli
il cinema LUX
Il signor Francesco Loteta
era proprietario del cinema TRINACRIA
Il sigror Matteo Scozzari
gestiva il cinema PELORO
Il signor Carmelo Sterrantino
il cinema LUX
Foto riportate sulla GAZZETTA DEL SUD il 16 marzo 1954
lunedì 20 febbraio 2017
Lardani unforgettable
Ballata per un pistolero è un film di
Alfio Caltabiano
(1932 - 2007)
alias Al Norton altre volte Alf Randal o Alf Thunder, egregio stunman del fu cinema italiota. I titoli di Iginio Lardani (uncredited) scorrono per un pugno di secondi e, come vedete, lasciano il segno.domenica 19 febbraio 2017
VITA DI HOLLYWOOD - LE COMPARSE
Vi sono leggende che è onesto sfatare e tutte le volte che le nostre
funzioni ci mettono a contatto con i
capi d'una Casa americana, essi ci invitano a dire tutta la verità al
pubblico sulla vita dei debuttanti a Hollywood. Troppa gente crede che negli
studi californiani si guadagni bene, e non serve che le autorità americane
diffidino il pubblico, giacché ogni giorno sbarcano degli illusi. Le porte
rimangono ostinatamente chiuse e coloro che le sorvegliano non si lasciano intenerire.
Ogni studio è un tempio in cui si elaborano i films nel più grande mistero e la
disciplina permette ai direttori di lavorare in pace.
La prima impressione dello straniero che gira per le vie di Hollywood è
quella che vi sono molte donne graziose, e chi non è bene informato le crede
tutte vedette. Invece non sono altro che debuttanti chiamate qui “extra” e che
cercano di far da comparse attendendo meglio. Certo si gira molto ad Hollywood,
perché non tutti i films vengono esportati, ma ciò non impedisce che migliaia
di comparse siano senza lavoro, dato che vengono impiegate a caso, i “ metteurs
en scène» non sono mai imbarazzati e finiscono sempre col trovare il tipo che
cercano. D'altro conto, non hanno questa preoccupazione, giacchè in ogni
«studio» vi è un «casting-director›› incaricato di reclutare il personale
artistico. Gli si dice prima che occorrono due o trecento comparse
corrispondenti a date condizioni. Non vi è che l'imbarazzo della scelta.
Infatti, tutte le mattine gli “extra” si presentano al suo ufficio, che è
costruito in modo speciale. Egli è separato dal mondo esteriore da chiusure
solide e coloro che vogliono farsi scritturare devono comparire uno alla volta
dinanzi ad uno sportello o ad una barriera.
Non si scambiano parole inutili.
L’artista piace o non piace. Un “casting director” è un uomo che il più
delle volle si rinchiude in un mutismo assoluto. l-la delle idee precise e non
ritorna mai sulle sue decisioni. Tuttavia nei periodi di calma.riceve la visita
dei sollecitatori. Prende nota delle loro capacità su un modulo e domanda
fotografie. Un debuttante che si sente rispondere: « Voi non avete alcuna
probabilità di riuscire. Non scrivo il vostro nome né voglio la vostra
fotografia, non ha che da andarsene e non più tornare, perché il direttore ha
buona memoria.
I moduli sono classificati in un determinato ordine. ll giorno in cui
l’ufficio ha l`incarico di ingaggiare diversi «extra» non ha che da ricercare
tra i moduli.
Da questo punto di vista, Hollywood è un paese straordinario. Lo si è
comparato alla Corte dei miracoli, e in ciò vi è qualcosa di vero. Vi sono dei
debuttanti che sono disgraziati di natura e che non disperano di comparire
dinanzi all'apparecchio. Qualche volta sono ricompensati, perché gli americani
ricercano la verità anche nei minimi dettagli. Sanno di poter trovare,
all’occorrenza, un gobbo o uno storpio. I senza impiego non l’ignorano e
sfilano dinanzi al «casting director›› e si fanno iscrivere.
Del resto gli americani non si stupiscono di nulla. Se un essere completamente deforme chiede di «girare› lo iscrivono. E' curioso constatare che un essere con un'infermità, diremo così, originale ha più probabilità di lavorare che non una bella figura elegante, dal sorriso delizioso. Ho detto più sopra che le giovani belle abbondano ad Hollywood. Si è tanto raccontato come debuttano le grandi artiste, che le sconosciute sognano di avere la stessa fortuna. Queste donne graziose vengono da tutte le parti. Si scoprono, fra le belle sollecitatrici, delle piccole impiegate stanche di stare negli uffici; qualche figlia di buona famiglia, che non ha voluto ascoltare i consigli dell'esperienza; danzatrici o comparse del “music hall”; signorine che hanno obliato ogni cosa per sperare in un avvenire migliore. Le une e le altre non sono molto felici, perché non simpatizzano fra di loro, sono gelose e devono dar prova di una costanza ammirevole. Se le interrogate singolarmente, vi accorgerete presto che hanno una grande opinione di sé stesse, e saprete che la loro capacità è uguale a quella di Mary Pickford, Gloria Swanson o Pola Negri. D’altronde sembrano dotate di ottime qualità e vi stupite che possano lavorare ad intervalli tanto lunghi. Ma è che il numero è troppo grande e che è impossibile farle lavorare tutte. E, poiché sono uguali, dal punto di vista della bellezza e della fotogenia, devono fidare soltanto nella loro fortuna personale. E' come alla lotteria: o guadagnano o perdono. Vi sono di quelle che invecchieranno facendo sempre le comparse, pur avendo le qualità di coloro che arriveranno.
A Hollywood si osserva pure che non tutti i debuttanti hanno la stessa costanza. Certuni insistono alcune settimane, altri mesi, altri lunghi anni. Bisogna distruggere anche la leggenda che la vita a Hollywood sia a buon mercato. Invece è molto cara e spesso una comparsa ch'è graziosa e ben vestita si accontenta di colazioni poco sostanziose. Spesso girano male. Gli uomini hanno la risorsa di impiegarsi nelle amministrazioni, sebbene non vi si rassegnino se non forzati dal bisogno. In quanto agli incorreggibili, si direbbe che hanno preso gusto alla miseria.
Hollywood non è un paradiso per tutti, ed è da augurarsi che questa verità penetri bene in coloro i quali s'immaginano che il cinema sia accessibile a chiunque sogna la gloria e la fortuna.
I. P.
CINE SORRISO ILLUSTRATO PER IL PUBBLICO CINEMATOGRAFICO Anno VI – N. 15
– 13 Aprile 1930 (VIII)
domenica 12 febbraio 2017
Racconto letterario e racconto iconico
«Per šukšin letteratura e cinema erano in sostanza un unico processo. E proprio in questa unità veniva alla luce, nella sua forza dirompente, il suo talento››.
La testimonianza di Sergej Gerasimov («lskusstvo kino», 1975, 1, p. 146-149, passim) sancisce la triplice modulazione espressiva della Erlebnis dello scrittore siberiano: interpretazione scenica, letteratura, cinema d'autore.
Un’interpretazione scenica è però accidentale rispetto al suo ruolo di autore, sulla pagina e sullo schermo. Accidentale nel senso di mediativa: la letteratura - testimonia ancora Gerasimov - è stata per lui il tramite più prossimo e immediato per spiegarsi col proprio lettore sugli avvenimenti che turbavano il suo animo: ed
ecco perché le sue pagine si distinguono per l`inconsueta leggerezza e libertà, sia nella scelta del tema e del materiale, sia nella forma dell'espressione artistica ››. E sono sceneggiature, racconti e romanzi (verbali e iconici), quelli di šukšin, che mancano totalmente di letterarietà, nel senso sveviano del termine: inutile e dannoso orpello, raffinata tautologia.
Essi sono scanditi in una lingua quella paesana arcaica, nella sua regione del'l'Altaj - cosi diversa da quella standardizzata del cittadino medio che vive in città: una lingua «bella, flessibile a cantilena », come lui la chiamava (intervista con C. Benedetti in « Nuova 'Generazione ››, n. 179, 28.9.1975, passim) e serrati in una sintassi essenzialmente paratattica. Hanno una struttura piana, elementare, quasi salmodica, cioè rincalzante, mai ellittica. Una struttura che da un lato ripropone i moduli della cultura contadina, lineare e continuativa, fatta di esperienze sedimentate nei secoli e prolungata e accresciuta di generazione in generazione con metodica chiarezza; e che dall'altro espone le condensazioni dell'Erlebnis, cioè la somma del vissuto di Vasilij Makàroviö: e non solo il vissuto “storico”,l'agglutinamento già sciolto delle sperimentazioni culturali, istituzionali, immaginative, oniriche, sentimentali; ma tutto quanto alla fine converge, attraverso il filtro della sensibilità, nella coscienza e che diventa _-per usare parole di šukšin -«forza del cuore » (C. Benedetti, int. cit.)
E la sensibilità, instimolata dall'ispirazione, torna ad attivare le fondazioni della coscienza e le « risolutive » forze del cuore nell'espressione artistica. In šukšin avviene con maturità e interdipendenza di manifestazioni - il racconto verbale e iconico e la mediazione drammaturgica - e con una piana saggezza che possiamo definire esiodea.
Di Esiodo šukšin ha la stessa forza di convinzione. La convinzione profonda di chi si sente portatore e custode d'una saggezza antica e insieme di una fede nuova che esige però mediazioni prudenti.
Per Esiodo il termine di fede fu la dike democratica che sottentrava alla società omerica, aristocratica, feudale e guerriera; per šukšin è la metanoia socialista che ha sgominato la società aristocratica feudale e guerrafondaia degli zar: e di questo fa argomento di discorso, e infine di poesia.
Come il sistema teologico-morale che Esiodo annuncia «è agganciato alla dike -personificazione numinosa del costume che fonda un ordinamento sociale come necessità, e insieme personificazione giustificatrice della vittoria di Zeus, che è il nume della serenità pacificatrice, tutore delle leggi tradizionali, della liberta politica e delle norme morali - così il sistema etico di šukšin verte sulla riconferma del valore decisamente storico e storicamente decisivo del socialismo nella terra russa; e sulla necessità di comporre e armonizzare, nel quadro di cambiamento di mentalità che ogni rivoluzione comporta, nuove forme di vita associata in cui la saggezza secolare degli uomini della terra «[nei primi anni della rivoluzione ancora l`ottanta per cento dei russi eran contadini) non sia travolta e guastata dalle irrequietudini e dagli scompensi che seguono all'inurbamento e al brusco aggiornamento industriale e tecnologico.
Ma non c’è antagonismo - šukšin ha ripetutamente insistito su questo anche nella intervista pubblicata postuma da Benedetti, proprio per rintuzzare quei critici che lo censuravano con queste motivazioni [in: «Nuova generazione ››, n. 179, cit., passim) - tra città e campagna. E' una semplificazione di comodo, dice Vasilij Makàrovic. Una riduzione che non regge.
« Quando i critici mi chiamano “scrittore contadino" non hanno ragione perché con una etichetta del genere rendono più stretto del reale il senso e l'importanza di questo fenomeno. Comunque a me piacciono quei cosiddetti "scrittori contadini" perché sono persone oneste. So bene che se arrivano in alto, ad occupare posti di scrittore o letterato, è perché hanno talento. Cioè la loro promozione non avviene a caso. Anzi, mi sembra che si possa parlare di un vero e proprio corso obbligatorio. L'arrivare, nel campo della letteratura, è una conclusione logica e necessaria. Forse, per questo, sono scrittori più naturali e piacciono al nostro lettore di oggi. Certo, ora, io non voglio fare dei confronti. Non sostengo intatti che gli scrittori "cittadini" non sono in grado di creare veri valori letterari. E del resto non voglio nemmeno usare questo termine di “scrittori cittadini" che, come quello di “scrittori contadini" è troppo stretto, offensivo ››.
Epperò -- fatto salvo questo "distingue" - è presente indubbiamente in šukšin, nella sua opera letteraria come in quella cinematografica, una tenace e appassionata “religione”. La religione tutta esiodea della terra che nasce dall'amore per essa e che la madre terra nutre di generazione in generazione a misura del sudore ch'essa riceve.La fertilità della terra insemina questa religione - religione intesa nel senso di una struttura solidale di credenze e di valori vissuti che hanno il potere di religare una certa comunità umana - la quale nutre, accanto alla custodia di tradizioni vetuste, una profonda esigenza di giustizia, e l'amore al lavoro, e la costanza della fatica; ed anche quel sobrio e burbero portamento, che questa gente si reca addosso e che Vasilij Maikàrovië allega alla quieta faccia dolorosa dei suoi ultimi anni, quando già il male mortale lo insidiava e quando una tranquilla inquietudine gli trascriveva sul viso la domanda più volte ripetuta: «perché vivere se non si sa quando si muore? ”
La testimonianza di Sergej Gerasimov («lskusstvo kino», 1975, 1, p. 146-149, passim) sancisce la triplice modulazione espressiva della Erlebnis dello scrittore siberiano: interpretazione scenica, letteratura, cinema d'autore.
Un’interpretazione scenica è però accidentale rispetto al suo ruolo di autore, sulla pagina e sullo schermo. Accidentale nel senso di mediativa: la letteratura - testimonia ancora Gerasimov - è stata per lui il tramite più prossimo e immediato per spiegarsi col proprio lettore sugli avvenimenti che turbavano il suo animo: ed
ecco perché le sue pagine si distinguono per l`inconsueta leggerezza e libertà, sia nella scelta del tema e del materiale, sia nella forma dell'espressione artistica ››. E sono sceneggiature, racconti e romanzi (verbali e iconici), quelli di šukšin, che mancano totalmente di letterarietà, nel senso sveviano del termine: inutile e dannoso orpello, raffinata tautologia.
Essi sono scanditi in una lingua quella paesana arcaica, nella sua regione del'l'Altaj - cosi diversa da quella standardizzata del cittadino medio che vive in città: una lingua «bella, flessibile a cantilena », come lui la chiamava (intervista con C. Benedetti in « Nuova 'Generazione ››, n. 179, 28.9.1975, passim) e serrati in una sintassi essenzialmente paratattica. Hanno una struttura piana, elementare, quasi salmodica, cioè rincalzante, mai ellittica. Una struttura che da un lato ripropone i moduli della cultura contadina, lineare e continuativa, fatta di esperienze sedimentate nei secoli e prolungata e accresciuta di generazione in generazione con metodica chiarezza; e che dall'altro espone le condensazioni dell'Erlebnis, cioè la somma del vissuto di Vasilij Makàroviö: e non solo il vissuto “storico”,l'agglutinamento già sciolto delle sperimentazioni culturali, istituzionali, immaginative, oniriche, sentimentali; ma tutto quanto alla fine converge, attraverso il filtro della sensibilità, nella coscienza e che diventa _-per usare parole di šukšin -«forza del cuore » (C. Benedetti, int. cit.)
E la sensibilità, instimolata dall'ispirazione, torna ad attivare le fondazioni della coscienza e le « risolutive » forze del cuore nell'espressione artistica. In šukšin avviene con maturità e interdipendenza di manifestazioni - il racconto verbale e iconico e la mediazione drammaturgica - e con una piana saggezza che possiamo definire esiodea.
Di Esiodo šukšin ha la stessa forza di convinzione. La convinzione profonda di chi si sente portatore e custode d'una saggezza antica e insieme di una fede nuova che esige però mediazioni prudenti.
Per Esiodo il termine di fede fu la dike democratica che sottentrava alla società omerica, aristocratica, feudale e guerriera; per šukšin è la metanoia socialista che ha sgominato la società aristocratica feudale e guerrafondaia degli zar: e di questo fa argomento di discorso, e infine di poesia.
Come il sistema teologico-morale che Esiodo annuncia «è agganciato alla dike -personificazione numinosa del costume che fonda un ordinamento sociale come necessità, e insieme personificazione giustificatrice della vittoria di Zeus, che è il nume della serenità pacificatrice, tutore delle leggi tradizionali, della liberta politica e delle norme morali - così il sistema etico di šukšin verte sulla riconferma del valore decisamente storico e storicamente decisivo del socialismo nella terra russa; e sulla necessità di comporre e armonizzare, nel quadro di cambiamento di mentalità che ogni rivoluzione comporta, nuove forme di vita associata in cui la saggezza secolare degli uomini della terra «[nei primi anni della rivoluzione ancora l`ottanta per cento dei russi eran contadini) non sia travolta e guastata dalle irrequietudini e dagli scompensi che seguono all'inurbamento e al brusco aggiornamento industriale e tecnologico.
Ma non c’è antagonismo - šukšin ha ripetutamente insistito su questo anche nella intervista pubblicata postuma da Benedetti, proprio per rintuzzare quei critici che lo censuravano con queste motivazioni [in: «Nuova generazione ››, n. 179, cit., passim) - tra città e campagna. E' una semplificazione di comodo, dice Vasilij Makàrovic. Una riduzione che non regge.
« Quando i critici mi chiamano “scrittore contadino" non hanno ragione perché con una etichetta del genere rendono più stretto del reale il senso e l'importanza di questo fenomeno. Comunque a me piacciono quei cosiddetti "scrittori contadini" perché sono persone oneste. So bene che se arrivano in alto, ad occupare posti di scrittore o letterato, è perché hanno talento. Cioè la loro promozione non avviene a caso. Anzi, mi sembra che si possa parlare di un vero e proprio corso obbligatorio. L'arrivare, nel campo della letteratura, è una conclusione logica e necessaria. Forse, per questo, sono scrittori più naturali e piacciono al nostro lettore di oggi. Certo, ora, io non voglio fare dei confronti. Non sostengo intatti che gli scrittori "cittadini" non sono in grado di creare veri valori letterari. E del resto non voglio nemmeno usare questo termine di “scrittori cittadini" che, come quello di “scrittori contadini" è troppo stretto, offensivo ››.
Epperò -- fatto salvo questo "distingue" - è presente indubbiamente in šukšin, nella sua opera letteraria come in quella cinematografica, una tenace e appassionata “religione”. La religione tutta esiodea della terra che nasce dall'amore per essa e che la madre terra nutre di generazione in generazione a misura del sudore ch'essa riceve.La fertilità della terra insemina questa religione - religione intesa nel senso di una struttura solidale di credenze e di valori vissuti che hanno il potere di religare una certa comunità umana - la quale nutre, accanto alla custodia di tradizioni vetuste, una profonda esigenza di giustizia, e l'amore al lavoro, e la costanza della fatica; ed anche quel sobrio e burbero portamento, che questa gente si reca addosso e che Vasilij Maikàrovië allega alla quieta faccia dolorosa dei suoi ultimi anni, quando già il male mortale lo insidiava e quando una tranquilla inquietudine gli trascriveva sul viso la domanda più volte ripetuta: «perché vivere se non si sa quando si muore? ”
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976
giovedì 9 febbraio 2017
Vittorio Cramer off off voce per Fritz Lang
Clip tratte da
Anche i boia muoiono (Hangmen Also Die) (1943)
voce fuori campo
e
Maschere e pugnali (Cloak and Dagger) (1946)
voce soldato tedesco
Anche i boia muoiono (Hangmen Also Die) (1943)
voce fuori campo
e
Maschere e pugnali (Cloak and Dagger) (1946)
voce soldato tedesco
mercoledì 8 febbraio 2017
Marion Davies o Renée Adorée
Il film a colori favorisce le bionde
vantaggioso alle bionde che alle brune. Queste
esigenze tecniche hanno originato fra le artiste una proporzione di due bionde
contro una bruna. Fra le bionde, le più in vista sono: Marion Davies, Vivian e
Rosetta Duncan, Edwina Booth, Mary Doran, Leila Hyams, Kay Johnson, Carlotta
King, Gwen Lee, Bessie Love, Helene Millard, Catherine Dale Oven e Anita Page. Fra
le brune figurano in prima linea: Renée Adorée, Julia Faye, Dorothy Sebastian,
Sally Starr e Raquel Torres.
CINE SORRISO ILLUSTRATO PER IL PUBBLICO CINEMATOGRAFICO Anno VI – N. 15
– 13 Aprile 1930 (VIII)
giovedì 2 febbraio 2017
Diario di un soggettista - La personalità dell'artista
Ogni presupposto di film, svolto logicamente, dà una
soluzione fissa, come la somma di due numeri dà invariabilmente lo stesso
risultato. Quasi tutte le soluzioni sono state trovale, come in arte tutti i
soggetti sono stati trattati, e da secoli l’umanità ricanta sempre le medesime
favole.
C’é una sola differenza fra tante opere, ed è la personalità dell’artista, la sua prospettiva, la sua
concezione del mondo e della realtà. Queste cose le sanno i letterati. Ma al
cinema la notizia non è ancora arrivata.
CORRADO ALVARO
(Da “Scenario “, Marzo XV).
BIANCO
E NERO Anno I –
N. 3 – 31 Marzo 1937 - XV
mercoledì 1 febbraio 2017
Cattivi di classe
Dan Duryea (1907 – 1968)
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