In un paese che, per molte ragioni, e malgrado tutto, è ancora legato
al rispetto di certi valori tradizionali, a Robert Bresson è riuscito il colpo
incredibile di trovare dei finanziatori per tradurre in un film il romanzo del
povero Georges Bernanos, il << Journal
d'un cure de campagne >>. Si tratta di un’opera cinematografica di
raro interesse; anche se è chiaro che sul piano morale quei bei tipi di
capitalisti che hanno affidato i loro milioni a Bresson meritano almeno la
stessa riconoscenza, da parte degli spettatori illuminati, guadagnata dal regista.
I problemi del male, della grazia, della carità, del destino com’è abbastanza
noto, sono affrontati nel suo maggior romanzo dal Bernanos attraverso la figura
d’un prete di campagna candido, disarmato, malato ma dall'incorruttibile fede.
È un dramma quasi sempre interiore, e spinto, ai fini artistici, ai limiti
delle possibilità romanzesche. La Chiesa chiede infatti ai suoi servi impegnati
<< nel secolo >> che siano di buona salute, apostoli vigo-rosi e
soldati senza debolezze fisiche. Accade invece che il giovane protagonista del Diario sia affetto- da un tumore mortale,
malattia piuttosto rara nei giovani e ad ogni modo difficile da diagnosticare alle
origini. Il sacerdote trova nel piccolo centro, delle cui anime è il pastore,
diffidenza cocciuta, inerte, cieca da parte dei villici mentre il << castello
>> ospita un << nodo di vipere >> difficile da sciogliere. Malato
a morte, ma senza saperlo, il prete ha la fatale rivelazione da un medico volteriano;
scrive le ultime pagine del Diario in uno di quei caffeucci vicino alle
stazioni ; poi va a morire tra le braccia di un compagno di seminario, che ha lasciato
la veste sacerdotale per accompagnarsi con una donna. Prima di morire mormora:
<< Tutto è grazia >> .
Bresson, scegliendo il prete di Bernanos a
protagonista del suo film, sapeva di porsi una sorta di scommessa. Nel Diario di un curato di campagna non vi è
nulla di ciò che non solo i maneggioni ma i teorici dello << specifico
filmico >> -ritengono << cinematografico >>. Manca il sesso;
manca l’avventura; non c’è ombra di trama; non c’è << lieto fine >>.
E manca soprattutto il << movimento >>. A parte le difficoltà tecniche,
penso che sia più facile ricavare un film da Proust, dal romanzo nel romanzo intitolato
<< Un amour de Swann» per
esempio (idea che, a quanto ne so, non è ancora venuta in testa a nessuno), che
dal romanzo di Bernanos. Eppure Bresson ha quasi vinto la scommessa. Il suo
film, senza essere <<d’avanguardia >>, ha un fascino singolare. Non
ha, a propriamente parlare, una tradizione cinematografica. Soltanto, ma in un’altra
direzione spirituale, la coppia Coward-Lean con Breve incontro in Inghilterra ha tentato di dirci, come Bresson,
qualcosa di ineffabile. E sempre sul terreno della lezione, del messaggio, di
una certa letteratura francese che si rivolge << all’uomo interiore
>>: per Breve incontro la
lezione viene dalla << Princesse de
Clèves >> di Madame de La Fayette, per il film di Bresson bisogna rimontare,
attraverso Bernanos, alle << Pensées
>> di Pascal. Un particolare rivelatore consiste, nel Journal di un curé de campagne, nella parte
artisticamente più debole: quella che si svolge nel << castello >>
tra i ricchi, affetti, direi organicamente, da alcuni peccati mortali. Che è
l’unica che offra partiti di interesse pratico, nella quale affiori l’ombra d'una trama. Soltanto dalla civiltà
francese, da una nazione in cui una società è ancora viva e in fermento, in cui la
passione delle idee riesce ancora a muovere il capitale privato, ci poteva
venire il segno, restato quasi unico a Venezia, che il cinema non è morto, e
che la Francia è il luogo fisico e spirituale delle sue prove più durature e
virili.
Per dare maggiore autenticità al racconto, il Bresson
è ricorso a un giovane, Claude Laydu, che era alla sua prima interpretazione;
mentre l’ambiente, campagne deserte, strade
autunnali, caffeucci, povere case, è lo stesso, nel nord della Francia,
che ha ispirato il testo originale di Bernanos. Altissima prova di stile, il Diario- non ha un
cedimento: è visto e raccontato con una puntualità stilistica da dar le vertigini.
È una di quelle opere che si accettano << in toto->> o si
respingono senza remissione. Di fronte a film pur importanti e vitali come L’asso nella manica, il Diario fa la figura di << mo-stro
>> sacro'. Ma è certo che alcuni passi: le attese mistiche all’alba e al
tramonto, il dialogo finale con il buon curato di- Torcy, sono di tale potenza
da commuovere anche lo spettatore più distratto, il più tenace ammiratore dei
tipetti formato Esther Williams.
È curioso questo fatto: mentre tra il diario-romanzo e
il diario-film i << contenuti >> sono quasi identici, tra Bernanos,
l'autore, e Bresson, il regista, dal punto di vista espressivo, c’è una
differenza sostanziale. Bernanos è un narratore romantico, impegnato, pieno di
furore biblico, di canonico disprezzo per gli atei, contro i quali, nelle sue
pagine, balenano, d’improvviso, fulminanti invettive. Bresson è, invece, un
narratore avviluppante e pacato, lucido e puntuale. Un tipo per cui la lingua,
lo stile son tutto: come il Dreyer di Dies irae. E se volete un paragone
letterario', pensate al Flaubert moralista e stilista di <Madame Bovary >> e di <<Un coeur simple >>.
1951.
Pietro Bianchi, Maestri del cinema